domenica 27 giugno 2010

Sotto la pioggia, un raggio di sole

Pioggia, tanta pioggia. Ma soprattutto tanti amici e tanti, bellissimi, happy warriors anti-tasse. Il Tea Party di ieri a Roma ha dovuto combattere contro mille avversità (il tempo inclemente, il comune che ci ha spostato in un'altra piazza a meno di ventiquattr'ore dall'evento, il "ponte" che ha portato fuori città molti cittadini romani), ma ha raggiunto pienamente il suo obiettivo primario: quello di "farsi vedere", riportando in mezzo alla gente il tema fiscale, da sempre uno cavalli da battaglia del centrodestra (non solo in Italia) ma che negli ultimi anni è stato ridotto a slogan elettorale senza mai trovare riscontri nella politica di governo. Nei prossimi giorni, su Tocqueville.it (e su YouTube), saranno messi online gli interventi registrati al nostro "video corner", compreso il saluto di uno dei turisti americani appartenenti all'Ohio Tea Party che si sono fermati a chiacchierare con noi, regalandoci un raggio di sole (soprattutto in vista delle elezioni americane di mid-term). Intanto, con la speranza che la troupe del Tg1 arrivata a riprendere la manifestazione non sia passata invano, notiamo che sui giornali lo spazio maggiore al Tea Party l'ha dedicato un quotidiano di sinistra come Il Riformista, mentre gli organi di stampa vicini al centrodestra (a parte un discreto articolo pubblicato nella cronaca romana de Il Giornale) si sono fatti notare per la propria assenza. Continuate così, fatevi del male.

venerdì 25 giugno 2010

My enemy the state

La malvagia entità chiamata “stato” (nella fattispecie il comune) ci ha costretto a cambiare l'indirizzo del Tea Party di domani: stessa ora (18.00), stessa città (Roma), piazza diversa (Piazza del Popolo, angolo via del Corso, davanti alla chiesa di S. Maria dei Miracoli). Qualcuno di noi sarà comunque a Piazza S.Lorenzo in Lucina per dirottare il traffico :) Appuntamento a domani!


Visualizzazione ingrandita della mappa

mercoledì 23 giugno 2010

martedì 22 giugno 2010

Stanley 2012

Dopo le prime anticipazioni di stamattina, la rivista Rolling Stone ha pubblicato la versione integrale dell'articolo che potrebbe costare il posto al generale Stanley McChrystal, comandante in capo delle forze statunitensi in Afghanistan. Il generale è stato convocato in tutta fretta a Washington. E si moltiplicano le voci su un suo imminente siluramento (o di dimissioni già rassegnate). Leggendo quello che pensa di Obama e Biden, però, io un'idea per trovare un altro posto di lavoro a Stanley - diciamo entro un paio d'anni - ce l'avrei.

UPDATE. Alessandro Tapparini, su Jefferson (da leggere, come sempre).

lunedì 21 giugno 2010

Tea Party Roma

Per uscire dalla crisi ed evitare il declino: tagliare le tasse è LA priorità

Sabato 26 giugno 2010, dalle ore 18 in piazza San Lorenzo in Lucina a Roma, il Tea Party dei tartassati d’Italia. Cn una pressione fiscale pari al 43 per cento del PIL, l’Italia è uno dei paesi europei che chiede il maggior sacrificio ai propri cittadini, a fronte di una PA inefficiente ed un welfare iniquo.

Se sommiamo tasse e contributi previdenziali, scopriamo che circa il 60-70% di quanto ognuno produce è assorbito e intermediato dal settore pubblico. Per pagare tasse e contributi, dobbiamo aspettare luglio per essere finalmente liberi di lavorare per noi stessi. I più facoltosi attendono addirittura settembre.

