lunedì 31 maggio 2010

Pacifisti


Un pacifista offre il suo ramoscello d'ulivo (ricurvo) ai militari israeliani che pretendevano di ispezionare la nave carica di “aiuti umanitari” per Gaza. E che si sono scioccamente rifiutati di farsi linciare. Sullo sfondo, fotografi della stampa indipendente.

UPDATE. Ugo Volli, da “Il blog di Barbara”: lettura obbligatoria
UPDATE/2. Simone Bressan, su Freedomland: Con Israele.

mercoledì 26 maggio 2010

The Road to Socialism

«Paychecks from private business shrank to their smallest share of personal income in U.S. history during the first quarter of this year, a Usa Today analysis of government data finds. At the same time, government-provided benefits - from Social Security, unemployment insurance, food stamps and other programs - rose to a record high during the first three months of 2010». USA Today

Percentuale degli stipendi che arrivano dal settore privato? Ai minimi storici. Percentuale delle entrate provenienti dal welfare? Ai massimi storici. USA Today analizza i dati (federali) del primo trimestre 2010. E noi dedichiamo questa analisi a chi ancora sorride quando legge nella stessa frase “Obama” e “socialismo”.

Per un (mezzo) miracolo italiano

Pdl al minimo storico (32,5%). Fiducia per il governo al minimo storico (dal 50% al 47%). “Job approval” di Silvio Berlusconi in calo, ma non troppo (dal 56% al 54%). Per quanto riguarda il Cavaliere, si tratta di un mezzo miracolo statistico... (continua su Free News Online)

martedì 25 maggio 2010

42!

The Rasmussen Reports daily Presidential Tracking Poll for Tuesday shows that 24% of the nation's voters Strongly Approve of the way that Barack Obama is performing his role as president. Forty-four percent (44%) Strongly Disapprove, giving Obama a Presidential Approval Index rating of -20 (...) Overall, 42% of voters say they at least somewhat approve of the president's performance. That is the lowest level of approval yet measured for this president. Fifty-six percent (56%) now disapprove of his performance.
Rasmussen Reports

Run, Dino, Run!

Secondo il Seattle Times, Dino Rossi sembra essersi finalmente deciso a correre per il Senato a Washington State. Rossi, sconfitto di misura da Christine Gregoire due volte nella corsa a governatore (nel primo caso, più che di sconfitta, si dovrebbe parlare di furto) è l'unico esponente del GOP competitivo contro la democratica Patty Murray. Nel mio personalissimo cartellino, Washington State passa da Solid Dem a toss-up.

lunedì 24 maggio 2010

Aloha

Il repubblicano Charles Djou ha vinto le special elections nel primo distretto delle Hawaii con il 39,5% dei voti, battendo i democratici Colleen Hanabusa (31%) ed Ed Case (28%). Djou è il primo esponente del GOP hawaiiano ad approdare al Congresso negli ultimi vent'anni. E soltanto il terzo da quando l'arcipelago del Pacifico è diventato uno stato USA.

mercoledì 19 maggio 2010

Rand Revolution



«I have a message. A message from the tea party. A message that is loud and clear and does not mince words. We've come to take our government back». Rand Paul, 18 maggio 2010

martedì 18 maggio 2010

Gilder and me

Oltre ad essere (secondo me) uno dei più interessanti pensatori di questo secolo, George Gilder è anche una persona alla mano, di rara simpatia. Nella foto, da sinistra: Rosita Romano, Piercamillo Falasca, George Gilder, il sottoscritto, Umberto Mucci, Nini Gilder.

