A prima vista sembra un pareggio. In realtà, Barack Obama ha ottenuto una vittoria al di sopra di ogni aspettativa. Una vittoria forse decisiva per le sorti della nomination democratica. Il senatore dell’Illinois ha stravinto in Nord Carolina (56,3% contro 41,5%) con oltre 200mila voti di vantaggio. E ha sfiorato un clamoroso successo anche in Indiana, dove Hillary Rodham Clinton è riuscita ad imporsi solo per il rotto della cuffia (50,9% contro 49,1%), malgrado un background demografico a lei molto favorevole. Adesso Obama conduce nel conto dei delegati con un margine piuttosto comodo (+152), che lascia confinata al mondo della fantascienza la possibilità che Hillary riesca a ribaltare lo svantaggio entro il 3 giugno, giorno in cui - con le primarie in Montana e Sud Dakota - si concluderà questa appassionante (e masochista) cavalcata democratica verso la convention di Denver.
Per la verità, la data decisiva per le residue speranze di sopravvivenza dell’ex First Lady è quella del 31 maggio. In quel giorno, infatti, a Washington un meeting ristretto del partito democratico deciderà la sorte dei “delegati virtuali” di Florida e Michigan, stati vinti dalla Clinton (soprattutto per mancanza di avversari) ma “puniti” dal partito per aver anticipato la data delle elezioni primarie. Questo comitato di 30 membri - di cui pare che almeno 13 siano sotto il controllo “diretto” di Hillary - avrà carta bianca nell’assegnazione di 366 potenziali delegati. Potrebbe distribuirli in base al risultato delle primarie, assegnarne soltanto la metà (e sembra che questa sia la decisione più probabile), decidere di seguire la linea punitiva scelta originariamente del partito o addirittura stabilire una ripetizione del voto. Comunque vada, dopo le primarie in Nord Carolina e Indiana, il sottile filo di speranza che lascia Hillary legata alla nomination passa da Washington e dal suo disperato tentativo di spostare nelle stanze della burocrazia di partito una sfida che, nelle urne, per ora la vede perdente.
Per John Kass del Chicago Tibune, «Hillary è come un gatto che ha nove vite, ma le ha finite tutte». E il risultato delle ultime primarie sembrerebbe confermare questa tesi. Jay Cost, l’analista elettorale di Real Clear Politics, ha comparato la prestazione della Clinton in Indiana con quelle di due stati demograficamente non troppo diversi, come Ohio e Pennsylvania (in cui si è votato in marzo e in aprile). Ebbene, Hillary ha confermato i propri numeri in alcuni segmenti (uomini bianchi, over 65, protestanti bianchi, indipendenti), ma è clamorosamente crollata in altri (donne bianche, elettori con istruzione inferiore, iscritti ai sindacati) che costituivano il “nocciolo duro” del suo elettorato di riferimento. A questo si deve l’inaspettato “quasi pareggio” di Obama. In Nord Carolina, sotto il profilo strettamente demografico, le cose per Hillary sono andate leggermente meglio, ma il senatore junior dell’Illinois ha letteralmente travolto la rivale nelle aree urbane (e, naturalmente, tra gli afro-americani), ottenendo un vantaggio vicino al 15%, superiore a quello registrato dai sondaggi della vigilia. La “coalizione” clintoniana, insomma, sembra perdere colpi vistosamente. Mentre quella obamiana (neri, studenti ed élite metropolitane) si consolida progressivamente.
I problemi, per Obama, potrebbero derivare proprio da questo incrociarsi di dinamiche. Perché, come ha scritto ieri David Brooks sul New York Times, all’inizio di questa campagna elettorale Obama era visto come un candidato di garantirsi un sostegno «bipartisan e post-partisan». Capace, insomma, di fare presa anche su un elettorato «indipendente e moderato». Se guardiamo agli exit-poll delle ultime primarie, invece, ci troviamo di fronte ad un candidato estremamente spostato a sinistra rispetto all’asse mediano dell’elettorato statunitense. «Più ci si sposta a sinistra - scrive Brooks - più Obama diventa forte. Più ci si sposta verso il centro, meno intensa diventa la sua capacità di attrarre consensi. Una volta Obama aveva un discreto sostegno da parte di chi si definiva “molto religioso”. Adesso fa il pieno tra gli strati più secolarizzati dell’elettorato».
Brooks, come altri commentatori in passato, si spinge fino a paragonare i sostenitori di Obama a quelli del famigerato duo McGovern-Dukakis (i due candidati più “di sinistra” della storia recente del partito democratico), per sottolineare le difficoltà che avrebbe una proposta politica del genere nell’imporsi in una elezione presidenziale. E c’è un’altra cattiva notizia per Obama tra le pieghe degli exit-poll, soprattutto in Indiana: quasi la metà degli elettori di Hillary si dice pronta a votare per John McCain in caso di sconfitta del loro candidato alle primarie. Si tratta di una opzione che, seppure con numeri più ridotti, si ripete specularmente anche in campo obamiano. Segno che il violentissimo e prolungato scontro tra Hillary e Obama sta iniziando a lasciare il segno sull’elettorato democratico, perché queste percentuali sono cresciute sensibilmente nell’ultimo mese.
L’avversione dell’elettorato clintoniano nei confronti di Obama, poi, solleva anche la questione “politicamente scorretta” della razza. Agli ultimi comizi di Hillary, la presenza di afro-americani si poteva contare sulle dita di una mano. E la moglie del «primo presidente nero della storia» ormai non riesce a raccogliere che le briciole di questa importantissima constituency del partito democratico. Questo dato di fatto apre la strada a due diversi ordini di problemi. Per Hillary diventa molto difficile convincere i “super-delegati” che non si sono ancora espressi (267, contro i 217 ancora da assegnare con le prossime primarie) a scegliere di appoggiarla, per paura di scatenare un’ondata di astensionismo nero, soprattutto nelle città. Per Obama, una sovrapposizione troppo marcata con l’elettorato afro-americano rischia di schiacciarlo troppo sulle posizioni tipiche del “candidato della minoranza”, che piace tanto al sistema dei media e alle “anime nobili”, ma in genere perde rovinosamente le elezioni.
Forse, con la scelta di McCain, candidato anomalo in grado di giocare di sponda con queste spinte opposte che sembrano dilaniare la sinistra americana, l’elettorato repubblicano ha davvero compiuto la scelta più saggia.
(domani su Liberal quotidiano)
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