Chi dice che non possiamo permetterci di abbassare le tasse, perché questo metterebbe a repentaglio la stabilità dei conti dello Stato, non racconta tutta la verità: in un paese in cui la spesa pubblica è superiore al 50 per cento del PIL, è sempre possibile chiedere allo Stato una “cura dimagrante”. O pensiamo davvero che non esistano i margini per ridurre la spesa inefficiente, gli sprechi, le rendite economiche?

Se vogliamo uscire dalla crisi economica ed evitare il declino dell’Italia, riscoprendo i talenti di un paese straordinario e iniettando una dose di libertà nell’economia italiana, abbassare le tasse è LA priorità.

Sito Internet - Pagina Facebook - Pagina Facebook dell’evento

lunedì 14 giugno 2010

Iron Ladies

È (quasi) ufficiale: Sarah Palin incontrerà Margaret Thatcher nel suo imminente viaggio a Londra. Ancora non si sa niente, invece, di un possibile incontro con il premier David Cameron. Ce ne faremo una ragione. Su The Corner, intanto, il caporedattore della National Review - Jay Nordlinger (intellettuale di assoluto valore e persona deliziosa: provate a cercare “Ideazione” su questa pagina) - si ricorda di quando la Palin nel 2000 (sindaco di Wasilla) appoggiò la campagna per le primarie repubblicane di... Steve Forbes. Il candidato più liberista del GOP. «Credo - scrive Nordlinger - che molta gente identifichi Sarah Palin come social conservative. Ed effettivamente lo è. Ma è anche una furiosa free-marketeer: in effetti è uno delle più solidi, coraggiosi e sonori sostenitori del libero mercato nella politica americana contemporanea».

Sarah Palin, insomma, secondo Nordlinger sarebbe una “reaganiana” a tutto tondo: «free-marketeer, social conservative e “falco” in politica estera». Anche per questo, aggiungiamo noi, un suo incontro con Maggie Thatcher sarebbe oggettivamente suggestivo. E potrebbe forse contribuire a correggere un'immagine assolutamente distorta che gli ideologi della sinistra hanno contribuito ad esportare anche da noi, trovando più di un “ripetitore mediatico” (a volte, putroppo, in buona fede). Il vero problema, forse, conclude tristemente Nordlinger, «è che molta gente non l'ha mai perdonata per non aver abortito il suo bambino Down». E se fosse vero?

venerdì 11 giugno 2010

Povera Ansa

Riceviamo e volentieri pubblichiamo. 

Certe cose fanno impallidire anche i compassionevoli statistici della Banca d’Italia. Gli stessi che alcuni mesi lanciarono con estremo rigore scientifico l’indice del disagio percepito, mettendo in unico calderone disoccupati, cassaintegrati e presunti lavoratori in nero (pardon, scoraggiati). Ieri l’agenzia Ansa ha elaborato l’ultimo monitoraggio sui trattamenti previdenziali in Italia dell’Istat e ne ha tratto la conclusione che siccome otto milioni su sedici di pensionati prendono meno di mille euro al mese, allora in Italia vivono 8 milioni di poveri. E la spiegazione degli analisi di via della Dataria è talmente semplice da apparire perfino convincente: «Considerando che la soglia di povertà relativa al di sotto della quale l'Istat considera l'individuo povero è quella di una spesa procapite di 999,67 euro al mese (in una famiglia di due componenti), si può dedurre che, se la pensione rappresenta l'unica entrata, i pensionati poveri sono circa 8,3 milioni». Appunto, se è l’unica entrata!

