Su Liberal in edicola oggi e domani abbiamo pubblicato (in due puntate) la traduzione di uno splendido saggio scritto da Robert Kagan sugli assetti geopolitici globali presenti e futuri. Kagan, autore (tra l'altro) della micro-bibbia neocon “Of Paradise and Power: America and Europe in the New World Order” e del più recente “The Return of History and the End of Dreams”, è un editorialista fisso del Washington Post e - oltre ad essere membro del Council for Foreign Relations e del Carnegie Endowment for International Peace - è uno dei consiglieri per la politica estera di John McCain. Il suo saggio è molto lungo (probabilmente troppo, per essere pubblicato su un blog). Ma per una volta vogliamo infrangere la “netiquette” e regalarlo integralmente ai nostri lettori.
Il mondo non appare oggi come la maggior parte di noi aveva previsto dopo la caduta del muro di Berlino nel 1989. Si riteneva che la competizione fra grandi potenze avrebbe ceduto il posto ad un’ era di geoeconomia. Si riteneva che la competizione ideologica fra democrazia ed autocrazia sarebbe terminata con la "fine della storia." Erano in pochi a prevedere che il potere senza precedenti degli Stati Uniti avrebbe dovuto affrontare così tante sfide, non soltanto da parte delle potenze emergenti, ma anche di vecchi e cari alleati. Fino a che punto questo destino era già scritto nelle stelle e fino a che punto nella natura stessa degli americani? E che cosa può fare ora l’America a tale riguardo – ammesso che qualcosa possa fare?
Per quanto possa essere difficile da ricordare, i problemi degli Stati Uniti con il resto del mondo -- o, piuttosto, i problemi del mondo con gli Stati Uniti – iniziarono ben prima che George W. Bush andasse al potere. Il Ministro degli Esteri francese, Hubert Védrine, si lamentava di questa "iperpotenza" già nel 1998. Nel 1999, in queste pagine, Samuel Huntington affermava che gran parte del mondo considerava gli Stati Uniti una "superpotenza canaglia," "invadente, interventista, sfruttatrice, unilateralista, egemonica ed ipocrita."
Sebbene Huntington ed altri ne attribuissero la colpa al fatto che l’amministrazione Clinton si vantasse costantemente della "potenza americana e della virtù americana," non erano stati i Clintoniani ad inventare il moralismo americano. L’origine del problema andava ricercata nel cambiamento geopolitico che era seguito al crollo dell’Unione sovietica ed ai sottili effetti psicologici che questo cambiamento ebbe sul modo in cui gli Stati Uniti e le altre potenze percepivano se stesse ed i loro reciproci rapporti. Alla fine degli anni novanta del secolo scorso, si parlava già di una crisi delle relazioni transatlantiche e, nonostante i reciproci scambi di accuse, la causa fondamentale era semplice da individuare: gli alleati non avevano più bisogno gli uni degli altri come in passato. La spinta a cooperare durante la Guerra Fredda era per un quarto dovuta ad una sorta di illuminata virtù e per i restanti tre quarti ad una fredda necessità. La dipendenza reciproca, e non certo l’affetto reciproco, erano state il fondamento dell’alleanza. Quando venne meno la minaccia sovietica, le due parti furono libere di andarsene ognuna per conto proprio.
Ed in un certo qual modo esse lo fecero. L’Europa, liberata dalla minaccia e dalla paura dell’Unione sovietica, si concentrò con tutte le sue forze nella difficile opera di creazione della nuova Europa. Negli anni novanta del secolo scorso, l’Unione europea definì un nuovo corso dell’evoluzione umana, dimostrando che le nazioni possono mettere in comune le loro sovranità e sostituire il potere della politica con il diritto internazionale. Ciò ha contribuito ad alimentare un’era caratterizzata dalla codificazione di norme e dalla creazione di istituzioni internazionali. In molti paesi del mondo, ma in particolar modo in Europa, un nuovo dibattito internazionale in tema di “governo globale” soppiantò i vecchi timori dell’epoca della Guerra Fredda. Le preoccupazioni relative ai cambiamenti climatici portarono all’elaborazione del Protocollo di Kyoto. Una nuova Corte Penale Internazionale era in fase di gestazione. In molto operarono a favore della ratifica internazionale del Trattato sulla messa al bando degli esperimenti nucleari (CNTBT), di un rafforzamento del regime di non-proliferazione nucleare e della redazione di un nuovo trattato per la messa al bando delle mine anti-uomo. Il primo Ministro britannico Tony Blair parlava di una "dottrina della comunità internazionale" nella quale gli interessi comuni della comunità internazionale avevano la meglio sui singoli interessi delle nazioni.
Negli Stati Uniti, il dibattito rimase di natura più tradizionale. I funzionari dell’amministrazione Clinton condividevano la prospettiva europea, ma ritenevano altresì che gli Stati Uniti avessero un ruolo speciale da svolgere quali garante della sicurezza internazionale – il leader "indispensabile" della comunità internazionale – secondo modalità tradizionali, orientate al potere e stato-centriche. Di fronte alle crisi su Taiwan o in Iraq ed in Sudan, inviavano portaerei e lanciavano missili, spesso in modo unilaterale. Persino Bill Clinton non avrebbe avallato il Trattato sulle mine anti-uomo o il Tribunale Penale Internazionale senza salvaguardie per garantire il ruolo speciale degli Stati Uniti a livello mondiale. Ammoniva sul fatto che esistessero ancora "predatori" internazionali, terroristi e "nazioni fuorilegge" alla ricerca di "arsenali di armi nucleari, chimiche e biologiche nonché dei missili necessari ad utilizzarle." Neppure i funzionari dell’amministrazione Clinton riuscivano a nascondere la loro insofferenza nei confronti di ciò che consideravano una mancanza di serietà da parte dell’Europa in relazione a questi pericoli, in special modo l’Iraq. Come ebbe a dire l’allora Segretario di Stato Madeleine Albright, "se dobbiamo usare la forza è perché siamo l’America. . . . Vediamo oltre, guardiamo al futuro."
