Un commento dell'ex capo di stato maggiore della Difesa, Mario Arpino, domani in edicola su Liberal quotidiano.
Sembra che altre due navi di “Free Gaza” stiano dirigendo verso la costa palestinese. Evidentemente si vuole sfruttare il successo mediatico del sanguinoso evento di lunedì. Forse si cerca di provocare altra violenza, o si ritiene che dopo l’immancabile e unanime condanna, Tzahal non abbia il coraggio di ripetersi. Intanto, Israele ha già fatto sapere che non consentirà alcuna violazione al blocco navale.
Pare incredibile che ci sia ancora qualcuno che stenti a capire che con gli israeliani sulle questioni esistenziali è vietato scherzare. E per Israele, senza profondità strategica, qualsiasi violazione di questo tipo ha carattere esistenziale. È dal 1948 che la stanno spingendo a comportarsi così. D’altro canto, era qualche giorno che i media suonavano la grancassa per preparare il gioioso evento: il primo sbarco vittorioso a Gaza di truppe iridate. La flotta, quanto mai eterogenea per tipo e bandiera, era pronta da tempo al “colpo di mano” davanti a un settore di Cipro occupato dalla Turchia. Quello che la comunità internazionale non riconosce. Ne fanno parte anche due navi che battono bandiera greca, forse proprio quelle due ora in navigazione, tanto per dimostrare che l’odio per Israele sa affratellare anche acerrimi nemici.
Quanto vi fosse di umanitario e di politico in questa tragica pantomima non è difficile capirlo, anche se è bello – e fa anche “fino” – assumere un atteggiamento politicamente corretto e porre l’accento sulla vocazione pacifica degli organizzatori, piuttosto che sulla loro fama di mestatori internazionali. I quali, per ammorbidire le intransigenze israeliane, non si sono fatti scrupolo di tirare in ballo anche un presunto interessamento verso Hamas per le sorti del caporale Shalit, sequestrato e sparito nel nulla da quattro anni. Speranza che è stata un’altra delusione per i genitori del soldato, i quali hanno ammesso che, a detta del portavoce degli stessi “pacifisti”, l’obiettivo vero era solo quello di «rompere l’assedio». «Credo che siano solo dei provocatori», aveva detto il padre. I “pacifisti” in azione sono volontari di quaranta Paesi, alcuni certamente in buona fede – ai tempi di Giannini e del Merlo Giallo erano chiamati “utili idioti” – ma altri rispondono al nome del vescovo palestinese Hylarion Cappucci, a suo tempo condannato per contrabbando di armi e poi “salvato” per intercessione della Santa Sede, dello sceicco-estremista arabo Rahed Sallah, leader di una fazione del Movimento Islamico israeliano, e dell’ineffabile Nobel per la pace Mairead Corrigan-Maguire.
Oltre, naturalmente, al solito gruppetto di italiani. Questione politica quindi, e non umanitaria. “Free Gaza”, non “Free Shalit”. In quanto alle 10mila tonnellate di aiuti e di cemento, gli israeliani avevano indicato per tempo dove sbarcarli – questo le cronache non lo dicono – e si erano incaricati del trasporto a Gaza. Invece, niente. Lo stesso capo di Hamas, Hanieh, si era predisposto per salutare lo sbarco a Gaza, in un tripudio di bandiere.
Singolari, nella vicenda, le responsabilità della Turchia e, indirettamente, anche di quella parte di Europa che ora, piangendo lacrime di coccodrillo, si associa ipocritamente alle immancabili lagne dell’Onu. Una ong turca, già nota per le simpatie verso al-Qaeda e Hamas, sembrerebbe aver finanziato questa spedizione, che il governo di Erdogan non ha impedito. La Turchia laica di Ataturk era il maggiore alleato dell’occidente in Medioriente. Fantasticando di democrazia a propria immagine e somiglianza, la burocrazia dell’Unione, piuttosto che accoglierla, l’ha insipientemente spinta a ricercarsi un proprio ruolo regionale, e perché questo possa accadere non c’è nulla di meglio che lasciarsi trasportare da una deriva islamista cui, all’interno, è stata devitalizzata ogni forma di contrasto. Il risultato è sotto gli occhi di tutti. “Chi è causa del suo mal, pianga se stesso...”
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