Vi ricordate la prima pagina del Manifesto all’indomani delle ultime elezioni presidenziali americane? Il titolo era uno squillante «Good morning America». E il sommario lasciava poco spazio alle interpretazioni: «Con una valanga di voti gli americani cacciano Bush dalla Casa bianca. Venti milioni di elettori in più rispetto al 2000 portano Kerry alla presidenza. Nella notte gli exit-poll decretano la sconfitta dell’uomo della guerra preventiva». Eccola, nascosta sotto un paio d’etti di propaganda spicciola, la parolina-chiave: exit-poll. Nel ciclo elettorale statunitense del 2004, infatti, la débâcle degli istituti di ricerca non si sostanziò nei sondaggi pre-elettorali, ma proprio negli exit-poll filtrati, via Internet, prima della chiusura dei seggi.
Fino a quel momento, i sondaggisti si erano comportati decentemente. George W. Bush vinse le elezioni con il 50,7% dei consensi (62 milioni di voti e 286 electoral votes) contro il 48,3% di John Kerry (59 milioni di voti, 251 electoral votes): il 2,5% di distacco, insomma. Alla vigilia del voto, la media dei sondaggi elaborata dal sito RealClearPolitics vedeva Bush in vantaggio dell’1,5%, con una oscillazione che andava dal +6% a favore del presidente uscente (Newsweek) al +2% a favore dello sfidante democratico (Fox News). A parte qualche caso isolato, dunque, il risultato degli ultimi sondaggi si avvicinava abbastanza al risultato del voto.
Ad essere totalmente fuori strada, invece, furono proprio gli exit-poll, capaci di ingannare gli Stati Uniti per qualche minuto e i più sprovveduti degli europei (italiani in testa) per molte ore. Verso le tre del pomeriggio, alcuni blog vicini al partito democratico iniziarono a pubblicare i primi dati prodotti da Edison/Mitofsky, il consorzio incaricato dai grandi network televisivi di occuparsi degli exit-poll.
Si trattava di numeri “rubati”, naturalmente, ma non inventati. E, soprattutto, si trattava di numeri sensazionali, che lasciavano intravedere la possibilità di una vittoria a valanga per i democratci. Nella prima “ondata” di exit-poll, Kerry era in vantaggio di 20 punti in Pennsylvania, 18 in Minnesota, 16 in New Hampshire e davanti (di 4-5 punti) sia in Ohio che in Florida, i due battleground states per eccellenza. Proiettati su scala nazionale, questi numeri davano un vantaggio a Kerry superiore al 4%. Dopo qualche ora, questo distacco si era assottigliato, ma restava consistente. Dopo lo spoglio dei voti veri, ai sostenitori di Kerry era rimasto solo il suicidio rituale.
In Pennsylvania, Minnesota e New Hampshire, il candidato democratico aveva vinto per poche migliaia di voti. Mentre in Ohio (130mila voti di distacco) e Florida (400mila) Bush aveva stravinto, conquistando in scioltezza la conferma alla Casa Bianca con tre milioni di voti in più del rivale. Il clamoroso flop degli exit-poll ha abitato per anni negli incubi dei democratici, che si sono affannati ad elaborare le teorie più fantasiose per spiegare il fenomeno. In estrema sintesi, secondo qualcuno non erano gli exit-poll ad essere sballati, ma i risultati reali, truccati dalla solita triade Bush-Cheney-Halliburton. Se i democratici Usa non ci fossero, bisognerebbe inventarli.
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