La fine della Guerra Fredda dette a tutti la possibilità di guardarsi con una prospettiva nuova ed agli Europei, in particolare, non piacque ciò che videro. La società americana appariva loro grossolana e brutale – proprio come era apparsa ai loro predecessori del XIX secolo. Védrine chiedeva all’Europa di opporsi all’egemonia degli Stati Uniti in parte come forma di difesa contro il diffondersi dell’Americanismo. Dichiarò: "Non possiamo accettare . . . un mondo politicamente unipolare" e "questa è la regione per la quale stiamo lottando per un mondo multipolare".
Alla fine degli anni novanta del secolo scorso, i tempi del multipolarismo sembravano maturi. Anche le relazioni degli Stati Uniti con la Cina e la Russia si stavano inasprendo. Per lungo tempo i cinesi si erano lamentati delle ambizioni "superegemoniche degli Stati Uniti" e Beijing legittimamente riteneva Washington ostile nei confronti del crescente potere della Cina. Il nazionalismo anti-americano esplose dopo il bombardamento accidentale dell’ambasciata cinese a Belgrado nel 1999 da parte di piloti statunitensi durante la guerra in Kosovo, che sia i cinesi che i russi ritenevano illegale. Il Ministro degli esteri russo, Igor Ivanov, definì quella guerra la peggiore aggressione verificatasi in Europa dalla Seconda Guerra mondiale. A questo sentimento russo non contribuiva di certo il fatto che il 1999 fu anche l’anno in cui la Repubblica ceca, l’Ungheria e la Polonia entrarono a far parte della NATO. Stavano finendo i giorni di una Russia quiescente, desiderosa di integrarsi nell’Occidente liberale, alle condizioni dell’Occidente stesso. Nell’agosto del 1999 il Presidente russo Boris Yeltsin nominò primo Ministro Vladimir Putin che, a settembre, invase la Cecenia ed in meno di un anno passò a guidare la Russia con una politica più nazionalistica e meno democratica.
BUSH, IL REALISTA
George W. Bush salì al potere in questo mondo sempre più diviso. Anche prima di essere eletto, i vignettisti lo ritraevano come un cowboy texano con la rivoltella a sei colpi ed il laccio. Il politico francese Jack Lang lo definì "assassino seriale". Il 7 gennaio 2001 Martin Kettle del Guardian scrisse sul Washington Post che "la crescente insofferenza del mondo" nei confronti degli Stati Uniti risaliva a ben prima di Bush, ma che la sua elezione rappresentò quella del "miglior sergente reclutatore che il nuovo anti-Americanismo avesse mai potuto sperare."
Ironia della sorte – una delle tante – fu che Bush salì al potere con la speranza di ridurre le pretese degli Stati Uniti a livello mondiale. In politica estera il realismo era di moda. Durante i dibattiti elettorali per le presidenziali, quando veniva chiesto quali principi avrebbero dovuto ispirare e guidare la politica estera degli Stati Uniti, il candidato
democratico, Al Gore, affermava che si trattava di una "questione di valori", mentre Bush affermava che si trattava di capire "cosa fosse nel supremo interesse degli Stati Uniti." Gore dichiarava che gli Stati Uniti, il "leader naturale" a livello mondiale, dovevano avere la "consapevolezza di dover svolgere una missione" e fornire agli altri popoli "una sorta di modello che li avrebbe aiutati ad essere più simili a noi". Bush affermava che gli Stati Uniti non sarebbero dovuti "andare in giro per il mondo dando lezioni su come comportarsi necessariamente in ogni situazione" e che questo era "un modo per non farci più considerare, una volta per tutte, i cattivi americani."
Ma neppure il realismo dell’amministrazione Bush si rivelò in grado di guadagnarsi consensi ed alleati a livello mondiale. I funzionari dell’amministrazione Bush avevano sprezzo per il dibattito internazionale degli anni novanta del secolo scorso. Nei primi nove mesi, l’amministrazione si ritirò dal negoziato di Kyoto, dichiarò la propria opposizione nei confronti della Corte Penale Internazionale e del Trattato sulla messa al bando degli esperimenti nucleari (CNTBT) ed iniziò a ritirarsi dal Trattato sui Missili anti-balistici (ABM). Alcuni di questi trattati erano già morti e sepolti all’epoca di Clinton, ma mentre quest’ultimo aveva cercato di placare la rabbia a livello internazionale tenendo viva la speranza che gli Stati Uniti avrebbero potuto in fondo ratificarli in futuro, Bush vi si opponeva in via di principio. Come negli anni venti del secolo scorso, i Repubblicani temevano quegli accordi che avrebbero potuto ridurre la sovranità americana. Su queste stesse pagine nel 2000, Condoleezza Rice, l’allora consigliere di Bush in materia di politica estera, che si auto-definiva una "seguace della Realpolitik," ebbe a lamentarsi di tutto quel gran parlare di "interessi umanitari" in un dibattito superficiale ed affettato. La politica estera degli Stati Uniti doveva essere radicata nel "solido terreno degli interessi nazionali” e non negli “interessi di un’illusoria comunità internazionale."