In realtà la vera notizia è che l’Italia è un Paese di vedovi e vedove inconsolabili, che faticano ad arrivare alla fine del mese, non hanno neppure un nipotino da accompagnare al parco e scavano nei cassonetti dell’immondizia per mettere assieme il pranzo con la cena. Si dirà che quello dei burloni dell’Ansa è un divertissement, una speculazione sfociata nel paradosso fatta in una giornata di sole soltanto per vedere l’effetto che fa. Peccato che il Corriere.it abbia subito titolato “In Italia è povero un pensionato su due”. E non sarà il solo a farlo.

giovedì 10 giugno 2010

La scintilla

Michael Barone, sulla National Review, analizza il “momento fondante” che ha dato vita ai Tea Party statunitensi: The Transformative Power of Rick Santelli’s Rant. Lettura istruttiva. (Sul nostro post dell'epoca c'è ancora il video)

mercoledì 9 giugno 2010

Propaganda Reuters

La Reuters beccata ancora una volta (anzi due!) a taroccare fotografie in nome della propaganda anti-israeliana (quando si potrà, finalmente, tornare a chiamare l'antisemitismo con il proprio nome?). Nella prima delle due coppie di fotografie, Reuters ha cancellato un coltello in mano a un “pacifista”, una grande chiazza di sangue e il braccio, anch'esso insanguinato, di un soldato israeliano. Trasformando una scena splatter in “Bambi torna a Gaza”. Anche nel secondo caso, a scomparire è un grande coltello, lo strumento preferito dai militanti filo-palestinesi per esportare la pace in Medioriente.




Sondaggio SpinCon

martedì 8 giugno 2010

Lullaby

Collapse

Arthur Laffer (sì, quello della curva) spiega, sul Wall Street Journal, perché gli aumenti delle tasse voluti dall'amministrazione Obama potrebbero provocare un collasso - economico e finanziario - nel 2011.

venerdì 4 giugno 2010

Comunicato Tea Party Roma

Come organizzatori del Tea Party di Roma del prossimo 26 Giugno non possiamo che guardare con simpatia ad un'eventuale adesione alla nostra manifestazione da parte del Presidente della Camera, Gianfranco Fini. Come Fini certamente può immaginare, non esistono adesioni più importanti di altre e la sua ci fa piacere al pari di tutte quelle che arriveranno: il nostro vuole essere un movimento aperto, spontaneo, trasversale. Che parla di Politica ma lontano dalle logiche che animano la politica dei giorni nostri.

Tutti i contributi arricchiscono il nostro evento e sono accolti con favore.  Nel caso del Presidente Fini, poi, ci farebbe doppiamente piacere poter notare che una sua adesione rappresenterebbe anche un  cambio di strategia non secondario. Da fiero oppositore dei tagli fiscali proposti dal Governo Berlusconi tra il 2001 e il 2006 e da coriaceo sostenitore degli aumenti salariali ai dipendenti pubblici ad aderente alla prima manifestazione nazionale anti-tasse: speriamo che in tanti, come lui, possano cambiare idea. Anche grazie ai Tea Party.

Tocqueville.it

Comunicato Tea Party Italia

Tea Party Italia apprende con sorpresa - come si legge su "Il Giornale" di oggi e su "Italia Oggi" di ieri - della volonta del presidente della Camera, Gianfranco Fini, di «cavalcare» il movimento italiano del «meno stato, meno tasse». I due articoli in questione, firmati rispettivamente da Francesco Cramer e Antonio Calitri, rappresentano ricostruzioni tanto fantasiose da risultare quasi divertenti. Tea Party Italia è un un movimento trasversale di cittadini aperto a tutte le associazioni - politiche e non - che ne condividono le sue finalità. E ospita, come accade per il movimento Tea Party statunitense, espressioni anche molto diverse della realtà sociale e associativa del Paese: dall'aggregatore di blog Tocqueville.it alla rivista politica Ultima Thule, dal Movimento Libertario alla ConfContribuenti, dal Columbia Institute a Libertiamo. L'adesione ai Tea Party di "Generazione Italia", insomma, non può e non deve essere in alcun modo intesa come un "patrocinio" dell'onorevole Fini. Si tratta di una forzatura giornalistica che non fa onore né alla deontologia professionale né alle testate che hanno ospitato gli articoli in questione. La battaglia di Tea Party Italia contro l'eccessiva pressione fiscale non è (e non sarà) «cavalcata» da nessun leader politico, né di maggioranza né di opposizione, ma solo da tanti individui liberi e di buon senso che vedono, nelle troppe tasse e nell'invasività dello stato nelle nostre vite, il problema più serio da affrontare in questo paese.

