mercoledì 29 marzo 2006

I peccati di Prodi

ATTENZIONE: post molto lungo! E' in edicola, insieme al quotidiano Libero, il libro "I peccati di Prodi. Tutti gli errori contenuti nel programma della sinistra", di Vittorio Feltri e Renato Brunetta (realizzato in collaborazione con il sottoscritto, Davide Giacalone, Paolo Reboani e Giorgio Stracquadanio). Pubblichiamo qui - in esclusiva intergalattica - il capitolo conclusivo del libro, invitando i nostri lettori a precipitarsi in edicola per prenotarne una copia (il prezzo, 1.20 euro, è davvero ridicolo). Chi non lo compra è un mortadellone avariato :)

E adesso, dopo aver criticato ben bene i costumi ed i programmi della sinistra, cerchiamo di capirci: da che parte sta l’interesse del Paese? E’ ben rappresentato e difeso dal centro destra, capitanato da Silvio Berlusconi? Come devono essere giudicati i cinque anni di governo che ora si chiudono? Se rispondessimo sempre positivamente e sostenessimo che tutto va bene e per il meglio, saremmo pazzi. Saremmo propagandisti di terz’ordine, perché incapaci, oltre tutto, di essere credibili. Invece a noi interessa ragionare sulle sorti del Paese, sulla politica che serve all’Italia. Quindi eviteremo di fare una disamina del programma elettorale della Casa delle Libertà, contenuto in sole 21 pagine, perché sarebbe inutile. Quel che serve è capire il perché sia ancora vivo un sentimento di odio nei confronti di Berlusconi, un sentimento che fa dire ad Umberto Eco (autore di un bel “Il nome della rosa”, e di successivi romanzi illeggibili, che non hanno letto neanche quelli che dicono di averli apprezzati) che emigrerà in caso di sua ulteriore vittoria. E’ necessario farlo, prima di, in conclusione, esprimere un giudizio sul governo. Ai lettori non sembri una digressione, e ci scusino se servirà qualche parola in più. Siamo convinti che in quel che segue sta il nocciolo del problema italiano, oggi.

La nostra storia recente sarà scritta e riscritta mille volte. No, non sarà il solito lavoro degli storici, non servirà solo lo studio delle fonti, non sarà sufficiente non avere preconcetti, si dovrà, nel tempo, giorno dopo giorno, affrancarsi dalla menzogna che gli italiani hanno raccontato a se stessi. Non è la prima volta che capita, non è la prima volta che l’Italia riesce ad accettarsi solo se vestita di bugia. E’ una malattia che ci trasciniamo dietro, un vizio, un modo per sfuggire al dovere di fare i conti con noi stessi. Fingiamo di essere stati diversi, e su questa truffa, che poi truffa non è, perché condotta alla luce del sole, pretendiamo di ricostruire da zero. In realtà appesantiamo un edificio che affonda. Ogni tanto passa qualche giulivo volenteroso, che c’esorta a “guardare avanti”, a non “camminare rivolti all’indietro”. Bella e giusta cosa, se non fosse che sulla bugia si sta in equilibrio precario, si è destinati a cadere, s’immiserisce la cultura e la politica di una comunità. Si ha un bel volere andare avanti: ignorando la propria storia, o diffondendone una versione corrotta, si è destinati a riviverne il peggio.

Non pensiamo affatto che alla politica spetti fare il lavoro degli storici, né crediamo che riformare le pensioni, o riassorbire il debito pubblico, o dare nuova forma all’istruzione pubblica, siano cose da mettere in diretta ed imprescindibile relazione con il bisogno di sbugiardare la bugia. Ma pensiamoo che se la bugia non è contrastata, se la menzogna non trova ostacoli, si genera una politica debole, opportunista e trasformista. Con il che non si riformano le pensioni, non si risanano i conti e non si cambia la scuola, al più si aumenta la spesa pensionistica, si punta sulla spesa pubblica per comperare il consenso. Di un uomo capace di mentire a proposito di se stesso si dice che è un poco di buono. Di uno che lo fa a se stesso su se stesso si dice che è malato. Cosa volete aspettarvi da una politica che fa entrambe le cose?