mercoledì 12 maggio 2010

Settled

Quando Al Gore decise di assillare l’intera umanità coi rischi che essa correrebbe per via del riscaldamento globale antropogenico, il pezzo forte del suo ragionamento fu quello del consenso scientifico: «science is settled», amava dichiarare. La scienza del clima è tutt’altro che settled e, semmai, è la responsabilità umana che è settled, nel senso che sappiamo con certezza che l’uomo non c’entra. In ogni caso, il consenso nella scienza è un concetto non solo utopico e mai esistito ma, comunque, irrilevante. Nessuno scienziato che si rispetti vi farebbe mai appello, perché la scienza non si fonda sul consenso, né sull’autorità di alcuno. La scienza si fonda solo sui fatti, e solo questi sono il giudice ultimo di qualunque affermazione che voglia essere scientifica...
Franco Battaglia, continua su Free News Online

martedì 11 maggio 2010

Free


Free news online nasce per offrire una lettura della realtà italiana. Mette a disposizione una chiave interpretativa delle notizie, un modo per interpretarle, un ordine per meglio comprenderle. Nasce per presentare e far nascere idee, la materia prima che scarseggia in un Paese che si culla nel luogo comune e nella faziosità, che anima scontri roventi, talora forsennati, ma troppo spesso privi di contenuto reale. L’Italia è un Paese colmo di energie nascoste e inespresse, quindi sprecate. A cominciare dai giovani, tenuti a marinare in un sistema dell’istruzione che li addestra più al galleggiamento che alla competizione, e posti fuori dal mercato del lavoro. Il nostro è un Paese nel quale si è “giovani”, considerati debuttanti, ad età in cui i nostri nonni erano da tempo padri di famiglia, lavoratori, professionisti, in ogni caso padroni della loro sorte. Una situazione intollerabile, resa ancora più preoccupante dall’assenza di reazione, di ribellione, dall’eclissi del desiderio di cambiare. Forse perché non ci si crede, o forse perché la droga dei trasferimenti pubblici ha fiaccato il tessuto più giovane.

Rassegnazione e galleggiamento sono i mali contro i quali contiamo d’impegnare il nostro ragionare, la nostra passione civile. Può darsi che scrivere non basti, di sicuro tacere è da complici. E noi non vogliamo esserlo. Free news nasce con una struttura volontaristica, sarà costruito con le opinioni e le competenze di chi le mette liberamente a disposizione degli altri. Contiamo di essere ripagati dalle risposte di chi legge e vorrà scrivere, divenendo uno spazio aperto, ma certo non privo d’idenità o in balia degli umori. Di roba simile ce n’è già troppa, nella politica e nella pubblicistica italiane. (Davide Giacalone)

lunedì 10 maggio 2010

Gilder, l'uomo che sussurra al futuro

George F. Gilder è stato chiamato in mille modi: da proto-maschilista a tecno-utopista, passando per pseudocreazionista e ultra-liberista. Ma nessuna di queste definizioni riesce a rendere pienamente la complessità del personaggio, della sua storia e delle sue idee. Qualcuno lo considera uno dei pochi, veri geni del nostro secolo, perché è stato in grado di elaborare nel corso degli anni una “teoria unificata” capace di integrare politologia, sessuologia, antropologia, economia, tecnologia e religione. Altri lo archiviano come un pensatore sopravvalutato, che ha avuto la fortuna di essersi trovato un paio di volte nel posto giusto al momento giusto. Così, a qualche mese dall’uscita del suo ultimo libro (“The Israel Test”, che con ogni probabilità non vedrà mai la luce in Italia), forse il modo migliore per spiegare George Gilder è proprio quello più semplice: raccontare la sua vita.