Alla base della nuova impostazione vi era un calcolo realistico: nel nuovo mondo successivo alla fine della Guerra Fredda, gli interessi e gli obblighi degli Stati Uniti si erano ridotti. Si rendeva necessaria una politica estera più circoscritta e basata sugli interessi nazionali. La maggior parte dei funzionari dell’amministrazione concordavano con la critica del politologo Michael Mandelbaum, pubblicata anch’essa su queste pagine nel 1996, secondo la quale l’amministrazione Clinton si era impegnata in una sorta di "opera sociale" internazionale nei Balcani e ad Haiti, dove non erano in gioco interessi nazionali vitali. Rispondendo alla domanda se avrebbe inviato truppe in Rwanda, il candidato Bush affermò che gli Stati Uniti non avrebbero dovuto "inviare truppe per fermare la pulizia etnica ed il genocidio in paesi al di fuori della portata dei nostri interessi strategici." Una volta saliti al potere, i realisti dell’amministrazione Bush – dal Vice-President Dick Cheney a Condoleeza Rice, dal Segretario alla Difesa Donald Rumsfeld al Segretario di Stato Colin Powell – erano tutti concordi nel ritenere che gli interventi umanitari e quelli di creazione, ricostruzione e consolidamento delle nazioni andassero evitati.
La strategia era quella di trasformare gli Stati Uniti in qualcosa di simile ad un fattore di equilibrio d’oltremare, un salvatore di ultima istanza,o, per dirla con le parole di Richard Haass, uno "sceriffo riluttante." Durante la campagna del 2000, la Rice parlò di una "nuova divisione del lavoro," nella quale le potenze locali avrebbero dovuto mantenere la pace a livello regionale, mentre gli Stati Uniti avrebbero fornito sostegno logistico ed informativo, ma non truppe di terra. Richard Perle invocava una nuova posizione militare nelle quale le forze di terra americane sarebbero state dimezzate. I problemi mondiali sarebbero stati affrontati non con gli eserciti, bensì con i missili di precisione. L’unica minaccia immediata – proveniente dagli stati canaglia muniti di missili a lungo raggio – avrebbe potuto essere affrontata unilateralmente tramite la difesa missilistica. Era il momento di una "pausa strategica," durante la quale gli Stati Uniti avrebbero potuto alleggerire il peso dei loro oneri a livello mondiale e prepararsi ad affrontare le minacce che avrebbero potuto emergere di lì ai prossimi venti o trenta anni. Secondo il parere dei realisti, un mondo nel quale gli interessi nazionali americani non fossero gravemente minacciati era un mondo nel quale il potere e l’influenza degli Stati Uniti avrebbero dovuto ridursi.
Per dirla in altri termini, gli Stati Uniti non erano più impegnati ad essere leader mondiale, per lo meno non come lo erano stati durante la Guerra Fredda. Nel 1990, a seguito della sconfitta del comunismo e dell’impero sovietico, Jeane Kirkpatrick sosteneva che gli Stati Uniti avrebbero dovuto cessare di accollarsi il peso di quegli "insoliti fardelli" che la leadership comporta e, "con il ritorno alla 'normalità', . . . tornare ad essere un paese normale." Come scrisse John Bolton in un suo saggio del 1997, era giunto il momento "di riconoscere che la nostra maggiore sfida ce la eravamo ormai lasciata alle spalle." Ormai il mondo era in grado di badare a se stesso e lo stesso valeva per gli Stati Uniti.
Questa fu essenzialmente la politica che Bush adottò nei primi nove mesi del suo mandato ed il resto del mondo comprese rapidamente il messaggio. Secondo un sondaggio effettuato dal Pew Research Center pubblicato nell’agosto del 2001, il 70% degli europei occidentali intervistati (l’85% in Francia) riteneva che l’amministrazione Bush adottasse le sue decisioni "soltanto in base agli interessi americani."
SIAMO TUTTI AMERICANI, MA . . .
Era questo il sentimento prevalente all’epoca in cui vi fu l’attacco terroristico dell’11 settembre 2001. Naturalmente gli attentati portarono ad una modifica della politica estera dell’amministrazione Bush, ma non si trattò di una vera rivoluzione dottrinale. L’amministrazione non abbandonò la sua impostazione basata sugli interessi nazionali. Il fatto era che la tutela d’interessi definiti in modo ancor più restrittivo – quali la difesa della madrepatria – richiesero all’improvviso una strategia più espansionistica ed aggressiva a livello mondiale. La "pausa strategica" era terminata e gli Stati Uniti si lanciavano di nuovo in un’estesa operazione di coinvolgimento a livello mondiale in quella che divenne nota come "guerra al terrorismo."
Ciò significava dunque che gli Stati Uniti erano tornati ad impegnarsi in un’attività di leadership mondiale? L’amministrazione Bush ritenne di sì. Tuttavia, nel mondo successivo alla fine della Guerra Fredda ed all’attacco dell’11 settembre , gravi ostacoli si frapponevano sulla via del ritorno al vecchio stile di leadership dell’epoca della Guerra Fredda.
Uno di questi era il comprensibile ripiegamento su se stessi degli americani e dei loro leader a seguito dell’11 settembre. Le prime avvisaglie del fatto che non si sarebbe facilmente ricreata la vecchia solidarietà nei confronti degli Stata Uniti vennero dall’Afghanistan. L’invasione dell’ Afghanistan – a differenza della Guerra in Kosovo e della prima Guerra del Golfo – aveva come primo obiettivo la sicurezza degli Stati Uniti e non la creazione di un "nuovo ordine mondiale." A differenza della guerra del Golfo nel 1991, quando George H. W. Bush cercò in tutti i modi di chiamare a raccolta la comunità internazionale, nella guerra in Afghanistan, la seconda amministrazione Bush, con molte delle sue figure di spicco ancora in posizioni di rilievo, si preoccupò di eliminare le basi di al Qaeda e di rovesciare il regime dei Talebani. Ciò significò agire rapidamente e senza quei problemi di gestione dell’alleanza che avevano assillato il Generale Wesley Clark in Kosovo.
