lunedì 30 marzo 2009

Why the Democrats Can't Govern

Jonathan Chait su The New Republic analizza, da sinistra, i motivi che potrebbero portare il partito democratico (e Obama) a trovarsi nella stessa di situazione di Carter (nel 1978 e nel 1980) e di Clinton (nel 1994). "Sembra impossibile - scrive Chait - che questo partito, con le sfide così grandi che attendono la nazione e una così rara possibilità di affrontarle, voglia ancora una volta seguire il sentiero verso il suicidio. Eppure, a volte, i democratici proprio non riescono a farne a meno". Nel dettaglio, Chait offre tre possibili spiegazioni di questa tendenza all'auto-distruzione. Anche se nessuna (a parte forse la seconda) è troppo convincente, l'analisi resta interessante e merita sicuramente un'attenta lettura.

Round-Up (left&right): JustOneMinute, Betsy's Page, DownWithTyranny!, Matthew Yglesias, RedState, Patterico's Pontifications

Bailout!



(h/t: Creez)

giovedì 26 marzo 2009

No, he can't

Obama’s dismantling of President Clinton’s economic legacy is injurious. For moderate Democrats who recognise the national mainstream as the party’s best hope of a long-term majority, it is highly dangerous to be associated with such an ideological presidency. It is even worse when the ideology is the one least likely to work. Weakness and inexperience abroad is already causing a dangerous escalation in tensions. At home, the president’s policies represent a history-making, debt-fuelled arrogation of vast territories of private life and the economy. More war and less growth is bad leadership and bad politics.


Karl Rove? Newt Gingrich? Rush Limbaugh? Joe the Plumber? No, è soltanto l'ultimo paragrafo di un articolo scritto da Burtle Bull (ex editore di The Village Voice) per il magazine britannico Prospect. Dopo la sinistra-sinistra, anche la sinistra-centro sta iniziando a mollare Obama?

mercoledì 25 marzo 2009

Appeaser-in-Chief

Enzo Reale, che è un idealista, usa ancora il punto interrogativo scrivendo del "brusco arresto nella diffusione dei principi e della pratica della democrazia e della libertà" dell'amministrazione Obama-Clinton. Noi, che siamo dei cinici realisti muscolari, il punto interrogativo l'abbiamo già tolto. Per tutto il resto, d'accordo al 100%.

Bush vs Obama



Un consiglio a tutti i fiscal conservatives che hanno (giustamente) criticato la politica ecomomica di George W. Bush e che hanno (ingiustamente) dato credito alle promesse obamiste in campagna elettorale: date un'occhiata alle quick observations sul budget dell'amministrazione democratica scritte da Brian Riedl e da Conn Carrol per il blog della Heritage Foundation. Il grafico qui sopra è del Washington Post.

martedì 24 marzo 2009

Will Obama Listen to Iran's Bloggers?

«Barack Obama extended the olive branch to Iran's leaders last Friday in a videotaped message praising a “great civilization” for “accomplishments” that “have earned the respect of the United States and the world.” The death of Iranian blogger Omid-Reza Mirsayafi in Tehran's Evin prison two days earlier was, presumably, not among the accomplishments the president had in mind».

(Bret Stephens, Wall Street Journal)

Fifty-Fifty

«La luna di miele è finita». Inizia così l'articolo del Boston Herald che anticipa il sondaggio di Zogby secondo cui il job approval di Obama sarebbe tornato sulla Terra, entrando nella “zona 50%”. «I numeri stanno scendendo - dice John Zogby all'Herald - non a causa delle ultime gaffe, ma per una combinazione di alte aspettative e lentezza di risultati nell'economia». E Tobe Berkovitz, del Boston University’s College of Communication, pensa che il problema del presidente sia la «sovraesposizione delle ultime settimane». Intanto, mentre Gallup e CBS News si ostinano a confermare numeri intorno al 65%, Obama per Rasmussen Reports resta inchiodato al 56% (con un approval index del +4%).