Da casa Gilder a casa Rockefeller
George F. Gilder nasce a New York nel 1939. Suo padre Richard, aviatore, muore nei cieli europei durante la Seconda guerra mondiale quando George ha soltanto tre anni. Prima di partire per il fronte, però, Richard ha stretto un patto di sangue con il suo compagno di stanza al college: se morirà in guerra, l’amico provvederà all’educazione del figlio. Alla morte di Richard, il roommate mantiene la promessa. E, nella tragedia della perdita paterna, il piccolo George inciampa in una fortuna sfacciata. Perché l’amico del padre risponde al nome di David Rockefeller, sesto figlio del banchiere John Davison Rockefeller Jr. e nipote più giovane (e oggi unico erede sopravvissuto) di J.D. Rockefeller Senior, fondatore della Standard Oil e capostipite di una delle dinastie più ricche e potenti degli Stati Uniti d’America. Poteva capitargli di peggio. George viene educato in “comproprietà” tra la famiglia Rockfeller, nel cuore dell’aristocrazia finanziaria di Manhattan, e quella naturale, in una fattoria nei pressi di Tyringham, in Massachusetts. Inutile dire che, facendo la spola tra Wall Street e l’allevamento di bovini, George si trasforma ben presto nella “pecora nera” della dinastia di cui, a pieno titolo, fa parte. E fin da giovane abbraccia un’ideologia schiettamente conservatrice, almeno rispetto allo standard della prole di David Rockefeller. Così, mentre Peggy diventa amica personale di Fidel Castro, Abby dedica la propria vita a spiegare al mondo la malvagità degli scarichi delle toilette moderne (oltre a fondare il MoMA) ed Eileen si sollazza con le meraviglie della medicina alternativa, George inizia a flirtare con il Grand Old Party. Non prima, però, di aver trascorso un’adolescenza burrascosa. Gilder frequenta la Hamilton School, un liceo molto progressista (almeno per l’epoca) di New York, dove si fa notare soprattutto per qualche furto in libreria. Entrato ad Harvard, si fa espellere durante il primo anno perché non ha nessuna intenzione di frequentare regolarmente i corsi. In un impulso di orgoglio decide di entrare nei marine. Ma la vita militare non fa per lui. Così dopo sei mesi torna ad Harvard con la coda tra le gambe, si laurea (nel 1962) e inizia a frequentare la Ripon Society, il thinktank dei “centristi repubblicani” che dominano in quel periodo il partito fondato da Lincoln.

Repubblicano progressista
Negli anni Sessanta, Gilder è il perfetto prototipo del progressive republican: è lo speechwriter di molti uomini politici in vista nell’establishment del Gop (da Nelson Rockefeller a George Romney, passando per il giovane Richard Nixon), diventa il portavoce del senatore moderato Charles Mathias (Maryland) nei momenti più caldi della protesta anti Vietnam. E nel 1966, insieme a Bruce Chapman (suo compagno di stanza ad Harvard), scrive un durissimo pamphlet contro lo strappo anti elitario di Barry Goldwater – “The Party That Lost Its Head” (“Il partito che ha perso la testa”) – in cui denuncia il disprezzo nei confronti degli intellettuali che caratterizza la svolta “populista” dei repubblicani post 1964. Qualche anno più tardi, ripensando a questa fase della sua vita, Gilder non riuscirà trattenere un profondo disprezzo: “Ero un tipico sottoprodotto del Ventesimo secolo, liberal, secolarista e malato di priapismo, che si atteggiava a poeta per nascondere il proprio senso di colpa wasp. Infatuato del jazz, del blues, del soul e di tutto quello che appartiene alla cultura nera in un disperato tentativo di assorbirne la mascolinità più sfacciata. Convinto che i più grandi scrittori del mondo fossero Norman Mailer, Joan Didion e Robert Lowell, senza rendersi conto che la maggior parte della poesia contemporanea era infettata da sciocchezze nichiliste e fantasie marxistoidi. Sicuro che Castro e Ho Chi Minh fossero soltanto riformatori agrari, mentre si cullava nella sua seduta settimanale dallo psicanalista reichiano sulla East End Avenue. Sprezzante nei confronti degli uomini d’affari e degli esperti di tecnologia per la loro mancanza di ‘anima’. In parole povere, ero un tipico esempio di intellettuale parassita del Capitalismo”.

Svolta a destra
Sono almeno tre gli episodi che spingono Gilder a sganciarsi dal progressive republicanism che caratterizza i suoi anni del college: l’incontro con William F. Buckley jr., che qualche anno prima ha fondato la National Review; la pubblicazione del Moynihan Report sulla disgregazione della famiglia afroamericana, che appiccherà il sacro fuoco della sua battaglia contro il welfare; il reportage di Theodore Draper per The New Leader che inizia a far trapelare le prime crude verità sul regime castrista. Ma nessuno di questi tre episodi può essere collegato direttamente con quello che rende George Gilder, all’improvviso, uno degli uomini più odiati degli Stati Uniti. All’inizio degli anni Settanta, Gilder vive a Cambridge dove si occupa della pubblicazione del Ripon Forum, lo storico giornale della Ripon Society. Un giorno, però, ha la malaugurata idea di scrivere un articolo in difesa di Nixon, che ha appena esercitato il suo diritto di veto su una legge approvata dal Congresso a maggioranza democratica e sponsorizzata al Senato da Walter Mondale, che avrebbe esteso a dismisura il “day care” per i meno abbienti. La teoria di Gilder è semplice: dopo che il welfare, soprattutto nelle famiglie nere delle grandi città, ha praticamente reso superflua la figura paterna (a garantire il mantenimento del nucleo familiare, infatti, ci pensa l’assistenza pubblica), non è il momento più adatto per compiere lo stesso errore con la figura materna, sostituendola con lo stato-balia. Il ragionamento, oggi, non sfiora neppure i confini del “politicamente corretto”, abituati come siamo a decenni di dimostrazioni sull’impatto disgregativo dell’assistenzialismo sul tessuto connettivo delle famiglie.