Questo approccio più restrittivo non sorprende affatto, considerato il panico e la rabbia degli Stati Uniti. Ma non sorprende neppure il fatto che il resto del mondo non considerasse gli Stati Uniti un leader mondiale alla ricerca del bene a livello mondiale, bensì un furioso Leviatano esclusivamente concentrato a distruggere coloro che li avevano attaccati. Il mondo dimostrava meno comprensione e sostegno per questa iniziativa. E questo fu il secondo ostacolo che si frappose sulla via del ritorno al vecchio stile di leadership americana nel mondo: il resto del mondo, ivi compresi i più stretti alleati degli Stati Uniti, era anch’esso ripiegato e concentrato su se stesso.
Non si trattava di una fuga dalla realtà del dopo 11 settembre. Ciò che era accaduto agli Stati Uniti era accaduto soltanto a loro. In Europa e nella maggior parte degli altri paesi del mondo, la gente reagì con orrore, dolore e comprensione. Ma gli americani attribuirono a queste manifestazioni di solidarietà un significato molto maggiore rispetto al loro effettivo significato. La maggior parte degli americani, indipendentemente dalla loro appartenenza politica, ritennero che il mondo condividesse non soltanto la loro sofferenza ed il loro dolore, ma anche i loro timori, le loro ansie e paure nei confronti della minaccia terroristica e ritennero altresì che il mondo si sarebbe unito ad essi in una risposta comune. Alcuni osservatori americani ancora si aggrappano a questa illusione. Ma, in realtà, il resto del mondo non condivideva né i timori americani né la loro urgenza nel reagire. Gli europei provarono solidarietà nei confronti della superpotenza americana all’epoca della Guerra Fredda, quando l’Europa stessa era minacciata e gli Stati Uniti garantivano sicurezza. Ma con la fine della Guerra Fredda, ed anche dopo l’11 settembre, gli europei si sentivano relativamente sicuri. Soltanto gli americani erano spaventati.
Quando lo shock e l’orrore vennero meno, apparve chiaro che l’attentato terroristico dell’11 settembre non aveva modificato il fondamentale atteggiamento del mondo nei confronti degli Stati Uniti. I risentimenti restavano. Un sondaggio del Pew Research Center effettuato nel dicembre 2001 su un campione di leader d’opinione rivelò che se, da un lato, la maggior parte di essi "si doleva della triste esperienza che l’ America aveva dovuto affrontare", dall’altro , un numero altrettanto vasto di essi (il 70% degli intervistati nel mondo ed il 66% nell’Europa occidentale) riteneva che fosse "un bene per gli americani sapere cosa vuol dire essere vulnerabili." Molti leader d’opinione in tutto il mondo, ivi compresa l’Europa, affermarono di ritenere che "le politiche e le azioni americane nel mondo” fossero state una delle "cause principali" degli attacchi terroristici e che, in un certo senso, quelle azioni si erano loro ritorte contro.
Molti ritenevano altresì che gli Stati Uniti stessero intraprendendo la lotta contro il terrorismo esclusivamente nel loro interesse. Nell’Europa occidentale, il 66% dei leader d’opinione intervistati affermava di ritenere che gli Stati Uniti stessero pensando solo a se stessi. Ciò non sorprendeva affatto considerato il fatto che l’amministrazione Bush stava facendo ben poco per convincere gli alleati del contrario o trasformare la lotta in Afghanistan in una lotta per l’ordine internazionale.
Tuttavia gli americani non si percepivano affatto come egoisti ed interessati soltanto a se stessi. Un buon 70% dei leader d’opinione americani intervistati affermava di ritenere che gli Stati Uniti stessero agendo anche nell’interesse dei loro alleati. Questa discrasia delle relative percezioni metteva in luce uno dei problemi fondamentali del paradigma della "guerra al terrorismo". Gli americani, ritornati improvvisamente a svolgere un’opera di vasto coinvolgimento a livello mondiale, ritenevano di essere tornati anche a svolgere il ruolo di leader mondiale. La maggior parte dei paesi nel mondo non condividevano questa convinzione.
Giudicata di per sé, la guerra al terrorismo è stata di gran lunga il maggior successo di Bush. Dopo l’11 settembre nessun serio osservatore avrebbe immaginato che sarebbero trascorsi sette anni senza che si verificasse un ulteriore attacco terroristico sul suolo americano. Solo una nuda e cruda partigianeria ed un giustificabile timore di sfidare troppo la sorte hanno impedito all’amministrazione Bush di attribuirsi il merito di ciò che sette anni fa la maggior parte di noi avrebbe considerato quasi un miracolo. Inoltre, molti dei successi dell’amministrazione Bush sono stati resi possibili da una vasta cooperazione internazionale, in special modo con le potenze europee nei settori dello scambio di informazioni, delle attività di polizia e della sicurezza interna. Indipendentemente da eventuali insuccessi dell’amministrazione Bush, va rilevato che essa è riuscita a proteggere gli americani da un ulteriore attacco in patria. La prossima amministrazione potrà ritenersi fortunata se potrà dire altrettanto – e sarà perdente nel confronto con l’amministrazione Bush nel caso in cui non possa farlo.
Il problema insito nel paradigma della "guerra al terrorismo" non è il fatto che essa abbia fallito nel suo principale obiettivo di vitale importanza. Il problema è che il paradigma sul quale basare tutta la politica estera degli Stati Uniti era e rimane insufficiente. In un mondo di stati e di popoli egoisti – qual è il mondo attuale – la domanda che ci si pone sempre è: "Cosa ce ne viene in tasca?" L’inadeguatezza del paradigma della "guerra al terrorismo" deriva dal fatto che ben pochi paesi a parte gli Stati Uniti ritengono che il terrorismo sia la sfida principale che essi debbano raccogliere. La battaglia degli Stati Uniti non è stata considerata una battaglia per il "bene pubblico" internazionale della quale il mondo possa essere loro grato. Al contrario, la maggior parte dei paesi ritiene di fare un favore agli Stati Uniti quando invia truppe in Afghanistan (o in Iraq) e spesso hanno l’idea di star sacrificando i loro stessi interessi.