UPDATE. Naturalmente ora Zogby diventa «the worst pollster in the world», cosa probabilmente vera - per carità - ma di cui Nate Silver si ricorda solo a giorni alterni... ;)

lunedì 23 marzo 2009

Fuoco amico

Una giornata storta può capitare a tutti. Ma quella che è toccata a Barack Obama sabato scorso sarà difficile da dimenticare. Coccolato dai mezzi d’informazione fin dal suo esordio sulla scena politica nazionale, il presidente americano sembra aver perso - nelle ultime settimane - una parte dell’appeal esercitato nei confronti dei media e, in genere, delle élite che hanno contribuito alla sua storica elezione. Nello stesso giorno (sabato, appunto), Obama è stato oggetto di tre editoriali, molto critici, pubblicati dal New York Times, il giornale che più di ogni altro, durante la campagna elettorale, si era distinto per la sua incrollabile ortodossia obamista. Il tutto mentre, su Internet, un altro commentatore del NYT, il recente premio Nobel per l’economia Paul Krugman, scriveva sul suo visitatissimo blog che il piano di salvataggio delle banche annunciato dal ministro del Tesoro, Tim Geithner, era quasi certamente destinato a fallire. Un concetto ripreso e approfondito ieri da Krugman, sempre nella pagina degli editoriali del New York Times.

Soltanto “fuoco amico”? O un segnale che qualcosa, nei rapporti tra Obama e la sua constituency naturale, non funziona più come prima? E quale è il ruolo del criticatissimo Geithner in tutta la vicenda? Ieri Markos Moulitsas, fondatore di Daily Kos, e “guru” della sinistra progressive, scriveva su Twitter (la piattaforma di micro-blogging) che «Geithner sta iniziando ad assomigliare al Rumsfeld di Obama». Un paragone blasfemo, per chi ritiene che il primo ministro della Difesa di Bush fosse l’incarnazione del Male sulla terra, ma anche l’indizio di un malessere profondo che serpeggia nel mondo della sinistra americana. Ieri Krugman scriveva esplicitamente del «senso di disperazione» che lo coglie quando analizza il piano di Geithner.

«Il ministro del Tesoro - spiega l’economista liberal - ha persuaso il presidente Obama a riciclare le politiche ideate dall’amministrazione Bush, in particolare il piano “cash for trash” proposto e poi abbandonato sei mesi fa da Henry Paulson». Come aveva scritto un paio di giorni prima sul suo blog, insomma, Krugman è convinto che abbiano vinto «le idee degli zombie». «È come - prosegue - se il presidente fosse determinato a confermare la crescente percezione di inadeguatezza sua e del suo team economico». Una percezione che potrebbe presto prosciugare il suo «capitale politico».

E se Krugman è «disperato», Thomas Friedman - un altro degli obamiani della prima ora - accusa addirittura la Casa Bianca di aver perso la sua capacità di «leadership ispirata», che è un po’ come dire a Berlusconi che non più in grado di raccontare barzellette. Secondo Friedman, «Obama ha perso una grande opportunità con lo scandalo dei bonus Aig», perché - invece di affidarsi alla reazione scomposta del Congresso - avrebbe dovuto chiedere ai manager (naturalmente in diretta televisiva) di rinunciare spontaneamente ai loro premi milionari.

Una tesi surreale, ma non come l’inizio dell’ultimo editoriale di Maureen Down (sempre obamiana, sempre sul NYT), che immagina uno spot che avrebbe potuto far vincere le elezioni a John McCain: Barack Obama che coltiva rucola organica (“arugola”, per l'America radical chic) nei giardini della Casa Bianca. Una fantasia superata dalla realtà, dopo le rivelazioni botaniche della first lady Michelle, pronta a costringere tutta la famiglia a mangiare verdura «che lo vogliano o no», che spinge la Dowd a chiedersi se «nello studio ovale non ci sia capitato l’Obama sbagliato».