Noi italiani ci siamo raccontati che, all’inizio degli anni novanta è esploso il bubbone della corruzione pubblica, e politica in particolare: un drappello di pubblici ministeri ha, finalmente, deciso di applicare la legge anche ai potenti, facendo crollare un edificio che, di suo, era già marcio. Da qui in poi le ipotesi si diversificano: chi pensa che il potere mediatico di Silvio Berlusconi ha deviato, a suo favore, il giusto corso della rivoluzione democratica ed incruenta; chi, all’opposto, pensa che, grazie al cielo, l’intervento di Berlusconi ha impedito che l’Italia finisse nelle mani di chi voleva profittare di una pur giusta rivolta contro la corruzione. Esistono molte varianti delle due tesi, ma già le matrici ci paiono prive di fondamento.

Nel 1992 gli elettori, pacificamente e liberamente chiamati alle urne, consegnarono ancora la loro fiducia alle forze di governo: un pentapartito dal quale i repubblicani erano usciti, senza per questo puntare ad un’alternativa. Alla fine del 1993 le forze politiche che l’anno prima avevano vinto le elezioni non esistevano più. Nel 1994 vinse le elezioni un partito politico prima inesistente, Forza Italia, guidato da un leader che non aveva un passato politico, Silvio Berlusconi. Già questa è una storia che deve essere tutta spiegata, che, comunque, è semplice demenza liquidare secondo i canoni della democrazia: alternanza al governo o diverso orientamento degli elettori. Semmai, nella tempistica, si adatta di più al copione dei colpi di Stato.
Ma non basta. Il vincitore del 1994 si ritrova, dopo pochi mesi, fuori dal governo, che viene consegnato nelle mani di soggetti privi di legittimazione elettorale, sostenuti dagli sconfitti. Il che, per una democrazia, non è certo ortodosso. Si torna alle elezioni, nel 1996, e, a coronamento di una presunta rivolta popolare, indirizzata alla condanna delle commistioni fra politica ed affari economici, consegna la vittoria ad un centro sinistra guidato da Romano Prodi, ovvero da un democristiano che era stato, per due volte, presidente dell’IRI. La storia continua, con altri passaggi istruttivi, ma se anche la fermassimo a quel punto dovremmo concludere che la premessa è un falso. Difatti tale è.

L’altro falso è un’ineguagliabile perla: la rivolta degli elettori è resa possibile dalla fine della guerra fredda, simbolicamente raffigurata nel crollo del muro di Berlino. Vale a dire che, da quel momento, viene meno la necessità di concentrare le forze nell’impedire che il governo finisca nelle mani di un partito comunista sorretto e finanziato dall’Unione Sovietica. Già, ma se così stessero le cose, di grazia, come si spiega che il governo finì nelle mani degli stessi uomini che, con il partito comunista italiano, presero soldi sovietici, quindi soldi illeciti e provenienti da un nemico della democrazia che era anche un nemico militare, e li presero fino ad un attimo prima di andare al governo? Come fanno gli sconfitti dalla storia a divenire i vincitori della politica? Che razza di logica c’è, in tutto questo? Nessuna, difatti non è così che sono andate le cose.

Per cercare di capire si deve gettare qualche fascio di luce, destinato ad irritare gli occhi di molti, in diverse direzioni: a. lo stato in cui, all’inizio degli anni novanta, si trovava il governo del Paese, ed i partiti che lo reggevano; b. quello in cui si trovava il partito comunista; c. quello della magistratura. Poi, diradate le tenebre, si deve guardare agli equilibri economici ed alla mappa del potere, come dire, prima e dopo la cura. Non si tratta di necrofilia, non ci si lasci distrarre dai superficiali richiami a dimenticare il passato, perché questo serve ad intendere il presente, e molti dei problemi che ancora si devono affrontare.