Suicidio sessuale
Nel 1971, però, quella di Gilder è una bomba atomica. Anche per i repubblicani mainstream. Le ricercatrici della Ripon Society sono indignate e pretendono – ottenendolo – il licenziamento immediato di Gilder dal giornale dell’associazione. E la controversia assume quasi immediatamente contorni nazionali. Invitato a un confronto pubblico dalla tv pubblica Pbs, deve affrontare centinaia di femministe imbufalite che vorrebbero scorticarlo vivo. Dopo aver speso anni alla ricerca di un modo per conquistare l’attenzione femminile, Gilder sembra finalmente esserci riuscito. Ma il prezzo che deve pagare è l’esilio. Lascia Cambridge e si trasferisce a New Orleans, dove inizia a lavorare per un amico – Ben C. Toledano – che ha deciso di candidarsi al Senato per il Partito repubblicano. Solo, reietto e senza un dollaro in tasca, in Louisiana George affoga la sua disperazione esistenziale nella scrittura di “Sexual Suicide” (pubblicato nel 1973 e ripubblicato con qualche aggiornamento nel 1986 con il titolo “Man and Marriage”), in cui sostiene che il femminismo ha scardinato la “costituzione sessuale” della civiltà umana, che era riuscita a trasformare l’istinto predatorio del maschio per il sesso, la guerra e la caccia, “costringendolo” a diventare marito e padre. Se l’articolo per il Ripon Forum era un’esplosione atomica, “Sexual Suicide” è un bombardamento nucleare a tappeto su un asilo nido. Per il movimento femminista Gilder diventa il Grande Satana da esorcizzare a ogni costo, tanto da meritare – sia per il settimanale Time che per l’organizzazione Now (National Organization of Women) – il titolo di “Porco Sciovinista dell’Anno”. Titolo di cui, a distanza di tanti anni, va ancora fiero.

L’invenzione della Reaganomics
 Tanto scandalo, naturalmente, procura a Gilder un momento di forte notorietà che l’autore sfrutta per approfondire una serie di temi appena sfiorati in “Sexual Suicide”. Il risultato d questo cambio di paradigma è altro libro molto controverso: “Visible Man: A True Story of Post-Racist America” (“L’uomo visibile: una storia vera dell’America post-razzista”, uscito nel 1978 e ripubblicato nel 1995) che rappresenta il passaggio ideale dalla sua fase sociologica a una più concentrata sui temi dell’economia. La teoria economica della supplyside inizia a entrare nel dibattito politico statunitense verso la metà degli anni Settanta, soprattutto grazie al lavoro di due giornalisti del Wall Street Journal – Jude Wanniski e Robert L. Bartley – che riescono a creare un formidabile contrappeso teorico al keynesianesimo dominante. Al centro del sistema c’è la famosissima “curva di Laffer”, che dimostra matematicamente come l’aumentare delle tasse non comporti necessariamente un aumento delle entrate per lo stato. Anzi, che esiste un “punto di rottura”, in qualsiasi sistema economico, oltre il quale aumentare le tasse diventa controproducente, a prescindere da qualsiasi criterio di equità fiscale. La leggenda vuole che la prima “bozza” della curva sia stata scarabocchiata nel 1974 dallo stesso Arthur Laffer su un tovagliolo di carta, durante una riunione in cui l’economista voleva convincere alcuni notabili del Gop dell’inutilità dell’ultimo aumento delle tasse voluto da Gerald Ford. Oltre a Wanniski e Laffer, intorno allo stesso tavolo c’erano Dick Cheney (all’inizio per niente convinto) e Donald Rumsfeld. Qualche anno dopo Gilder, che ormai scrive con continuità sulla pagina degli editoriali del Wall Street Journal e partecipa alla stesura degli economic reports di Laffer, prende a punto di partenza il lavoro di Wanniski, lo miscela abilmente con l’ossatura filosofica di Friedrich August von Hayek e Milton Friedman, e scrive lo splendido “Wealth and Poverty” (“Ricchezza e povertà”) che sarà pubblicato nei primi mesi del 1981, pochi giorni dopo l’insediamento di Ronald Reagan alla Casa Bianca. Il timing è perfetto: “Wealth and Poverty” vende milioni di copie e diventa il “manifesto ufficiale” della Reaganomics. Gli analisti scopriranno che proprio Gilder è stato l’autore vivente più citato da Reagan durante la sua presidenza. 