Ovviamente tutti i paradigmi di politica estera hanno le loro pecche. Anche il paradigma del contenimento in funzione anti-comunista era inadeguato in quanto dal 1947 al 1989 stava accadendo molto di più nel mondo che non la sola lotta fra il comunismo ed il capitalismo democratico. Certo l’anti-comunismo tendeva ad attirare la lealtà degli altri paesi nei confronti degli Stati Uniti ed a persuaderli ad accettare la leadership americana. Ciò era più importante dell’immagine stessa degli Stati Uniti, che non era sempre specchiata, pura ed incorrotta. Se la guerra del Vietnam non provocò nelle alleanze degli Stati Uniti quelle stesse spaccature provocate dalla guerra in Iraq, la ragione non sta non sta nel fatto che l’America di Lyndon Johnson e di Richard Nixon fossero più amate dell’America di Bush. Il motivo è che gli Stati Uniti stavano allora fornendo qualcosa di cui gli altri popoli ritenevano di aver bisogno – in primo luogo protezione dall’Unione sovietica – e che non fece loro prestare attenzione alle azioni americane in Vietnam e ad una cultura americana che, nello spazio di soli sette anni, riuscì a produrre l’assassinio di Martin Luther King Jr. e di Robert Kennedy, le rivolte di Watts, le sparatorie della Kent State ed il Watergate.
La guerra al terrorismo non ha mai attirato quello stesso tipo di lealtà internazionale. La Cina e la Russia la hanno accolta con favore in quanto distoglieva da esse l’interesse strategico degli Stati Uniti – e poichè entrambe avevano compreso l’utilità di una guerra al terrorismo che per Mosca ha significato una guerra contro i ceceni e per Beijing una guerra contro gli ughuri. Ma per la maggior parte dei tradizionali alleati degli Stati Uniti, essa è stata, nella migliore delle ipotesi, un’indesiderata distrazione dalle questioni alle quali tengono maggiormente.
In Europa, si è rivelata essere ben più di una semplice distrazione. Gli americani ritengono che gli europei condividano le loro preoccupazioni in materia di Islam radicale. Ma le preoccupazioni europee sono di diversa natura. Per gli americani, il problema sta principalmente "laggiù," in quelle terre lontane da dove i terroristi islamici radicali possono sferrare i loro attacchi e pertanto la soluzione è anche "laggiù." Per gli europei, il radicalismo islamico è innanzitutto una questione nazionale, per capire se ed in che modo i mussulmani possano essere integrati ed assimilati nella società europea del XXI secolo. Agli occhi degli europei, le azioni americane possono soltanto infiammare ulteriormente i problemi dell’Europa. Quando gli Stati Uniti vanno a stuzzicare un nido di vespe, suscitando un vespaio, tutto ciò si ripercuote sull’ Europa, o per lo meno questo è ciò che gli europei temono.
Per dirla in breve, la guerra al terrorismo è stata più fonte di divisione che di unità. Gli Stati Uniti, che negli anni novanta del secolo scorso erano già considerate da molti una potenza egemonica prepotente ed arrogante, a seguito dell’attentato dell’11 settembre sono stati considerati una potenza egemonica prepotente ed arrogante, ripiegata e concentrata su stessa, che non presta attenzione alle conseguenze delle sue azioni.
Questa è stata la prospettiva dalla quale molti hanno valutato la decisione di attaccare l’Iraq nel 2003. E questa è un’altra ironia della sorte. Il rovesciamento del regime di Saddam Hussein è stata una delle azioni meno egoiste degli Stati Uniti dopo l’11 settembre e più in linea con l’immagine di leader mondiale attivo e responsabile che gli Stati Uniti avevano di se stessi prima di quel terribile evento rispetto alla più ristretta politica estera di Bush, attenta esclusivamente agli interessi americani.
L’ invasione fu parzialmente correlata alla guerra al terrorismo. Anche l’amministrazione Clinton si era preoccupata dei legami che Saddam aveva con il terrorismo ed aveva utilizzato questi presunti legami per giustificare la sua azione militare nei confronti dell’Iraq nel 1998. Clinton stesso aveva messo in guardia in merito al fatto che se gli Stati uniti non avessero intrapreso azioni contro Saddam, il mondo sarebbe stato "maggiormente esposto a quel tipo di minaccia che l’Iraq pone oggi – quella di uno stato canaglia con armi di distruzione di massa, pronto ad utilizzarle o a fornirle a terroristi, trafficanti di droga o membri della criminalità organizzata che vanno in giro nei nostri paesi, passando inosservati." Dopo l’11 settembre , un livello notevolmente minore di tolleranza nei confronti delle minacce ci aiuta a spiegare il perché realisti quali Cheney, che in passato avevano ritenuto che Saddam potesse essere arginato e tenuto a bada senza correre rischi cambiarono improvvisamente idea. La stessa logica spinse la Senatrice democratica dello Stato di New York, Hillary Clinton, e molti altri Democratici e Repubblicani in Congresso ad autorizzare l’uso della forza nell’ottobre del 2002, provocando lo sbilanciato voto al Senato di 77 a 23. Fu questo il motivo per il quale una chiara e manifesta opposizione alla guerra fu così rara. L’editorialista del Time, Joe Klein, rispecchiò quel sentimento prevalente in un intervista alla vigilia della guerra: "Prima o poi, questo tipo dovrà essere scovato. . . . Bisogna lanciare ora questo messaggio perché in caso contrario . . . si rafforzerebbe qui qualsiasi potenziale Saddam e qualsiasi potenziale terrorista."