a) All’inizio degli anni novanta il governo del Paese era in condizioni di grande debolezza, perché si era inceppata la macchina che aveva, fino a quel momento, garantito l’acquisizione del consenso: la spesa pubblica. L’uso della spesa pubblica, ad incremento del deficit, ha prodotto, in tutto il mondo occidentale, effetti largamente positivi, in termini di sviluppo economico e di libertà. Sarebbe bene rileggere le pagine, belle ed istruttive, che Giorgio Amendola, un comunista, ha dedicato ai governi centristi, quelli che portarono l’Italia fuori dalla miseria post bellica. Si ha un’idea, oggi, di cos’era il Meridione, di cos’erano aree vaste di povertà, come il Veneto? Quindi, non ha minimamente senso condannare la spesa pubblica in quanto tale. E’ un mero pregiudizio ideologico, che ha attecchito presso le forze di sinistra, ritrovatesi prive di struttura ideale, dopo la fine del comunismo.

Al tempo stesso, però, si deve osservare che con la spesa pubblica si sono spesso finanziati i consumi, non risolvendo i problemi d’arretratezza strutturale in molte parti d’Italia. Quella spesa, da un certo punto in poi, è divenuta improduttiva, inflazionistica, spostando sempre di più il debito sulle spalle delle future generazioni. Basterà guardare al capitolo delle pensioni: l’Italia cominciava a vivere sulle spalle di coloro che ancora non erano entrati nel mercato del lavoro.
L’improduttività della spesa pubblica rendeva meno tollerabili le sacche di corruzione che, sempre, si porta dietro. Di corruzione, e non tanto di finanziamento della politica. Qui è bene essere chiari: quel finanziamento si definiva illecito per mera ipocrisia, giacché era un costo della democrazia, in Italia come in tutto il mondo, ieri, oggi e sempre. Avere partiti politici prevalentemente finanziati dall’estero, com’era nell’immediato dopoguerra, significava rinunciare all’indipendenza nazionale. Finanziare in Italia la politica italiana era la condizione necessaria (benché non sufficiente) per potersi dire Paese libero ed indipendente.
Il fatto è che, per una serie di concause, che vanno dall’avvento della televisione al moltiplicarsi delle ambizioni personali, il costo della politica era divenuto eccessivo, nel senso che era alto, mentre non altrettanto alto era il servizio che si dava al Paese ed alla cosa pubblica. Accanto a questo vi era il fenomeno della corruzione, che attecchiva in politica e fuori dalla politica, mostrando molteplici casi di arricchimenti spropositati e sfacciati.
Forse le cose potevano pur continuare con quest’andazzo, se non fosse che, per ragioni legate alle compatibilità internazionali ed al progredire del più che positivo processo d’integrazione europea, il deficit pubblico non poteva più essere considerato una variabile indipendente, accrescibile a piacimento. La spesa pubblica doveva essere contratta, in un Paese in cui corporazioni e gruppi, intere zone e legioni di dipendenti pubblici, barattavano il consenso con il beneficio particolare. Da questo punto di vista è vero che il mondo distrutto dalle inchieste giudiziarie era già debole di suo, e, del resto, non si spiega diversamente il suo crollo immediato.

b) Al debutto degli anni novanta il partito comunista italiano si trovava in una singolare condizione: era il partito più massicciamente organizzato (e lo era stato per tutto il periodo repubblicano), quello capace di controllare settori importanti della vita civile, tanto culturale quanto economica; ma, al tempo stesso, era oramai privo d’identità, costretto a rinnegare la propria storia, il proprio passato, le proprie idee ed il proprio nome. Si rifletta: se dai del democristiano a Casini, ti spiega che in quelle radici sta la grandezza delle sue ambizioni; se dai del socialista a Boselli, ti dice che n’è orgoglioso; se dai del comunista a Veltroni si offende, e ti dice che lui non lo è mai stato. Roba da matti: lui, che si definiva ragazzo di Berlinguer, oggi sostiene che neanche il segretario dei comunisti era comunista.