Anche in questo caso, note di colore a parte, l’accusa principale mossa nei confronti di Obama è quella di essersi lasciato convincere da Geithner («nato e cresciuto repubblicano») a «coccolare l’élite di Wall Street». Meglio il decisionismo vegetariano di Michelle, insomma, rispetto alla debolezza dimostrata da Barack nei confronti degli “avidi capitalisti”.

Il senso della “grande ribellione” della sinistra nei confronti di Obama e della sua politica economica, a ben guardare, è tutto qui. Il presidente ha fatto campagna elettorale sostenendo, almeno in teoria, le ragioni di Main Street contro quelle di Wall Street. E oggi, secondo i suoi neo-detrattori, si è arreso al nemico senza neppure combattere. “Inventato” dai media, invocato dalla sinistra ed eletto sull’onda di una rivolta populista, oggi Obama sembra in grande difficoltà, nella gestione della crisi economica, proprio con i suoi alleati naturali. Intanto, per dirla con Krugman, il tempo passa inesorabile al ritmo di «600mila posti di lavoro persi ogni mese». E il capitale politico inizia a scarseggiare.

(domani in edicola su Liberal quotidiano)

domenica 22 marzo 2009

Damn Teleprompter...



There are those who say that the plans in this budget are too ambitious to enact. To say that, uh … they say uh, in the face of challenges, uh, that we face, we should be trying to do less than more.

(via Hot Air)

venerdì 20 marzo 2009

Barack H. Obiden



- Obama: «I've been practising. I bowled a 129.
- Leno: «That's very good, Mr. President...»
- Obama: «It's like the Special Olympics or something...»

Provate ad immaginare cosa sarebbe potuto accadere se George W. Bush avesse fatto una battuta sugli handicappati in un late night show.

Round-Up. Political Punch, Michelle Malkin, Fox News, Patterico's Pontifications, Stop The ACLU, Perfunction, No Quarter, Don Surber, The Strata-Sphere, Wizbang, Conservatives4Palin.com, NewsBusters.org, The Sundries Shack, Hugh Hewitt, Riehl World View, Protein Wisdom, Hot Air, JammieWearingFool, Blue Crab Boulevard, Ace of Spades HQ

UPDATE. Jim Vandehei e Mike Allen su The Politico: “Obama struggles as communicator

UPDATE/2. Bring it on!

giovedì 19 marzo 2009

The Opening

President Barack Obama and his West Wing lieutenants are playing on the world's largest stage, yet act as if no one is watching them when they contradict their campaign promises. That behavior is unwittingly giving the Republicans an opening.

(Karl Rove, Wall Street Journal)

I furbetti del Tesorino

Parliamoci chiaro. Nello “scandalo” dei bonus AIG qualcuno (più d’uno, forse) sta mentendo al popolo americano. E il principale indiziato non può che essere il ministro del Tesoro dell’amministrazione Obama, Timothy Geithner. Facciamo qualche passo indietro per i più distratti.

(Larry Silverbud, su L'Occidentale)

mercoledì 18 marzo 2009

Effetto Obama

Per la prima volta - in anni - i repubblicani sorpassano i democratici nel “generic congressional ballot” di Rasmussen Reports.

Think Again

Bold? Smooth? Great Communicator? Think Again. Cinque miti della mistica obamista smontati, su The Politico, da Alex Conant.

martedì 17 marzo 2009

Tidbits

Il Washington Post insolitamente duro nei confronti del Messia. I problemi fiscali del Team Obama. Ron Paul insidiato (in una camera da letto) da Sacha Baron Cohen in versione-Bruno. Il Minnesota come la Florida (magari...). Il governatore di New York affonda nei sondaggi. La vast left-wing conspiracy viene allo scoperto. E finalmente arriva una proposta sensata da parte dei repubblicani.