Tra le altre cose, facciamo notare al signor Cramer che il Tea Party Roma si svolgerà in piazza San Lorenzo in Lucina il 26 giugno (alle ore 18.00) e non “domani” come afferma nel suo articolo.

Coordinamento Tea Party Italia

giovedì 3 giugno 2010

Viola sarà lei!

Sia chiaro, non può che farci piacere che un giornale economico nazionale come Italia Oggi si occupi del movimento Tea Party Italia. Ma raramente ho letto un articolo pieno di inesattezze, anzi di vere e proprie invenzioni, come quello scritto da Antonio Calitri e intitolato “Per Fini un tea party tutto viola”. A prescindere dalla parte che riguarda Gianfranco Fini (che è fantascienza pura e non merita commento), la cosa più fastidiosa del pezzo è il paragrafo secondo cui, visto che Tea Party Italia si organizza soprattutto online, vuol dire che «sfrutta l'esperienza del popolo viola». Internet, per la verità, esisteva molto prima che nascesse il “popolo viola”. E di certo sopravviverà anche a Italia Oggi. Poi non capiscono perché uno si vergogna a dire in pubblico che di mestiere fa il giornalista...

mercoledì 2 giugno 2010

Tea Party Roma

PdL, liberalismo e lapirisimo

Marco Ferrante, su Il Riformista di oggi.

Il Pdl, così com’è fatto oggi, sarà in grado di resistere alle pressioni corporative che si manifesteranno fuori e dentro il Parlamento e saprà difendere una Finanziaria per la prima volta apertamente di parte come quella disegnata dal governo? «O il centrodestra riesce a resistere o perisce», dice uno dei fondatori di Forza Italia, Giuliano Urbani. Sicuramente il Pdl è molto diverso dalle sue origini, da Forza Italia, partito contemporaneamente d’emergenza e di rottura, fatto di cocci rincollati di moderatismo primorepubblicano e di una leadership superdinamica. Era stato il partito che aveva abbattuto il tabù fiscale e piano piano smantellato il pregiudizio sulla prospettiva di un centrodestra all’italiana.

Con il tempo è cambiato, realismo malinteso e governismo lo hanno spinto anno dopo anno in una imitazione di democristianità e di cultura post-fanfaniana (lapirismo lo ha definito ieri sul Corriere della Sera uno dei professori chiamati nel 1996 da Silvio Berlusconi a irrobustire l’ossatura liberale del partito liberale di massa, Marcello Pera, il quale di quel partito è stato un maggiorente, anche mentre si lapirizzava). Poi è arrivato il conto della crisi globale, la necessità di una manovra di aggiustamento biennale da 24,9 miliardi fatta dopo una recessione a meno cinque del Pil, in una situazione di crescita ancora bassa e di tensioni nella maggioranza.

Occasione storica, tanto che Berlusconi in una conferenza stampa di presentazione della Finanziaria rompe un interdetto personale e per la prima volta da quando fa politica identifica in un soggetto specifico - i dipendenti pubblici - una componente sociale che non potrà proteggere e alla quale anzi chiede esplicitamente un sacrificio. Ora quel sacrificio passerà allo scrutinio della protesta sindacale, del collateralismo, delle cinghie di trasmissione con la politica, e infine al dibattito parlamentare d’autunno.