Il pci, poi pds, poi ds, non ha mai cambiato un solo uomo del suo gruppo dirigente. Mai. Non solo, si è anche impancato a professore di morale politica, condannando chi era finanziato dall’industria nazionale, dopo avere taglieggiato quella stessa industria, dopo avere bruciato milioni e milioni di dollari sporchi di sangue, sottratti a popolazioni che non avevano diritto di parola e d’esistenza. Il pci, del resto, rimane ad imperitura memoria il migliore esempio di cosa sarebbe stata la politica italiana se fosse continuata la dipendenza dai finanziamenti stranieri: schiava degli interessi altrui, ed in questo caso schiava di una feroce dittatura.

E’ vero che fu con i “comunisti” che una parte del mondo democratico tentò l’alleanza, finita l’esperienza del centro sinistra, ma ci sono due accadimenti che spiegano la sconfitta dell’apertura a sinistra: l’ingresso nel Sistema Monetario Europeo e lo schieramento degli euromissili. In tutti e due i casi i comunisti italiani si trovarono all’opposizione, contro tutte le altre forze del migliore socialismo democratico europeo, e nel secondo caso, ancora una volta, al servizio degli interessi militari sovietici. Di tutto questo si occulta la memoria, oggi che gli stessi uomini pensano di poter dare lezioni d’europeismo.

c) La magistratura. E’ un paradosso, un sintomo di quanto profondi siano i guasti provocati dalla bugia, ma è un fatto che a battere questo tasto diventano tutti più sensibili. La ragione è che quasi tutti hanno qualcosa di cui vergognarsi. No, non c’è stato alcun complotto dei magistrati. Non c’è stata un’organizzazione di “toghe rosse” che ha ordito il disegno sovversivo di far fuori le forze politiche democratiche. Nulla di tutto questo, ma forse peggio: il deviazionismo giudiziario ha più volte sfiorato la realtà del colpo di Stato, ma guai a non capire quali sono le radici profonde di quel deviazionismo. Guai, anche perché, senza capirle, non si porrà mai rimedio ai guasti della giustizia italiana. Guasti che rischiano, veramente, di far sprofondare il Paese al di sotto degli standard minimi che consentono di definirlo civile.

La stagione del manipulitismo non segna il debutto della supplenza, non è lì che comincia il processo di sostituzione della magistratura alla politica. Questa è una storia che inizia negli anni settanta, sotto i colpi del terrorismo. Abbiamo vissuto l’esperienza del terrorismo stragista, di marca fascista; e quella del terrorismo assassino, di marca comunista. Il mondo politico rimase a lungo incapace di una risposta seria e dura, bloccato a destra dalle presunte infiltrazioni dei servizi segreti, ed a sinistra dal sicuro coinvolgimento dei paesi dell’est. Il fenomeno cresceva, e questo ha creato una situazione d’emergenza, che figliò una legislazione emergenziale. In pratica si descrissero una serie di reati (ad esempio associazione sovversiva e banda armata) che lasciavano ampio margine discrezionale alla magistratura.

E’ chiaro che se si arrestava un terrorista nell’atto di sparare a qualcuno non era difficile accusarlo d’omicidio, ma il problema era colpire tutta l’area dei fiancheggiatori che, oramai, si mostrava liberamente per le strade, nei cortei, alloggiando in scuole ed università. Si diedero alla magistratura gli strumenti per mettere le mani su quest’area: i reati d’appartenenza ed una lunga carcerazione preventiva. Qui si verifica un passaggio, con il senno di poi, decisivo.
I terroristi erano nemici della democrazia, non c’è dubbio, ma a sentirli terribilmente vicini, quindi terribilmente nemici, era la sinistra ideologica, partito comunista in testa. E’ quello che Rossana Rossanda chiamò “l’album di famiglia”, ovvero la comune genealogia dei militanti. Ma c’è di più: ad un certo punto si fece strada il concreto sospetto che terroristi comunisti e partito comunista avessero in comune alcuni canali di finanziamento, che portavano alla Cecoslovacchia, alla Bulgaria ed alla Repubblica Federale Tedesca (pensare che è appena ieri, e già due di questi tre Stati non esistono più). Fu la magistratura di sinistra, in questo quadro, a muoversi in maniera più organizzata ed efficace. Basterà ricordare i nomi di Giancarlo Caselli, impegnato nella Torino delle Brigate Rosse, o quello di Pietro Calogero, che operava nella Padova di Autonomia Operaia.