Slippery People /2

Grazie a una segnalazione di Andrea Mollica, torniamo sull'argomento del job approval obamiano con due letture molto interessanti (anche se di venerdì scorso). Douglas E. Schoen e Scott Rasmussen, sul Wall Street Journal, ci avvertono che «i numeri di Obama stanno tornando sulla Terra». Nate Silver, su Fivethirtyeight, prova a spiegare perché.

lunedì 16 marzo 2009

Slippery People

Obama perde 5 punti percentuali di job approval in un mese (da 64% a 59%), secondo Pew Research. E secondo Rasmussen Reports il suo approval index è il più basso di sempre: +4% contro il +30% di fine gennaio.

Ron Silver, 1946-2009

«Just over 1,000 days ago, 2,605 of my neighbors were murdered at the World Trade Center — men, women and children — as they began their day on a brilliantly clear New York autumn morning, less than four miles from where I am now standing. We will never forgive. Never forget. Never excuse! At the end of World War II, General Douglas MacArthur, Supreme Allied Commander of the South Pacific, said: “It is my earnest hope - indeed the hope of all mankind - that from this solemn occasion a better world shall emerge out of the blood and carnage of the past, a world found upon faith and understanding, a world dedicated to the dignity of man and the fulfillment of his most cherished wish for freedom, tolerance and justice.” The hope he expressed then remains relevant today. We are again engaged in a war that will define the future of humankind. Responding to attacks on our soil, America has led a coalition of countries against extremists who want to destroy our way of life and our values.

This is a war we did not seek.
This is a war waged against us. This is a war to which we had to respond. History shows that we are not imperialists . . .but we are fighters for freedom and democracy. Even though I am a well-recognized liberal on many issues confronting our society today, I find it ironic that many human rights advocates and outspoken members of my own entertainment community are often on the front lines to protest repression, for which I applaud them but they are usually the first ones to oppose any use of force to take care of these horrors that they catalogue repeatedly. Under the unwavering leadership of President Bush, the cause of freedom and democracy is being advanced by the courageous men and women serving in our Armed Services. The President is doing exactly the right thing. That is why we need this President at this time! I am grateful for the chance to speak tonight to express my support for our Commander-in-Chief, for our brave troops, and for the vital cause which they have undertaken. General Dwight Eisenhower’s statement of 60 years ago is true today... “United in this determination and with unshakable faith in the cause for which we fight, we will, with God’s help, go forward to our greatest victory”. Thank you».

Ron Silver, New York, August 30th 2004, Republican National Convention (via Michelle Malkin)

giovedì 12 marzo 2009

Best. Frontpage. Ever

mercoledì 11 marzo 2009

The Last Freeman in Town

Alla fine non ce l’ha fatta. Charles W. Freeman Jr. ha rinunciato alla carica di presidente del National Intelligence Council, ha ringraziato il capo dell’intelligence Dennis Blair e il presidente Barack Obama che l’avevano scelto, ha sparato un paio di “razzi qassam” contro la «lobby israeliana» che aveva lavorato (duramente) per farlo fuori, ha salutato ed è uscito di scena. La rinuncia di Freeman è soltanto l’ultimo degli ormai innumerevoli scivoloni dell’amministrazione democratica nelle sue prime settimane di vita. Ma questa volta, in ballo, c’era la stessa “anima” della politica estera statunitense prossima ventura, in bilico tra continuità bushista e rigurgiti realisti. Una dicotomia che tutta la biografia di Freeman, in qualche modo, rappresenta perfettamente.

Charles Freeman nasce nel 1943 nel Rhode Island, ma presto si trasferisce alle Bahamas, dove il padre conduce i suoi affari. Torna negli Stati Uniti solo per fare l’università: si laurea a Yale e poi alla scuola di legge di Harvard. Sceglie subito la carriera diplomatica e nel 1965 entra nello United States Foreign Service, che lo spedisce prima in India e poi a Taiwan. Nel 1972, è il capo dei traduttori che assistono il presidente Richard Nixon nel suo storico viaggio nella Cina comunista. Poi torna negli Stati Uniti. Dopo aver ricoperto varie posizioni al Dipartimento di Stato, Freeman viene chiamato a svolgere missioni a Pechino e poi a Bangkok, prima di essere scelto come deputy assistant del segretario di stato per gli affari africani. Nel novembre del 1989 diventa ambasciatore in Arabia Saudita, dove resta fino alla prima Guerra del Golfo, nel 1992. Dal 1992 al 1997 lavora per l’Institute for National Strategic Studies, per lo United States Institute of Peace e per una società privata di Washington che si occupa di organizzare joint venture internazionali. Poi, nel 1997, succede a George McGovern (il candidato democratico sconfitto da Nixon alle presidenziali del 1972) come presidente del Middle East Policy Council.