Tuttavia, i principali presupposti alla base della decisione d’invadere l’Iraq risalgono a ben prima della guerra al terrorismo ed anche del realismo di Bush. Erano coerenti con una visione più ampia degli interessi americani che erano prevalsi negli anni dell’amministrazione Clinton e durante la Guerra Fredda. Negli anni novanta del secolo scorso l’Iraq era considerato non una minaccia diretta per gli Stati Uniti, bensì un problema di ordine mondiale nei confronti del quale gli Stati Uniti avevano una speciale responsabilità. Come affermò l’allora Consigliere per la Sicurezza Nazionale, Sandy Berger, nel 1998, "il futuro dell’Iraq influenzerà il modo in cui il Medio Oriente, ed il mondo arabo in particolare, evolveranno nel prossimo decennio e ben oltre." Ecco perché nel 1998 personalità quali Richard Armitage, Francis Fukuyama e Robert Zoellick poterono firmare una lettera che richiedeva la rimozione forzata di Saddam. Ecco perché, come Bill Keller del New York Times (oggi direttore esecutivo di questo giornale) scrisse all’epoca, i liberal in quello che egli definì "The I-Can't-Believe-I'm-a-Hawk Club" (quelli del non posso credere di far parte del Club dei falchi) sostennero la guerra, ivi compresi "quelli del New York Times e del Washington Post, i direttori e gli editori del New Yorker, del New Republic e di Slate, gli editorialisti di Time e Newsweek," nonché molti ex-funzionari dell’amministrazione Clinton.
Quei liberali e progressisti favorevoli alla guerra contro l’Iraq lo erano principalmente per gli stessi motivi per i quali erano stati favorevoli alla guerra nei Balcani: la ritenevano necessaria a preservare l’ordine internazionale liberale. Preferivano che gli Stati Uniti ottenessero il sostegno delle Nazioni Unite alla guerra, ma sapevano anche che ciò si era rivelato impossibile nel caso del Kosovo. La loro principale preoccupazione era che l’amministrazione Bush, dopo aver rovesciato il regime di Saddam, non adottasse un approccio strettamente realista nell’affrontarne le conseguenze. Come ebbe a dire il Senatore democratico dello Stato del Delaware, Joe Biden, "Alcuni non sono qui per creare, ricostruire e consolidare una nazione." Un ex-funzionario dell’amministrazione Clinton, Ronald Asmus, si chiedeva: "è una questione di potere americano o è una questione di democrazia?" Riteneva che se fosse stata una questione di democrazia gli Stati Uniti avrebbero "avuto un sostegno più vasto a livello nazionale e più amici ed alleati a livello internazionale."
Tuttavia, questo stesso vasto consenso di conservatori, liberali, progressisti e neo-conservatori americani, non si registrò nel resto del mondo. Per gli europei vi era una grande differenza fra il Kosovo e l’ Iraq. Non era un problema di legalità o di imprimatur da parte delle Nazioni Unite. Il problema era la collocazione geografica. Gli europei erano pronti ad entrare in guerra senza l’autorizzazione delle Nazioni Unite su una questione che li riguardava tutti, vale a dire la loro sicurezza, la loro storia e la loro morale. L’Iraq era tutta un’altra storia. Per i liberal americani quali l’editorialista del New York Times, Thomas Friedman, "il cinismo e l’insicurezza dell’Europa, spacciati per superiorità morale," erano "intollerabili."
Per lungo tempo, l’Iraq era stata una questione controversa, causa di divisioni. Negli anni novanta del secolo scorso, si era aperto un ampio divario fra il Regno Unito e gli Stati Uniti da un lato, che favorivano la politica di contenimento dell’Iraq tramite sanzioni e pressioni militari e la Cina, la Francia, la Russia e la maggior parte degli altri paesi dall’altro, che erano favorevoli a porre fine alla politica di contenimento. Nel 2000, l’amministrazione Clinton temeva che la politica di contenimento stesse diventando insostenibile, ma aveva già perso la battaglia volta a convincere gli altri che così fosse. La situazione non era di molto cambiata nel 2003. Il livello di tolleranza dimostrata dal resto del mondo nei confronti dell’Iraq di Saddam non si era ridotto a seguito degli attacchi dell’11 settembre, a differenza di quello degli Stati Uniti. Al contrario, era il livello di tolleranza del resto del mondo nei confronti degli Stati Uniti che era diminuito.
Nel 2003, pochi paesi erano animati dalla consapevolezza dell’urgenza di una guerra al terrorismo, dagli interessi umanitari in Iraq o dal desiderio di vedere gli Stati Uniti alla guida di una crociata internazionale per ripristinare l’ordine con la forza, come era accaduto con la Guerra del Golfo nel 1991. Erano in pochi a credere che gli Stati Uniti, specialmente nell’era di Bush, stessero improvvisamente agendo avendo a cuore l’ordine mondiale. Pertanto molti potevano soltanto spiegare le ragioni di quella guerra come una guerra per il petrolio, per Israele, per l’imperialismo americano o per tutto fuorché ciò che i suoi sostenitori, in tutto l’arco politico statunitense, ritenevano che fosse: una guerra sia nell’interesse degli Stati Uniti che nell’interesse nella parte migliore dell’umanità.
Chi può dire che cosa sarebbe successo se gli Stati Uniti avessero scoperto quelle armi, quei materiali e quei programmi che tutti, ivi compresi gli europei ed i detrattori di quella guerra, ritenevano che fossero in Iraq? Anche nel caso in cui non fossero state scoperte armi, come avrebbe reagito il mondo se gli Stati Uniti avessero rapidamente riportato un certo ordine ed una certa stabilità in Iraq? L’allora Segretario di Stato Colin Powell riteneva all’epoca che "una volta vinta la guerra rovesciando il regime di Saddam e una volta che la gente si fosse resa conto del fatto che era intenzione degli Stati Uniti garantire una vita migliore al popolo iracheno," sarebbe stato possibile modificare "piuttosto rapidamente" l’opinione mondiale.