Uno sguardo nel futuro
Il cerchio filosofico-ideologico di Gilder sembra chiudersi: la rottura del nucleo familiare tradizionale e il welfare portano alla povertà; la famiglia, il lavoro e la libertà di impresa portano alla ricchezza. A 42 anni, Gilder sembra ormai arrivato: il New York Times definisce il suo libro come la “più intelligente guida al capitalismo in circolazione”, il suo nome è sulla bocca di tutti quelli che contano nel movimento conservatore, le sue apparizioni sono contese dai network televisivi nazionali. Tutti vogliono “assaggiare” un pezzo dell’astro nascente della Reaganomics. L’unico a non essere d’accordo è proprio Gilder. Lui, infatti, già vive nel futuro. Analizzando a fondo i meccanismi del capitalismo, Gilder si innamora un’altra volta. E anche questa volta si tratta di un amore tormentato. Dopo una “pausa” lunga quasi un decennio, in cui studia – partendo da zero – la tecnologia e le dinamiche del mercato della microelettronica (con il fervore di un ventenne, lo spirito di sacrificio di un quarantenne e l’umiltà di un sessantenne), Gilder rinasce come il guru più osannato del movimento tecno- utopista che forgia le fondamenta di una rivoluzione digitale ai suoi primi vagiti. Nel 1989 esce “Microcosm: the Quantum Revolution in Economics and Technology” (“Microcosm: la rivoluzione quantica nell’economia e nella tecnologia”), che diventa prestissimo una bibbia per tutti i visionari della Silicon Valley. Nel 1992 pubblica “Live After Television” (“La vita dopo la televisione”) in cui anticipa di qualche decennio temi che soltanto oggi iniziano a essere trattati dalla saggistica mainstream, preconizzando la convergenza tra telecomunicazioni, microelettronica e fibra ottica. Insieme a Gordon Moore (fondatore di Intel) e Robert Meltcafe (creatore di Ethernet e fondatore di 3Com), Gilder ha anche l’onore di essere il titolare di una delle “Tre leggi della tecnologia” che governano il mondo contemporaneo. Secondo la Legge di Moore, la potenza di calcolo dei microchip raddoppia ogni 18 mesi (corollario: il prezzo di un computer con una data potenza di calcolo si dimezza ogni 18 mesi). Secondo la Legge di Metcalfe, il valore di un network è proporzionale al quadrato del numero di nodi che lo compongono. Secondo la Legge di Gilder, la larghezza di banda totale dei sistemi di telecomunicazione triplica ogni dodici mesi. Queste tre leggi, che molti hanno giudicato transitorie ma che continuano a funzionare alla perfezione da decenni (quella di Moore addirittura dal 1965) scandiscono – a nostra insaputa – i ritmi della società tecnologica in cui viviamo. E Gilder è una delle poche persone che ha immaginato questo mondo prima di tutti gli altri. La sua capacità di anticipare le tendenze del mercato, la sua prosa messianica e la sua incrollabile fede nel futuro gli garantiscono uno status quasi mitologico nella ristretta cerchia dei tecno-entusiasti che si radunano intorno alla rivista Wired creata e diretta da Louis Rossetto. Gilder, oltre che per Wired, scrive per Forbes (di cui dirige lo spin off tecnologico Asap) e per il Wall Street Journal. Profetizza una rivoluzione fatta di sabbia (silicio), vetro (fibra ottica) e aria (wireless). E quando le società hi-tech, nella seconda metà degli anni Novanta, iniziano a diventare gli investimenti più appetibili per le banche d’affari, Gilder si trova – quasi spontaneamente – in posizione perfetta per sfruttare il vento digitale che soffia alle sue spalle. Tra il 1999 e il 2000, quando esce “Telecosm: The World After Bandwidth Abundance” (“Telecosm: il mondo dopo l’abbondanza della banda larga”), Gilder non è più soltanto il più riverito guru delle nuove tecnologie e il consigliere strategico di Newt Gingrich e Steve Forbes. E’ l’uomo capace di far muovere i mercati con un tratto di penna. La sua newsletter a pagamento, il mitico Gilder’s Report, ha 110 mila abbonati negli Stati Uniti, incassa sette milioni di dollari all’anno e si parla di un’imminente quotazione in Borsa che oscillerebbe tra i 150 e i 200 milioni di dollari. Al Gilder’s Report lavorano 55 analisti a tempo pieno, ma tutto si regge sulle intuizioni di George, che sceglie personalmente le società più “calde” su cui puntare. La cosa straordinaria è che i suoi “seguaci” sono tanto fedeli che, pochi minuti dopo la segnalazione di un titolo, gli acquisti sono così numerosi che le quotazioni del titolo in questione raddoppiano.

