Poco meno di nove punti percentuali di vantaggio (54,3 contro 45,7); poco meno di 200mila voti di distacco; poco meno di quanto sarebbe servito, a Hilllary Rodham Clinton, per riaprire definitivamente la corsa per la nomination democratica. È questo, in estrema sintesi, il verdetto delle elezioni primarie in Pennsylvania. Un verdetto non conclusivo, che rischia di trascinare la “guerra civile” tra Barack Obama e Hillary Clinton fino alla convention di fine agosto che si terrà a Denver, a tutto vantaggio del “terzo incomodo”, John McCain.
Accolta dalle note rock di “I Won’t Back Down” di Tom Petty, Hillary ha spiegato ai suoi sostenitori, nel comizio post-elettorale, che la vittoria è stata «very big» e «very sweet». Ma la larghezza e la dolcezza di questo successo potrebbero non bastarle, visto che Obama è ancora in testa in tutti i “fondamentali” che contano: ha più denaro a disposizione, ha vinto più stati, ha conquistato più voti e conserva ancora un buon vantaggio nel numero dei delegati (pledged e non).
Eppure, considerando che Obama nelle ultime settimane ha speso in Pennsylvania più del doppio della rivale, i numeri di Hillary nel Keystone State non sono affatto da sottovalutare. La Clinton ha, in pratica, ripetuto l’ottima performance di marzo in Ohio: ha dominato tra le donne bianche (+32%), gli over-65 (+26%) e i cattolici bianchi (+42%); è andata molto bene tra gli uomini bianchi (+12%), i protestanti bianchi (+16%), le persone con reddito inferiore ai 50mila dollari annui (+8%) e quelle senza diploma di laurea (+16%); ha confermato la propria superiorità rispetto a Obama tra gli elettori che si autodefiniscono “democratici” (+12%) e gli iscritti ai sindacati (+18%). Negli altri segmenti demografici - primi tra tutti i non iscritti ai sindacati, i laureati, i giovani e i benestanti - Obama si è difeso con onore. Riuscendo a vincere, come spesso gli è accaduto in questo ciclo elettorale, tra gli indipendenti (+10%) e tra gli afroamericani (+78%).
Presa coscienza del fatto che, con ogni probabilità, le sarà impossibile conquistare la maggioranza dei delegati per la convention di agosto (il “numero magico” sarebbe 2.025, e per ora Obama conduce 1.713 a 1.586), Hillary ha da tempo deciso di concentrarsi sui “superdelegati” espressi non tramite le primarie ma direttamente dal partito. Per tirarne dalla propria parte un numero sufficiente, però, deve convincerli di essere più “eleggibile” del rivale alle elezioni di novembre. E non sarà un compito facile, visto l’hype quasi messianico che circonda ormai la figura di Obama. Per riuscire nel suo intento, Hillary deve necessariamente demolire questa “narrativa” obamiama. E si spiega così, più che con il tentativo (fallito) di vincere in Pennsylvania con un margine ancora più largo, l’accelerazione impressa dalla sua campagna alle pubblicità negative contro il senatore junior dell’Illinois.
Un’accelerazione che ha scandalizzato gli editorialisti del New York Times (oltre alla solita Maureen Dowd), che temono come questa escalation dello scontro possa rivelarsi un prezioso regalo per le ambizioni presidenziali di John McCain. Ma Hillary non ha altra scelta (a parte quella, fantascientifica visto il suo carattere, di ritirarsi in buon ordine). Quella che il New York Times chiama «the low road to victory», però, qualche risultato lo sta ottenendo. John B. Judis, sul settimanale The New Republic, bibbia dell’Intellighenzia liberal statunitense, paragona Obama a George McGovern, simbolo della deriva sinistrorsa che condannò alla sconfitta i democratici nel 1972 contro Richard Nixon. Contemporaneamente, E.J. Dionne, sul Washington Post, si chiede se il senatore dell’Illinois sia più somigliante ai Kennedy (John F. o Robert, a scelta) oppure ad Adlai Stevenson, un altro “perdente di successo” che nel 1952 e nel 1956 uscì con le ossa rotte dai confronti con Dwight Eisenhower. Questi paralleli storici, oltre ad essere vagamente iettatori (per la sinistra americana) sono indicativi di un trend negativo d’immagine che non può non preoccupare per Obama.
Hillary, sia chiaro, non è ancora riuscita ad invertire la dinamica della corsa, che resta largamente favorevole a Obama. Ma può guardare con rinnovata fiducia alle prossime elezioni primarie in programma. In North Carolina (6 maggio) la folta comunità afroamericana dello stato garantirà senz’altro una larga vittoria ad Obama, ma la composizione demografica di Indiana (sempre il 6 maggio) e West Virginia (13 maggio) sembra invece molto più favorevole alla Clinton. Senza contare che, rispetto ai primi mesi di primarie, lo stesso elettorato di Obama sta - lentamente ma inesorabilmente - scivolando verso sinistra. In Wisconsin e Virginia, tanto per fare un esempio, il senatore dell’Illinois aveva battuto la Clinton tra gli elettori che si consideravano “moderati” o “abbastanza conservatori”. In Pennsylvania, invece, è stata l’ex First Lady a dominare in questi segmenti, mentre Obama ha ricevuto la quantità maggiore di voti tra i “very liberal”. Stessa dinamica per quanto riguarda gli elettori democratici più religiosi. I casi sono due. O Obama ha bruscamente cambiato il proprio profilo politico nelle ultime settimane. Oppure, ed è assai più probabile, gli elettori si sono gradualmente accorti di quali siano le reali posizioni di questo “Kennedy del XXI secolo”.
(oggi su Liberal quotidiano)
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