«Sì - dice Urbani - È la prima volta, non è mai successo che si identifichi un ceto che non si può difendere, ma è importante notare che non c’è un intento punitivo. Per un Paese che vive al disopra delle sue possibilità è arrivato il momento di ridimensionare il tenore di vita, è la spesa statale è la prima spesa». Conferma Saverio Vertone, arrivato in Forza Italia nel 1996: «In quel momento c’era l’idea di estendere quanto più possibile l’ombrello protettivo della politica di Forza Italia, garantire il maggior numero di soggetti sociali, noi stessi entrammo con quell’idea». Ma è in grado il Pdl di resistere alle pressioni corporative che adesso arriveranno e che identificheranno nel presidente del Consiglio - così come Giulio Tremonti gli ha ricordato in quella conferenza stampa - il titolare politico della manovra? Dice ancora Urbani: «Certo, non sarà facile perché questo è un Paese di corporazioni, che non sono isole di predoni, ma la struttura stessa della società. C’è chi, come Pera, chiede a Belusconi di fare di più. Ha provato a dare delle spallate, ma la struttura corporativa non ha ceduto. L’unica speranza è il vincolo europeo, ma non so se le manovre analoghe dei paesi dell’euro basteranno a dare una copertura alla battaglia politica italiana».

Andrea Mancia, è il vicedirettore di Liberal - quotidiano estraneo a questa partita interna al Pdl - ed è anche il fondatore di Tocqueville, un aggregatore di siti e di blog di area di centrodestra, sono ormai 3.200. «È vero - osserva - che è la prima volta che si decide di abbandonare una visione di ecumenismo sociale. Ma non mi sembra che sia stato individuato un bersaglio negli statali, semmai il governo ha deciso di sospendere temporaneamente una protezione eccessiva. In questo ha ragione Marcello Pera nel suo articolo sul Corriere della Sera di ieri. Erano anni che non trovavo condivisibili le cose dette da Pera».

Reggerà il Pdl alle pressioni? «Il Pdl è debole, ma la situazione è di tale emergenza che non può tornare indietro. Ai confini del Pdl ci sono avvisaglie di un movimento di rivolta fiscale. Sul sito “www.t-party.it” ci sono già una dozzina di gruppi spontanei. Non spostano voti, ma sono simboli di una certa insofferenza da parte di quel pezzo di opinione pubblica che si considera produttrice di ricchezza, che vede dispersa in cambio di nulla. È quasi una forma di leghismo delle origini, mentre la lega è ormai un partito statalista da circa dieci anni». Come osserva Simone Bressan, coordinatore provinciale del movimento giovanile del Pdl di Udine, e animatore del sito “www.notapolitica.it”, «l’elettorato del Pdl chiede al governo di andare fino in fondo, non so se la classe dirigente può farlo. Ma è un problema che non riguarda solo il Popolo della libertà. La vertenza contro corporazioni potenti, in questo caso gli statali o l’Anm, nessuna classe dirigente oggi in Italia è nelle condizioni di reggerla. Tutti pensano che il Paese sia ingovernabile e che si possa procedere solo per piccoli aggiustamenti. In teoria Berlusconi è ancora l’unico che avrebbe carisma e consenso per dare un senso riformista alla sua storia personale. O Berlusconi lo fa ora oppure lo farà qualcun altro costretto dalla storia, quando saremo messi ancora peggio di oggi».

In questo dibattito è interessante il rapporto tra i liberali e Giulio Tremonti, l’antimercatista, al quale spetta l’onere tecnico-politico della manovra. Dice Bressan che «in fondo ci muove lo stesso obiettivo di ridurre il peso dello Stato e di ristabilire un rapporto tra legge ed economia». Urbani è più scettico, «non so se Tremonti voglia andare fino in fondo». Ma una parte non trascurabile della classe dirigente che si muove intorno al Pdl ritiene che non sia più tempo per la semplice manutenzione dell’esistente con l’affinamento della tecnica di governo, anche perché questo finisce con il dare più forza semmai alla Lega. Urbani nota che «paradossalmente in questa fase di crisi rispunta una consapevolezza liberale». 