Scoppia la bolla
Tutto, però, finisce in un istante, nel marzo del 2000, con lo scoppio della “bolla” delle dotcom. Nel giro di un paio di settimane, nel fuggi fuggi generale da Wall Street, Gilder si ritrova con meno di diecimila abbonati, cinque impiegati, qualche milione di dollari di debiti e il fisco avvinghiato alla gola. E’ costretto a rivendere la rivista The American Spectator, che aveva comprato un paio di anni prima per trasformarla nel magazine della “destra digitale”. Lo salvano gli amici Steve Forbes e Bruce Chapman, che lo ospita come senior fellow nel suo think-tank di Seattle, il Discovery Institute. I giorni delle vacche grasse sono ormai un ricordo, e George si ritira in buon ordine a lavorare nelle colline della contea di Berkshire, al confine tra il Massachusetts e il Connecticut. Fibra ottica o no, resta un uomo di campagna. Nel 2005 pubblica “The Silicon Eye: How a Silicon Valley Company Aims to Make All Current Computers, Cameras, and Cell Phones Obsolete” (“L’occhio di silicio: come una società della Silicon Valley vuole rendere obsoleti i computer, le macchine fotografiche e i telefoni cellulari”), forse il suo lavoro più tecnico, che ne conferma però le doti di divulgatore.