Come spesso capita, terminata la guerra non si smobilitò l’esercito. Una parte della magistratura fu felice di una ricompensa in termini meramente corporativi, con privilegi economici e di carriera, ma altra parte acquisì coscienza del proprio rilievo politico. Primeggiò, in questo, la corrente di sinistra, Magistratura Democratica. A rileggere, dopo tanto tempo, i documenti vergati da Magistratura Democratica, si resta colpiti dall’enorme quantità di minchionerie che quella gente riuscì a scrivere. Uno di loro, Francesco Misiani, ne ha anche fatto un libro, raccontando robe dell’altro mondo, come una delegazione di magistrati italiani che vanno ad applaudire estasiati i processi cinesi. Ma al di là delle cretinate quei testi contengono un vero e proprio programma eversivo. Eppure la cosa non destò scandalo, non provocò reazioni se non nel sempre limitato club dei garantisti (cioè degli amanti del diritto), e questo perché la magistratura era oramai divenuto un soggetto politico autonomo, in barba alla Costituzione e ad un paio di trattati internazionali.

La seconda stagione della devianza è quella della lotta alla mafia, che segna l’ascesa di Luciano Violante: ex magistrato nella Torino di Caselli, ex incarceratore di democratici rei d’anticomunismo, poi parlamentare comunista. Qui si crea il trampolino di lancio di quello che rischiò di divenire golpismo. Non è forse giusto lottare contro la mafia? Certamente, ma il guaio è che chi lo faceva venne bloccato, e non dai mafiosi. La questione è complessa, qui ci limitiamo a quel che serve per far scorrere il ragionamento.

Per combattere l’organizzazione mafiosa fu utilizzato uno strumento, che era stato messo a punto nella lotta al terrorismo (vedete come le cose tornano?): i collaboratori di giustizia, che l’onnipresente cattolicesimo italiano ribattezzò “pentiti”. Ciò fu voluto da un grande magistrato, un grande uomo, un grande siciliano: Giovanni Falcone. Un magistrato che non pensò per un solo momento di fidarsi d’assassini e trafficanti di droga, ricercando costantemente i riscontri, le prove, gli elementi oggettivi che servissero a sostenere l’accusa. Se questi non c’erano, le parole del mafioso valevano per quello che erano: parole di un disonorato. Falcone fu fatto fuori. Fu fatto fuori da Luciano Violante e da Magistratura Democratica. Solo successivamente i corleonesi provvidero a farlo saltare per aria.

Falcone fu fatto fuori perché non intendeva prestarsi alla teoria del terzo livello e del doppio Stato. Questa teoria origina dall’analisi ideologica del terrorismo fascista (vedete come le cose tornano?), e recita: c’è un livello conosciuto della vita politica, che si svolge sotto gli occhi di tutti, ma ve n’è anche uno occulto, ove gli interessi economici e politici, per definizione reazionari, utilizzano ogni tipo di strumento per conservare se stessi, tutelandosi dall’avanzare delle forze popolari e democratiche. La teoria servì per postulare il coinvolgimento dei “servizi segreti deviati” nello stragismo, definito “strategia della tensione”, e servì poi per postulare la connivenza fra gruppi politici dominanti e mafia, in Sicilia. Qui, dopo avere eliminato Falcone, giunse Gian Carlo Caselli (anche le persone tornano), e la teoria del doppio Stato divenne teoria ufficiale, fino a sfociare in clamorosi processi, alimentati da un uso a dir poco disinvolto dei collaboratori di giustizia (non solo non pentiti, ma perduranti delinquenti nel corso della collaborazione).