Mancia proietta il ragionamento in una previsione: «La questione economica nella base del centrodestra esiste ancora. C’è spazio per un venti per cento di elettorato che chiede a una classe dirigente politica di essere davvero liberale e riformista. La conferenza stampa dell’altro giorno, la dichiarazione rivolta agli statali, in una condizione di normalità politica avrebbe avuto un grande valore politologico. Dopo sedici anni di rivoluzione monca, quelle parole adesso hanno bisogno di un seguito, di una specie di ritorno alle origini».

martedì 1 giugno 2010

Utili idioti

Un commento dell'ex capo di stato maggiore della Difesa, Mario Arpino, domani in edicola su Liberal quotidiano.

Sembra che altre due navi di “Free Gaza” stiano dirigendo verso la costa palestinese. Evidentemente si vuole sfruttare il successo mediatico del sanguinoso evento di lunedì. Forse si cerca di provocare altra violenza, o si ritiene che dopo l’immancabile e unanime condanna, Tzahal non abbia il coraggio di ripetersi. Intanto, Israele ha già fatto sapere che non consentirà alcuna violazione al blocco navale.

Pare incredibile che ci sia ancora qualcuno che stenti a capire che con gli israeliani sulle questioni esistenziali è vietato scherzare. E per Israele, senza profondità strategica, qualsiasi violazione di questo tipo ha carattere esistenziale. È dal 1948 che la stanno spingendo a comportarsi così. D’altro canto, era qualche giorno che i media suonavano la grancassa per preparare il gioioso evento: il primo sbarco vittorioso a Gaza di truppe iridate. La flotta, quanto mai eterogenea per tipo e bandiera, era pronta da tempo al “colpo di mano” davanti a un settore di Cipro occupato dalla Turchia. Quello che la comunità internazionale non riconosce. Ne fanno parte anche due navi che battono bandiera greca, forse proprio quelle due ora in navigazione, tanto per dimostrare che l’odio per Israele sa affratellare anche acerrimi nemici.
         
Quanto vi fosse di umanitario e di politico in questa tragica pantomima non è difficile capirlo, anche se è bello – e fa anche “fino” – assumere un atteggiamento politicamente corretto e porre l’accento sulla vocazione pacifica degli organizzatori, piuttosto che sulla loro fama di mestatori internazionali. I quali, per ammorbidire le intransigenze israeliane, non si sono fatti scrupolo di tirare in ballo anche un presunto interessamento verso Hamas per le sorti del caporale Shalit, sequestrato e sparito nel nulla da quattro anni. Speranza che è stata un’altra delusione per i genitori del soldato, i quali hanno ammesso che, a detta del portavoce degli stessi “pacifisti”, l’obiettivo vero era solo quello di «rompere l’assedio». «Credo che siano solo dei provocatori», aveva detto il padre. I “pacifisti” in azione sono volontari di quaranta Paesi, alcuni certamente in buona fede – ai tempi di Giannini e del Merlo Giallo erano chiamati “utili idioti” – ma altri rispondono al nome del vescovo palestinese Hylarion Cappucci, a suo tempo condannato per contrabbando di armi e poi “salvato” per intercessione della Santa Sede, dello sceicco-estremista arabo Rahed Sallah, leader di una fazione del Movimento Islamico israeliano, e dell’ineffabile Nobel per la pace Mairead Corrigan-Maguire.

Oltre, naturalmente, al solito gruppetto di italiani. Questione politica quindi, e non umanitaria. “Free Gaza”, non “Free Shalit”. In quanto alle 10mila tonnellate di aiuti e di cemento, gli israeliani avevano indicato per tempo dove sbarcarli – questo le cronache non lo dicono – e si erano incaricati del trasporto a Gaza. Invece, niente. Lo stesso capo di Hamas, Hanieh, si era predisposto per salutare lo sbarco a Gaza, in un tripudio di bandiere.