Dietro c’è un Disegno (intelligente)
 Mentre si allontana il ricordo dei suoi giorni da guru hi-tech, anche per perché tutte le sue profezie iniziano ad avverarsi, magari con qualche decennio di ritardo, Gilder è pronto per una nuova sfida intellettuale. Il durissimo colpo del 2000 avrebbe ucciso un cavallo. Tra il 2004 e il 2005 convince Chapman ad aprire un ufficio del Discovery Institute a Washington D.C., con l’obiettivo di trasformare un think-tank nato per risolvere i problemi di traffico a Seattle nella punta di diamante intellettuale del movimento di rivolta contro il neodarwinismo. Per lo scorno e il disorientamento degli scientisti di ogni colore politico, la parola d’ordine di Gilder e del Discovery Institute non è “creazionismo”, ma “intelligent design”. E non si tratta di una differenza di poco conto. Gilder parte dalla Teoria dell’informazione di Claude E. Shannon del Mit (tratteggiata nel classico “Teoria matematica della comunicazione” del 1948) per dimostrare come l’evoluzione non possa, in ultima analisi, essere spiegata semplicemente ricorrendo a cause fisiche “non intelligenti”. Nel luglio 2005 la National Review pubblica un suo lungo e devastante saggio, dal titolo “Evolution and Me” che scatena, ancora una volta, un dibattito senza precedenti nel mondo accademico e politico statunitense. L’articolo è una sorta di “teoria unificata del metodo gilderiano” in cui tutte le intuizioni contenute nei lavori del futurologo statunitense – da “Sexual Suicide” a “Telecosm” – vengono utilizzate per sottolineare come il darwinismo sia ormai diventato un “ostacolo per l’avanzamento della scienza”. “Dopo circa un secolo di tentativi di appiattimento filosofico – scrive Gilder – abbiamo scoperto che l’universo è testardamente gerarchico (…) e nessuna accumulazione di conoscenza nella fisica e nella chimica è in grado di rivelarci il minimo insight sull’origine della vita, sui processi di calcolo, sulle fonti della coscienza, sulla natura dell’intelligenza o sulle cause della crescita economica (…) Il materialismo in genere, come il riduzionismo darwinista in particolare, contraddice se stesso. Come scrisse il biologo britannico Haldane nel 1927, ‘Se i miei processi mentali sono determinati interamente dal movimento degli atomi nel mio cervello, non ho ragione di supporre che le mie convinzioni siano vere; e dunque non ho ragione di supporre che la mia mente sia composta soltanto da atomi’. L’intelligent design è semplicemente un modo per rivendicare l’esistenza di un universo gerarchico (…) e si guarda bene dal sostenere che l’intelligenza manifestamente presente nell’universo sia di origine sovrannaturale”. La reazione dei neodarwinisti è scomposta. Abituati a dileggiare una destra religiosa che invoca l’interpretazione letterale della Bibbia e crede che la razza umana sia comparsa sulla Terra appena da pochi millenni, non sanno che pesci prendere quando si trovano a dibattere con persone che masticano con disinvoltura matematica applicata, ingegneria elettronica e biologia. Chris Mooney della rivista progressive The American Prospect, non trovando di meglio, ricorda i trascorsi “moderati” di Gilder e Chapman. E li accusa di essere diventati più estremisti degli estremisti che un tempo combattevano. Ma ci vuole altro per ribattere alle argomentazioni di Gilder e al suo durissimo attacco alla “trappola della superstizione materialistica” da cui prendono le mosse i lavori sull’Intelligent design. “Presentarci come trogloditi che credono nell’Arca di Noè è davvero bizzarro – dice – Ma se questo è il modo che hanno scelto per attaccarmi, peggio per loro. In realtà è tutto piuttosto divertente. E’ come se ti sparassero a bruciapelo mancandoti totalmente”. Così dopo qualche anno di dibattito sull’ID, con i neodarwinisti arroccati in difesa in tutto il mondo, Gilder può tranquillamente passare il testimone ai suoi colleghi del Discovery Institute, come Ann Gauger, Douglas Axe e Brendan Dixon. Per lui, a settantuno anni, è arrivato il momento di combattere un’altra battaglia della Culture war. E il fronte, stavolta, è in medio oriente.