Le toghe di Milano non furono rosse. Certo, vi erano persone come Gerardo D’Ambrosio o Gherardo Colombo, che non hanno mai fatto mistero delle loro opinioni politiche, ma, nel complesso, è prevalso il più tradizionale colore nero. E, del resto, la piazza che si mobilitò a sostegno di quelle inchieste, prima di essere sommersa dal rosso bugiardo fu di un sincero colore nero. Questo, però, non significa niente, o, meglio, significa che il deragliamento della magistratura dai propri compiti istituzionali non è più un fatto politico, ma un dato strutturale. Peggio, quindi.

Attenzione: l’attacco alle forze politiche democratiche (e vedremo subito perché solo a quelle) non fu affatto l’innocente conseguenza dell’obbligatorietà dell’azione penale, com’è stato, mendacemente, sempre sostenuto. Non è affatto vero che i magistrati agirono perché non potevano non agire, e, difatti, essi lasciarono due prove del misfatto: l’uso illegittimo della custodia cautelare e la contestazione di reati, all’evidenza, inesistenti. Questa non è, solo, una nostra opinione, ma la verità processuale già molte volte accertata. Non è vero che i partiti politici furono colpiti nella loro ipocrisia, vale a dire per l’illiceità del loro finanziamento, giacché questo reato è stato contestato assai debolmente: l’attacco è stato condotto contestando reati di corruzione, concussione e ricettazione. Non si è accertato un diffuso sistema di finanziamento illecito, ma si è supposto un sistema organizzato di delinquenza. E’ un fatto politico, questo, non tecnico.

Ma perché si è proceduto in questo modo? In una gran parte dei procedimenti penali appartenenti a questo filone vi era un finanziamento illecito dei partiti: Craxi lo disse in Parlamento, lo ripeté al tribunale di Milano, lo avrebbe potuto, e dovuto, dire chiunque, avendo avuto responsabilità di partito, od un qualche ruolo in quelle vicende, avesse conservato un po’ di dignità e di coraggio. Il fatto è che contestando i reati di concussione e ricettazione si otteneva il risultato di salvare chi aveva pagato, cioè gli imprenditori. Se si va a guardare con attenzione si scopre che il reato di corruzione, che presuppone l’esistenza di un corruttore, quindi colpevolizza anche il datore, non solo il percettore, è stata un’arma di secondo livello, magari utilizzata quando non c’era più un imprenditore capace di offrire una contropartita. Per il resto, secondo l’ipotesi accusatoria di quegli anni, poi smentita a raffica dalle sentenze, gli imprenditori erano vittime dell’avidità dei politici. Poverelli.

In che consisteva la contropartita? I mass media. Il Corriere della Sera e La Stampa erano nelle mani della famiglia Agnelli, che fu risparmiata. Il gruppo sacrificò qualche manager, Romiti rimase invischiato a Torino, per il resto la fecero franca. La Repubblica era di De Benedetti, cui fu riservato lo stesso trattamento di riguardo. Subì poi un arresto (grottesco) a Roma. Il Giornale, come tre reti televisive, faceva capo alla famiglia Berlusconi, queste testate intonarono un coretto d’inni al manipulitismo, ed in effetti anche quell’imprenditore fu trattato con i guanti, o non trattato affatto. Poi le cose presero una piega del tutto diversa, ma Silvio Berlusconi non era più solo un imprenditore, era divenuto anche un soggetto politico. La Rai, con le sue tre reti televisive, si trovò sotto la duplice influenza, da una parte della concorrenza Fininvest, che ne condizionava la linea editoriale; dall’altra di un’azionariato inesistente, teoricamente riconducibile ai partiti politici (si ricordi l’affermazione di Bruno Vespa, “la dc è il nostro azionista di maggioranza”, che era tanto vera quanto ovvia), ma di fatto nella mani di un corpo giornalistico fortemente squilibrato, che non esitò ad allinearsi al coro. Nel complesso, una potenza di fuoco assolutamente non contrastabile.