Ovviamente ciò non è accaduto. Gli Stati Uniti, dopo aver rovesciato il regime di Saddam, hanno immediatamente iniziato a brancolare nel buio, annaspando nel tentativo di riportare ordine e stabilità nell’Iraq del dopo Saddam. Sono molte le ragioni alla base di questo insuccesso, ivi compreso l’effetto combinato di errori di valutazioni e di sfortuna che si possono verificare in ogni guerra, nonché le difficoltà insite nella società irachena così divisa. Ma una parte del problema stava nell’idea che molti alti funzionari dell’amministrazione Bush ancora mantenevano come retaggio degli anni novanta del secolo scorso e della prima fase dell’amministrazione Bush stessa . Gli alti funzionari del Pentagono erano ancora ancorati al concetto della "pausa strategica" ed ostili nei confronti di un’eccessiva dipendenza dalla forze di terra. Inoltre, come aveva temuto il Senatore Biden, persisteva l’allergia dei realisti Repubblicani nei confronti della ricostruzione del paese. Le conseguenze sia in Afghanistan che in Iraq furono lo spiegamento di un numero troppo ridotto di truppe per poter ottenere il commando effettivo di quei paesi e porre fine alle inevitabili lotte di potere conseguenti alla caduta delle precedenti dittature ed alla troppa scarsa capacità dei civili di intraprendere quella massiccia rigenerazione sociale ed economica necessaria per adempiere al compito ineludibile della ricostruzione nazionale successiva alla guerra. In Iraq questi errori divennero evidenti pochi mesi dopo l’invasione. Ci sono voluti altri 4 anni all’amministrazione Bush per adeguarsi ed aggiustare il tiro.
L’amministrazione Bush ha infine adeguato la sua strategia e pertanto le prospettive di successo in questo paese sono di gran lunga migliori oggi rispetto a quanto apparisse possibile un paio di anni fa. Ma gli Stati Uniti hanno pagato un prezzo altissimo per il fatto di avere esitato e sbagliato per anni. Indipendentemente dal danno che l’invasione stessa possa aver arrecato all’immagine degli Stati Uniti, il danno inferto da 4 anni d’insuccessi – ivi comprese le manifestazioni più sensazionali di questo fallimento, quali lo scandalo della prigione di Abu Ghraib – è ben maggiore. In un mondo che si divide sempre più, l’unica cosa peggiore di una potenza egemonica ripiegata e concentrata solo su se stessa è una potenza egemonica incompetente, ripiegata e concentrata solo su se stessa.
POTERE ED ILLUSIONE
La prossima amministrazione ha la possibilità di apprendere dagli errori dell’amministrazione Bush, nonché di fare tesoro dei progressi che l’amministrazione Bush ha fatto nel correggerli. Oggi la posizione degli Stati Uniti nel mondo non è poi così negativa come qualcuno sostiene. Le previsioni in base alle quali altrr potenze si sarebbe unite in uno sforzo volto a controbilanciare l’influenza della superpotenza canaglia si sono rivelate inesatte. Altre potenze stanno emergendo, ma non si stanno affatto unendo in funzione anti-americana. La Cina e la Russia hanno tutto l’interesse e la voglia di ridurre il predominio americano e ricercano più potere relativo per se stesse, ma restano altrettanto diffidenti e sospettose l‘una nei confronti dell’altra di quanto lo siano nei confronti di Washington. Altre potenze in ascesa, quali il Brasile e l’India, non stanno cercando di controbilanciare l’influenza degli Stati Uniti.
In realtà, nonostante i sondaggi negativi, geopoliticamente la maggior parte delle grandi potenze a livello mondiale si sta sempre più avvicinando agli Stati Uniti. Alcuni anni fa, la Francia di Jacques Chirac e la Germania di Gerhard Schröder avevano accarezzato l’idea di rivolgersi alla Russia per controbilanciare il potere americano. Ma oggi Francia, Germania e resto d’Europa tendono verso un’altra direzione. Ciò non è dovuto ad un rinnovato affetto nei confronti degli Stati Uniti. La politica estera maggiormente filo-americana del Presidente francese Nicolas Sarkozy e del Cancelliere tedesco Angela Merkel riflettono la loro convinzione che relazioni più strette con gli Stati Uniti, anche se non esenti da critiche, rafforzino il potere e l’influenza europea. Al contempo, i paesi est-europei sono preoccupati dal risorgere della Russia.
Gli stati dell’Asia e del Pacifico si sono sempre più avvicinati agli Stati Uniti, per lo più in quanto preoccupati del crescente potere della Cina. Alla metà degli anni novanta del secolo scorso, l’alleanza fra Stati Uniti e Giappone era a rischio di erosione. Ma a partire dal 1997, la relazione strategica fra i due paesi si è rafforzata sempre più. Alcuni dei paesi del Sud-est asiatico hanno anche iniziato a proteggersi dall’ascesa della Cina. (L’Australia può rappresentare l’unica eccezione a questa tendenza prevalente, in quanto il suo nuovo governo si sta spostando verso la Cina ed allontanando dagli Stati Uniti e dalle altre potenze democratiche della regione.) Lo spostamento più evidente si è verificato in India, ex-alleato di Mosca, che oggi intrattiene buone relazioni con gli Stati Uniti quale fattore importante per il conseguimento dei suoi più vasti obiettivi strategici ed economici.