Singolari, nella vicenda, le responsabilità della Turchia e, indirettamente, anche di quella parte di Europa che ora, piangendo lacrime di coccodrillo, si associa ipocritamente alle immancabili lagne dell’Onu. Una ong turca, già nota per le simpatie verso al-Qaeda e Hamas, sembrerebbe aver finanziato questa spedizione, che il governo di Erdogan non ha impedito. La Turchia laica di Ataturk era il maggiore alleato dell’occidente in Medioriente. Fantasticando di democrazia a propria immagine e somiglianza, la burocrazia dell’Unione, piuttosto che accoglierla, l’ha insipientemente spinta a ricercarsi un proprio ruolo regionale, e perché questo possa accadere non c’è nulla di meglio che lasciarsi trasportare da una deriva islamista cui, all’interno, è stata devitalizzata ogni forma di contrasto. Il risultato è sotto gli occhi di tutti. “Chi è causa del suo mal, pianga se stesso...”

L'iPad (quello vero)

Dopo aver letto (me l'hanno segnalato, mica me lo sono andato a cercare) Vittorio Zucconi che, su Repubblica, paragona l'iPad a un «pianeta di pochi centimetri quadrati dove la libertà è senza limiti», mi sono sentito in dovere di andare a ripescare un articoletto che ho scritto venerdì scorso su Liberal quotidiano. Astenersi odiatori-Apple-professionisti e sacerdoti della setta di Cupertino.


La caccia è scattata all’alba di ieri, ma era stata pianificata in tutti i dettagli da più di un mese. Tanto, infatti, hanno dovuto attendere gli italiani (come quasi tutti gli europei, i giapponesi e gli australiani) per mettere le mani sull’iPad di Apple, il nuovo “oggetto del desiderio” hi-tech che negli Stati Uniti è stato lanciato sul mercato ad aprile. Code a Milano (dove gli Apple Store avevano accettato soltanto prenotazioni online), ma anche a Bologna e Roma. Mentre a Palermo sono arrivati solo i “modelli da esposizione”, lasciando a bocca asciutta centinaia di appassionati. Euforia contenuta, in ogni caso, rispetto a quello che è accaduto all’Apple Store principale di Tokyo, dove nelle prime ore della mattina si era già formata una fila di 800 metri, con più di mille ansiosi acquirenti.

Tanta attesa, naturalmente, ha il suo prezzo. Perché il Italia il nuovo touch-screen di Apple costerà 499 euro (per la versione Wi-Fi a 16gb) e addirittura 799 euro (per la versione Wi-Fi+3G a 64gb). Prezzi non bassi, in termini assoluti, visto che ormai un laptop di fascia media non costa più di 400-500 euro, ma che negli Stati Uniti non hanno frenato vendite-record: un milione di unità in ventotto giorni (contro i 74 che ci aveva messo l’iPhone per raggiungere lo stesso traguardo) e quasi nove milioni previste per il 2010 (il 43% delle quali negli Usa). Il successo, almeno iniziale dell’iPad, unito a quello ormai consolidato di iPod e iPhone, ha portato nei giorni scorsi la Apple a diventare la compagnia hi-tech più valutata sui mercati (221 milioni di dollari), scavalcando i rivali storici di Microsoft (219 milioni). È tutto oro quello che luccica, insomma? Non esattamente.

Intendiamoci, l’iPad è un oggetto splendido e probabilmente, per usare le parole di Steve Jobs, davvero «rivoluzionario». Chiunque abbia avuto per le mani, anche per qualche minuto, un iPhone o un iPod Touch può intuire immediatamente le potenzialità del nuovo gioiellino di Apple. La velocità, la semplicità d’uso e la pulizia del sistema operativo sviluppato a Cupertino sono ormai leggendarie. Proprio come la straordinaria base di software sviluppato per iPhone da cui l’iPad può partire, in attesa che vengano prodotte applicazioni “specializzate” in grado di sfruttare il monitor più ampio (9,7 pollici) e la risoluzione più alta (1024x768). Con le sue caratteristiche tecniche, poi, l’iPad sembra poter dominare senza troppi sforzi il mercato dei lettori di E-book, finora quasi monopolizzato dal Kindle di Amazon.

