Con il voto in Kentucky e Oregon, Barack Obama spera di chiudere una volta per tutte la pratica con Hillary Rodham Clinton per la candidatura del partito democratico alla Casa Bianca. Le speranze che questa operazione riesca, però, sono oggettivamente poche. La media dei sondaggi della vigilia vede Obama in testa di una decina di punti percentuali in Oregon (51,4 a 40,6), mentre la Clinton conduce comodamente in Kentucky, con un margine che sfiora i 30 punti (58,4 a 28,8). Secondo Michael Barone, su U.S. and World Report, in questi due stati Obama dovrebbe raccogliere una cinquantina di delegati che, sommati ai 1.900 conquistati finora, porta il suo totale intorno ai 1.950. Per raggiungere il “numero magico” di 2.025, insomma, al senatore junior dell’Illinois mancherebbero almeno 75 “super-delegati”. E con il ritmo attuale di “espansione”(circa 4-5 al giorno), raggiungere la certezza della nomination nelle prossime 24 ore sembra davvero una sfida impossibile.
L’incoronazione “ufficiale” di Obama, dunque, non dovrebbe avvenire prima del 3 giugno, giorno delle elezioni primarie in Montana e South Dakota (due giorni prima si voterà a Porto Rico, ma Hillary è largamente favorita). Senza contare che, il 31 maggio, il partito democratico deciderà sulla sorte dei delegati “virtuali” di Florida e Michigan (se venissero riammessi alla convention, come vuole Hillary, il “quorum” salirebbe a 2.209).
È ormai chiaro a tutti, però, che a meno di clamorose e - a tutt’oggi - imprevedibili sorprese, Barack Obama è destinato ad essere lo sfidante di John McCain nella corsa alla Casa Bianca. Già, McCain... Con i mezzi d’informazione americani ed europei ossessionati (e non senza motivo) dalla lunghissima lotta intestina nel partito democratico, la figura del candidato repubblicano sembra essersi un po’ persa nelle nebbie mediatiche della politica statunitense. Se, da un lato, il calor bianco dello scontro tra Hillary e Obama potrebbe, in vista di novembre, scottare il “prescelto” dei democratici, è anche vero che una prolungata assenza dalle prime pagine dei giornali e dai palinsesti televisivi potrebbe, a lungo andare, nuocere gravemente al candidato repubblicano, che già parte da una posizione strutturalmente sfavorevole visti i bassi indici di gradimento del suo partito e del presidente George W. Bush.
I repubblicani partono anche sfavoriti nella “corsa al dollaro”, perché la campagna di Obama - sfruttando molto intelligentemente le possibilità offerte dalle nuove tecnologie - è riuscita a raccogliere una grande quantità di denaro con piccole e piccolissime donazioni via Internet. Una parte (consistente) di questo divario potrebbe essere colmata direttamente dal partito repubblicano che, tramite il suo braccio finanziario (il Republican National Committee) ha raccolto circa 40 milioni di dollari ad aprile e conta di raccoglierne altri 150 (20 al mese) da qui a novembre. Frank Donatelli, che si occupa di mantenere i rapporti tra Rnc e campagna di McCain, ha dichiarato al New York Times che il partito repubblicano si propone di «garantire un supporto sostanziale e senza precedenti» al candidato del Gop.
Con l’aiuto del partito, insomma, il gap economico che separa attualmente McCain da Obama potrebbe essere parzialmente annullato, almeno per mettere in condizione il senatore dell’Arizona di essere competitivo a novembre. E il problema, per l’eroe pluridecorato della Guerra in Vietnam potrebbe restare “solo” quello di battere un candidato più giovane e più coccolato dai media. Impresa difficile, ma non impossibile, almeno secondo il parere di Dick Morris, il “guru” che ha praticamente fatto rieleggere Bill Clinton nel 1996, a soli due anni dalla rivoluzione conservatrice del “Contract with America” di Newt Gingrich. Nell’ultimo editoriale pubblicato dal Washington Post, Morris delinea una possibile strategia vincente per McCain. Il suo consiglio è quello (contro-intuitivo, per la verità) di smettere di inseguire la base conservatrice - da sempre scettica, per adoperare un eufemismo, nei confronti del Maverick - per concentrarsi su moderati e indipendenti.
«La base - scrive Morris - si mobiliterà comunque, con numeri massicci. Il Reverendo Wright è diventato il presidente onorario dell’organizzazione get-out-to-vote della campagna di McCain. Sarebbe carino pensare che la razza non sia più un fattore nella politica americana, ma non è così. La crescente paura nei confronti di Obama, che rimane qualcosa di sconosciuto, trascinerà fino all’ultimo repubblicano bianco alle urne per votare McCain. Senza nessun bisogno di sforzarsi troppo per convincere i cristiani evangelici o i fiscal conservatives». Visto il suo passato, per seguire questa strategia “centrista”, McCain non dovrebbe faticare troppo. E anche l’argomento su cui, secondo i sondaggi, il senatore dell’Arizona è più vulnerabile (la guerra in Iraq), dopo la “cura Petraeus” sta lentamente perdendo il suo status di punto di forza per il partito democratico.
Quello repubblicano, in ogni caso, resta un partito attraversato da una profonda crisi, che a novembre, con ogni probabilità, perderà molti seggi sia alla Camera che al Senato. La candidatura “anomala” di McCain, però, rende la corsa alla Casa Bianca competitiva anche in queste condizioni estremamente sfavorevoli. Ieri, entrambi gli istituti di ricerca che da qualche settimana effettuano quotidianamente sondaggi a livello nazionale (Gallup e Rasmussen) hanno registrato un vantaggio - minimo e statisticamente insignificante - per McCain nei confronti di Obama. Non è molto ma, rispetto al “disastro annunciato”, è almeno qualcosa su cui iniziare a lavorare.
(domani su Liberal quotidiano)
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