Ex ambasciatore, analista di spessore, versato nelle lingue (cinese, francese, spagnolo e un pizzico di arabo), Freeman sembrerebbe - a prima vista - una buona scelta per il ruolo di presidente del National Intelligence Council. Ma erano in molti a non pensarla così, soprattutto dopo alcune sue dichiarazioni “giustificazioniste” sull’11 settembre («invece di chiederci cosa abbia causato gli attacchi, gli americani dovrebbero esaminare se stessi») e sul massacro di Piazza Tiananmen («la risposta del Politburo è stata un esempio di eccessiva cautela nei confronti dei manifestanti»). Considerato - a torto o a ragione - un “nemico di Israele”, Freeman non ha mai fatto nulla per eludere questa nomèa. Arrivando a pubblicare il controverso libro “The Israel Lobby and U.S. Foreign Policy”, che nel 2006 gli attirò le “simpatie” dei neocon di destra e di sinistra. Un personaggio troppo chiacchierato, insomma, per resistere ad uno scrutinio serrato come quello a cui è stato sottoposto. E che ha portato all’ennesimo flop nelle nomine di Obama.

(domani su Liberal quotidiano)

Il sondaggione

Il mitico Cap_Forever, come promesso, condivide con noi i risultati di un sondaggio elettorale condotto dal 23 febbraio al 6 marzo e realizzato con metodologia CATI (Computer-Assisted Telephone Interviewing). Il campione - particolarmente significativo (circa 3500 contatti) - è stato anche «ponderato per circoscrizione elettorale» e «costruito su uno schema custom delle ultime tornate elettorali», per cercare di «prevenire errori di stima e campionatura» (come quelli delle ultime elezioni regionali in Sardegna). Ma bando alle ciance, ecco i numeri:

PdL 39,7% (+2,3%)
Lega 8,2% (-0,1%)
Mpa 1% (-0,1%)
TOT cdx 48,9% (+2,1%)
Pd 25,9% (-7,2%)
Idv 6,5% (+2,1)
TOT csx 32,4% (-5,1%)
Udc 6,7% (+1,1%)
Socialisti 1% (=)
Altri sinistra 5,5% (+2,5%)
Non sa/non risponde 5,5%

(nota: tra parentesi, la variazione percentuale rispetto alle Politiche 2008 - Camera; mancano dati specifici su Partito radicale e La Destra, mentre il dato di Rifondazione comunista si aggira intorno al 3,5%)

venerdì 6 marzo 2009

Diplomacy

Giornali e blog britannici, che pure ultimamente non trattano il premier Gordon Brown con particolare riguardo, sono in subbuglio da quando il Daily Mail ha rivelato l’ultimo “dispetto” di Barack Obama al collega d’oltreoceano. Prima c’è stato l’annullamento - estremamente inusuale - della conferenza stampa congiunta prevista durante la visita di Brown negli Stati Uniti. Un mancato servizio fotografico da “propaganda” insieme a Barack, su cui i laburisti puntavano molto per risollevare, almeno in parte, la sorte di un primo ministro in grave sofferenza - almeno secondo i sondaggi - nei confronti del rivale conservatore, David Cameron. Adesso arrivano anche le rivelazioni del Mail, che ha scoperto come il presidente Usa - rinnegando per una volta la tradizionale generosità americana - abbia tirato la cinghia (un po’ troppo, perfino per gli standard da recessione) al momento del tradizionale scambio di regali tra i due capi di governo.
Brown non ha badato a spese, regalando a Obama una serie di pezzi pregiati ed estremamente significativi.