Aggiungete una cpu (Apple A4 PoP da 1 gigahertz) in grado di surclassare qualsiasi console portatile per videogiochi in commercio, tanta memoria e una connettività estremamente flessibile (soprattutto nei modelli di punta), audio e video di altissima qualità e il cerchio, in teoria, dovrebbe chiudersi. E proprio questo ci hanno raccontato la schiacciante maggioranza dei giornalisti e dei commentatori che hanno invaso giornali e web nei giorni successivi al suo lancio statunitense. Il problema è che, troppo spesso, questi giornalisti - per “amore”, più che per interesse - quando scrivono dei prodotti Apple sembrano Emilio Fede quando parla di Silvio Berlusconi o Chris Matthews quando «sente i brividi» dopo un discorso di Barack Obama.

Qualsiasi creatura di Steve Jobs, insomma, viene osannata a prescindere e i suoi difetti vengono accuratamente ignorati. Di difetti, invece, l’iPad ne ha. E parecchi. Andiamo in ordine sparso. L’iPad non ha una porta Usb (o Firewire) per il collegamento di periferiche esterne. Una precisa strategia commerciale più che una mancanza incidentale, perché Apple preferisce vendere (a carissimo prezzo) ogni espansione, piuttosto che permettere all’utente di scegliere il proprio prodotto preferito. In un apparecchio multimediale così sofisticato, poi, non si può fare a meno di notare l’assenza di una webcam (o almeno di una fotocamera), di un’uscita video standard che permetterebbe di collegare senza troppi problemi l’iPad a un monitor o a una televisione hd e di qualsiasi compatibilità con Adobe Flash (la tecnologia software più utilizzata per i video e i videogiochi sul web). Tutto, insomma, sembra il frutto del tentativo di “sigillare” il tablet per impedirgli qualsiasi comunicazione con prodotti non targati Apple.

Una filosofia che Steve Jobs persegue da decenni, con alterne fortune. E che trova il suo completamento in quello che è il più grande asset, ma anche il più grave difetto dei prodotti multimediali Apple: iTunes. Se è vero, infatti, che proprio dalla vendita di musica e applicazioni (negli Usa anche film e serie tv) arrivano i profitti più vistosi per la casa della mela morsicata, è anche vero che il passaggio “obbligatorio” da iTunes per riempire di contenuti iPod, iPhone e iPad rappresenta una limitazione della libertà inaccettabile per chiunque non sia un utente occasionale o un fanatico della setta di Cupertino. Ecco perché sono sempre di più i clienti Apple che ricorrono alla tecnica del “jailbreaking” che permette un utilizzo molto più flessibile di iPhone e iPad (oltre che l’accesso, illegale, ad una miriade di applicazioni “piratate” a costo zero). Ed ecco perché, proprio nei giorni in cui l’iPad sbarca in Europa, una piccola compagnia tedesca - la Neofonie - si prepara a lanciare sul mercato un anti-iPad (significativamente battezzato “WePad”), che promette di far dimenticare tutte le limitazioni imposte da Apple al proprio hardware: display più grande (11,6 pollici); maggiore risoluzione (1366x768); processore più veloce (Intel Atom N450 a 1.66GHz); una webcam; due porte Usb; un lettore di memorie flash; un modem Wwan integrato; compatibilità assicurata con il software Adobe. Il tutto, racchiuso nelle accoglienti braccia del sistema operativo Android, sviluppato da Google per tablet e smartphone. Il prezzo? Probabilmente il modello di punta costerà come l’iPad di fascia più bassa. Apple deve stare attenta, insomma. Non sempre sono i rivoluzionari a vincere la rivoluzione.

UPDATE. Il nuovo nome del tablet di Neofonie sarà “WeTab” e putroppo il lancio è stato rimandato a settembre (h/t: Paolo Della Sala)

Pacifisti/2