The Israel Test
Non era certamente nelle intenzioni dell’autore – scrive Michael Medved nella sua recensione a “The Israel Test” – ma siamo di fronte a un libro che potrebbe provocare nei lettori ebrei un raro caso di invidia nei confronti dei wasp. Ci voleva un protestante al cento per cento come George Gilder, infatti, per trovare qualcuno con il coraggio di dare vita a un saggio così favorevole a Israele e agli ebrei”. E ci voleva Gilder per scrivere una verità che è spesso rimasta oscurata dalle nebbie del politicamente corretto: “Intrappolati nel dibattito sui suoi vizi e sui suoi errori, i critici di Israele non vedono il filo rosso che unisce la lunga storia dell’antisemitismo. Israele è odiato soprattutto per le sue virtù”. La tesi di Gilder è che le radici del conflitto mediorientale non siano legate al controllo del territorio o alla religione, ma siano soprattutto psicologiche e derivino dal risentimento nei confronti dei successi di Israele. L’antisionismo, insomma, è spinto dagli stessi fenomeni che hanno sempre alimentato l’antisemitismo: l’invidia e l’incapacità di comprendere il libero mercato. Emozioni che si manifestano con l’odio nei confronti dei commercianti, degli imprenditori, dei banchieri e degli altri creatori di ricchezza, soprattutto nel caso in cui una minoranza si distingue sotto il profilo economico. Le persone “normali”, secondo Gilder, non nutrono questo tipo di risentimento, tipico piuttosto delle élite intellettuali che diffondono un concetto tanto antico quanto falso: la povertà è causata sempre dallo sfruttamento, perché qualcun altro. Questo è il motivo per cui Israele divide il mondo: da una parte le Nazioni Unite, le organizzazioni internazionali e i dipartimenti umanistici delle università, che considerano il capitalismo come un gioco a somma zero, in cui il successo si ottiene a spese dei poveri e dell’ambiente; dall’altra, chi ammira i successi di Israele e capisce che il capitalismo è un gioco a somma positiva in cui tutti possono trarre benefici dalle fortune di chi è in grado di creare ricchezza. I collettivisti e i loro apologeti, dunque, invidiano Israele e gli ebrei perché non sono capaci di emularli. E la loro reazione è quella di tentare di distruggere tutto quello che mette in evidenza i loro fallimenti. Imprenditori e scienziati ebrei come Albert Einstein, Niels Bohr, Heinrich Hertz, John von Neumann e Richard Feynman sono il fondamento della rivoluzione tecnologica che ha disegnato la società contemporanea, ma Gilder analizza in dettaglio tutti i campi d’eccellenza che hanno portato Israele (soprattutto dopo le riforme economiche del primo governo Netanyahu) a diventare la nazione con il maggiore tasso di innovazione pro capite, superando addirittura gli Stati Uniti. Il destino di Israele, però, è appeso a un filo sottile: prevarranno le forze dell’invidia o quelle che riconoscono la forza creativa dell’eccellenza? È questo il “test” che deciderà le sorti, non solo dello stato ebraico, ma dell’intera civiltà occidentale.


Larry Silverbud, da Il Foglio di sabato 8 maggio 2010

giovedì 6 maggio 2010

UK 2010. Liveblogging



UK: Final Predictions

Gli ultimi sondaggi dalla Gran Bretagna, su UK Polling Report. Domani liveblogging con Simone.

CONLABLDEMCon Lead
Populus372827+9
ComRes372828+9
Opinium352726+8
ICM362826+8
YouGov352828+7
Angus Reid362429+7
Harris352927+6
TNS BMRB332729+4
Avg.                           35.5     27.3     27.5    +8.0

mercoledì 5 maggio 2010

Dems: primarie deserte

In tre elezioni primarie (a livello statale) che si sono svolte martedì in Indiana, North Carolina e Ohio, il turnout della base democratica è stato nettamente inferiore a quello delle elezioni precedenti. In Ohio soltanto 663mila elettori si sono presentati per scegliere tra Lee Fisher e Jennifer Brummer come candidato democratico per il Senato. E si trattava di primarie dall'esito incerto, a differenza di quelle del 2006 in cui votarono 872mila elettori. Per le primarie, sempre al Senato, della North Carolina, gli elettori sono stati invece 425mila (il 14,4% dei registered democrats), contro i 444mila (18%) del 2004. E anche in quel caso si trattava di elezioni praticamente inutili, visto che Mike Easley non aveva nessun serio contendente. In Indiana, infine, per le primarie democratiche della Camera hanno votato soltanto in 204mila, contro i 357mila del 2002 e i 304mila del 2006.

lunedì 3 maggio 2010

Idee Marginali

Da oggi un nuovo blog si aggiunge alla mia lista di letture obbligatorie quotidiane. Si tratta di Idee Marginali, curato da due Ph.D. candidates in Economia alla University of Chicago: Andrea Asoni (il suo Il motel dei Polli ispirati è sempre stato uno dei miei blog preferiti) e Ferdinando Monte. A loro due, il mio più grande “in bocca al lupo” per questa avventura. A tutti gli altri: chi non legge è un keynesiano-di-ritorno.

Late Surge?

Dagli swing seats, buone notizie per i Tories di David Cameron. I dettagli da Simone Bressan, su FreedomLand.

Oh Nooo!