Ma procediamo con ordine. Prima un portapenne da tavolo costruito con il legno di quercia di un vascello (uno “sloop”, per l’esattezza) dell’epoca vittoriana - l’Hms Gannet - che prese parte, nel 1887, a una pericolosissima operazione anti-schiavismo nel Mar Rosso. Un oggetto che a Obama è piaciuto moltissimo, tanto che già campeggia sulla scrivania dell’Oval Office. Poi una stampa d’epoca (finemente incorniciata) che rappresenta un’altra nave della marina britannica (l’Hms Resolute), simbolo della pace anglo-americana da quando fu salvata dai ghiacci da marinai statunitensi per essere restitutita alla regina Vittoria. Infine, last but not least, la prima edizione della classica biografia di Winston Churchill in sette volumi firmata da Sir Martin Gilbert. Niente male, davvero niente male.

Ma cosa si sarà mai inventato, quell’enfant prodige della politica mondiale che risponde al nome di Barack Obama, per superare (o almeno pareggiare) tanta magnificenza? Non trattenete il respiro, perché in realtà il pacco-dono recapitato a Brown consisteva in un cofanetto di dvd. Sì, avete capito bene, uno di quelli che si trovano in saldo nelle videoteche e nelle librerie, o a prezzi stracciati su Amazon: i 25 “grandi classici” del cinema hollywoodiano (in rigorosa bassa definizione). Non c’è da stupirsi se gli inglesi, impettiti come sono, se la sono presa. Adesso resta solo da capire se si sia trattato di un insulto deliberato o di incompetenza diplomatica ai massimi livelli. Bella scelta.

(domani su Liberal quotidiano)

BHO Round-Up

Obama's Plan Will Hurt the Middle Class - Jim Powell, Cato Institute
Obama's Safety Net: the Teleprompter - Carol E. Lee, The Politico
Obama's Left Turn - Stuart Taylor, National Journal
Deception at Core of Obama Plans - Charles Krauthammer, WaPo
Obama's Radicalism Is Killing the Dow - Michael Boskin, WSJ
The Trouble With Operation Rushbo - Nicole Wallace, Daily Beast
GOP Fights Back Over Criticism of Limbaugh - Howard Kurts, WaPo
Putting Obama's Ratings in Perspective - Peter Wehner, The Corner
Obama's Need for Speed - Tom Bevan, RealClearPolitics
An Electoral Class Experiment - Gary Andres, Weekly Standard
Presidential Bait-and-Switch - Karl Rove, Wall Street Journal
My Response To The White House - Jim Cramer, MainStreet

giovedì 5 marzo 2009

Il prescelto

















George W. Bush, Dick Cheney, Karl Rove e Donald Rumsfeld sono ormai lontani dalla luce dei riflettori? Niente paura, gli strateghi democratici hanno già trovato qualcuno da demonizzare al posto loro. Per spaventare l’elettorato moderato e, magari, sviare l’attenzione dell’opinione pubblica dal gigantesco “New New Deal” obamiano che sta per trasformare gli Stati Uniti d’America in una succursale della Vecchia Europa. Il tutto, naturalmente, con il consenso – informato – della Casa Bianca e del presidente in persona.
(Larry Silverbud su L'Occidentale)