Persino in Medio Oriente, dove l’anti-americanismo divampa ai massimi livelli e dove le immagini dell’occupazione americana ed il ricordo di Abu Ghraib continuano a bruciare nell’immaginario popolare, l’equilibrio strategico non si è modificato a svantaggio degli Stati Uniti. Egitto, Giordania, Marocco ed Arabia saudita continuano ad operare a stretto contatto con gli Stati Uniti e lo stesso dicasi per i paesi del Golfo Persico preoccupati dall’Iran. L’Iraq è passato dall’ implacabile anti-americanismo dei tempi di Saddam alla dipendenza dagli Stati Uniti e, negli anni a venire, un Iraq stabile sposterebbe decisamente l’equilibrio strategico in direzione filoamericana in quanto l’Iraq ha vaste risorse petrolifere e potrebbe diventare un’ importante potenza in seno alla regione.
Questa situazione contrasta fortemente con le principali battute d’arresto subite dagli Stati Uniti in Medio Oriente negli anni della Guerra Fredda. Negli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso, un movimento nazionalista pan-arabo si diffuse nella regione e spianò la strada ad un coinvolgimento sovietico senza precedenti, ivi compresa una quasi alleanza fra l’Unione sovietica e l’Egitto di Gamal Abdel Nasser, nonché un’alleanza sovietica con la Siria. Nel 1979, venne meno uno dei pilastri fondamentali della posizione strategica americana nella regione quando il regime iraniano filoamericano dello scià fu rovesciato dalla virulenta rivoluzione anti-americana dell’Ayatollah Ruhollah Khomeini. Ciò portò ad un fondamentale spostamento dell’equilibrio strategico nella regione del quale gli Stati Uniti stanno ancora soffrendo. Niente di simile si è ancora verificato a seguito della guerra in Iraq.
Coloro che oggi proclamano che gli Stati Uniti siano in una fase di declino spesso immaginano un passato nel quale il mondo danzava al ritmo di una solenne e maestosa musica americana. Questa è un’illusione. Cresce la nostalgia per la meravigliosa era dominata dagli Stati Uniti a seguito della Seconda Guerra mondiale. Tuttavia, anche se gli Stati Uniti hanno avuto successo in Europa, hanno subito disastrose battute d’arresto altrove. Ciascuno di questi avvenimenti – quali la "perdita" della Cina a seguito dell’instaurarsi del comunismo, l’invasione nord-coreana della Corea del Sud, la sperimentazione sovietica della bomba ad idrogeno, le agitazioni del nazionalismo postcoloniale in Indocina – è stato una calamità strategica di immensa portata ed è stata compreso all’epoca come tale. Ciascuno di essi ha notevolmente determinato il resto del XX secolo e non di certo per il meglio. E ciascuno di essi si è chiaramente rivelato sfuggire al controllo e persino alla capacità di gestione degli Stati Uniti. Nessun singolo avvenimento dello scorso decennio può essere minimamente paragonato alla portata di uno qualsiasi di questi eventi che hanno segnato una battuta d’arresto per la posizione americana nel mondo.
Gli strateghi cinesi ritengono probabile che l’attuale configurazione internazionale duri ancora per qualche tempo e probabilmente hanno ragione. Finché gli Stati Uniti resteranno al centro dell’economia internazionale e continueranno ad essere la potenza militare dominante ed il principale apostolo della filosofia politica più popolare nel mondo, finché l’opinione pubblica americana continuerà a sostenere il predominio americano, come ha fatto coerentemente per sessant’anni, e finché i potenziali concorrenti ispirano più timori che comprensione fra i paesi vicini, la struttura del sistema internazionale dovrebbe restare immutata, con una superpotenza e molte grandi potenze.
Tuttavia, sarebbe altresì illusorio immaginare che si possa facilmente ritornare a quella leadership americana ed a quella cooperazione fra gli alleati degli Stati Uniti che avevano caratterizzato l’epoca della Guerra Fredda. Non vi è più un’unica minaccia simile a quella costituita in passato dall’Unione sovietica, che possa fungere da collante nei confronti degli Stati Uniti e degli altri paesi e li porti ad unirsi in un’alleanza quasi permanente. Oggi il mondo sembra più simile a quello del XIX secolo che non a quello dell’ultima parte del XX secolo. Coloro che ritengono che questo sia positivo dovrebbero ricordare che l’ordine del XIX secolo non finì bene come quello della Guerra Fredda.
Per evitare un tale destino, gli Stati Uniti e gli altri paesi democratici dovranno avere una visione più generosa ed illuminata dei loro interessi rispetto a quella che avevano anche ai tempi della Guerra Fredda. Gli Stati Uniti, quale paese con la più forte democrazia, non dovrebbero opporsi, ma piuttosto accogliere con favore, un mondo più coeso caratterizzato da una riduzione della sovranità nazionale. Hanno ben poco da temere e molto da guadagnare in un mondo che aumenti leggi e norme basate sugli ideali liberali e volte a salvaguardarli. Al contempo, le democrazie asiatiche ed europee devono riscoprire che il progresso verso questo più perfetto ordine liberale dipende non soltanto dal diritto e dalla volontà popolare, ma anche da nazioni potenti che possano sostenerlo e tutelarlo.
In un mondo egoista, questo tipo di saggezza illuminata può andare ben al di là delle capacità di tutti gli stati. Ma se esiste davvero una speranza, essa risiede in una rinnovata comprensione dell’importanza dei valori. Gli Stati Uniti e gli altri paesi democratici condividono un’aspirazione comune nei confronti di un ordine liberale internazionale, costruito su principi democratici e tenuto ben saldo – seppure in modo imperfetto – da leggi ed accordi fra paesi. Questo ordine sta progressivamente subendo pressioni man mano che le autocrazie delle grandi potenze crescono in forza ed in influenza e man mano che attecchisce la lotta anti-democratica del terrorismo islamico radicale. Se la necessità per le democrazie di sostenersi reciprocamente appare meno ovvia che in passato, si rivela ben maggiore la necessità per queste nazioni, ivi compresi gli Stati Uniti, di "guardare oltre, verso il futuro".
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