mercoledì 4 marzo 2009

The Bogeyman

Sui giornali statunitensi, da qualche giorno, si parla più di lui che del presidente Barack Obama. Soprattutto da quando i democratici - sembra su indicazione strategica dei guru clintoniani Stanley Greenberg e James Carville - hanno deciso di dipingerlo come «il vero leader del partito repubblicano», per rappresentare di fronte all’opinione pubblica l’immagine di un Gop «violento ed estremista ». E dunque non in grado di offrire una plausibile alternativa di governo. Il nuovo bogeyman scelto dai media per spaventare l’elettorato moderato ha addirittura avuto l’onore di essere citato personalmente dal capo dello staff di Obama, Rahm Emanuel, durante un’intervista televisiva. Senza contare la frettolosa retromarcia a cui ha costretto il nuovo leader del Republican National Committee, Micheal Steele, che aveva avuto la malaugurata idea di rivolgergli alcune (tiepidissime) critiche. Per non parlare dell’ovazione interminabile che gli ha riservato, domenica scorsa, la platea di attivisti della Conservative Political Action Conference, prima e dopo il suo lunghissimo intervento. Ma chi è, e da dove viene esattamente questo Rush Limbaugh?

Cinquantotto anni, bianco, ben piazzato, Limbaugh nasce professionalmente come deejay per una stazione radiofonica di Pittsburgh, in Pennsylvania. Con il nome d’arte di “Jeff Christie”si muove in lungo in largo per gli States, durante gli anni Settanta, passando di radio in radio (Missouri, Kansas, California). La svolta arriva nel 1987, quando l’amministrazione Reagan abolisce la Fairness Doctrine (una sorta di “par condicio” a stelle e strisce) che obbligava gli editori ad ospitare per un tempo equivalente commentatori di opinioni politiche contrapposte. «Ronald Reagan - si legge in un editoriale pubblicato al tempo dal Wall Street Journal - ha demolito questo muro. E Rush Limbaugh è stato il primo uomo a proclamarsi libero da questa dominazione, in stile tedesco-orientale, dei media liberal».

La nuova trasmissione di Limbaugh, trasmessa da una radio locale di Sacramento e finalmente svincolata dai limiti della “correttezza politica”, incontra presto una popolarità crescente. Rush è dotato di un senso dell’umorismo istintivo ed irresistibile (almeno per chi non lo odia), riesce ad imitare alla perfezione la voce degli avversari politici, ha una visione lucida, formalmente impeccabile ma anche estremamente “popolare” della filosofia conservatrice. Soprattutto, poi, riesce a parlare per 3-4 ore consecutive di politica, senza annoiare mai. Nell’agosto del 1988 viene notato da Edward F. McLaughlin, il presidente di Abc Radio, che gli propone di trasferirsi a New York per iniziare un talk show nazionale. Rush accetta.

Il Rush Limbaugh Show debutta appena prima delle convention di democratici e repubblicani (quell’anno, lo scontro alle presidenziali fu tra George Bush Sr. e Mike Dukakis): il successo è immediato e inarrestabile. E presto lo show viene trasmesso da oltre 650 stazioni radio su tutto il territorio nazionale. Il format, più o meno, è lo stesso che viene proposto ancora oggi, oltre vent’anni dopo, malgrado la nascita di centinaia di imitatori del suo stile inconfondibile. Nel 1994, insieme a Newt Gingrich, è considerato è il principale artefice dell’onda repubblicana che travolge i democratici al Congresso.

Nel 2006, i dati ufficiali gli attribuiscono un’audience minima di 13,5 milioni di ascoltatori. Numeri senza alcun paragone nel mercato Usa, che lo portano a firmare - nel 2001 - un contratto da oltre 30 milioni di dollari all’anno. Contratto prolungato recentemente fino al 2016 per un totale di oltre 400 milioni. Si tratta del record di ogni tempo nel mondo del broadcasting, radiofonico o televisivo, statunitense. Forse non sarà l’anti-Obama, come giurano i suoi fan, ma una cosa è certa: Rush sa fare bene il suo mestiere. E il suo mestiere è quello di convincere gli americani a “rifiutare” le idee e le politiche dei democratici. Negli ultimi 20 anni ci è riuscito piuttosto spesso, per il futuro si vedrà.

(domani su Liberal quotidiano)

lunedì 2 marzo 2009

Rush, Unplugged

L'intervento di Rush Limbaugh alla CPAC 2009 (Conservative Political Action Conference). Secondo Hugh Hewitt, si è trattato di un discorso di cui «si parlerà per anni, anzi per decenni».