L’uso dei mass media rimarrà l’arma più sporca nelle mani dei magistrati milanesi, brandita in totale dispregio delle leggi, del diritto e dei diritti. Un’infamia. Naturalmente si tratta di una vicenda infamante anche per i giornalisti, ma molti di loro non si mostrano all’altezza di comprendere il significato di ciò. La custodia cautelare, inflitta come pena, in violazione della legge e grazie alla complicità di una specie di comparsa processuale, il giudice delle indagini preliminari, serviva proprio, in combinato con la soffiata ai giornalisti, per mettere fuori gioco chiunque incappasse in quegli ingranaggi.

Il mondo politico democratico si dimostrò incapace di prevedere quel che sarebbe successo, bloccato da diversi fattori, fra i quali spiccano una certa viltà, la speranza che fossero fatti fuori solo gli avversari interni di partito, e, anche, il non volere credere a quel che stava succedendo.
Perché sosteniamo che questa macchina distruttiva s’indirizzò solo contro i partiti democratici, visto che le cronache indicano il coinvolgimento, nelle indagini, d’esponenti non secondari del partito comunista? Perché: primo, non è vero, dato che il pci non ha mai subito l’attacco ai vertici che hanno subito gli altri; secondo, se si fosse applicato al pci il medesimo moltiplicatore criminale, per cui un illecito finanziamento diveniva una concussione, ai comunisti si sarebbe contestata l’organizzazione internazionale ai fini di sovvertire l’ordine democratico. Roba da retate di massa.

Ma queste sono spiegazioni di secondo livello, in un certo senso sono delle tecnicalità. Il quesito più interessante è un altro: perché quei magistrati ritennero di comportarsi così? Furono indotti a farlo. Furono indotti dall’opportunità di garantire continuità allo Stato, al tempo stesso neutralizzando la sua classe politica, quella democratica, quella capace di governo, quella che aveva il consenso degli elettori. Agirono con studiato opportunismo, consapevoli della dirompenza e della pericolosità della loro azione. In tal senso, fra gli altri, furono guidati dal Quirinale, a sua volta ricattato dai procuratori.

Oh bella, sto forse sostenendo che quelle toghe nere vollero insediare un governo ove preponderante era la forza dei comunisti? No, al contrario, lavorarono per un governo debole, e, ad un certo punto il leader della procura, Francesco Saverio Borrelli, accarezzò l’idea di prendere lui la guida del paese. Fu sincero, perché lo disse. Il delirio d’onnipotenza lo indusse ad esser franco. Ma dimostrò, in quel momento, di non avere capito niente. Dimostrò d’essere strumento, ma non direttore d’orchestra.

Il tempo della vacanza, il tempo dell’assenza di potere non poteva che essere breve, questo loro non lo capirono. Serviva una parentesi, nella quale inserire la svendita d’alcuni gioielli detenuti dalla mano pubblica, ma non era nell’interesse di nessuno far seguire alla Grecia dei colonnelli l’Italia dei procuratori. La supplenza non doveva trasformarsi in sostituzione, perché sarebbe stato pericolosissimo. Ricordate quel semianalfabeta che cominciò a teorizzare “mani pulite nel mondo”?

Quanto sopra vale per l’operazione fatta partire e gestita dalla procura di Milano, ma, come tutti sanno, vi furono anche numerose inchieste gestite da altre procure (Roma, Torino, Napoli, La Spezia e così via), come si spiega? Intanto è bene ricordare che Milano si batté in tutti i modi per affermare, sempre in dispregio alla legge, una specie di competenza territoriale generale. La spiegazione è questa: la magistratura non è affatto un corpo monolitico ed indirizzabile, ed anche da questo punto di vista la teoria del complotto non sta in piedi: partirono una serie di fenomeni imitativi, ispirati, di volta in volta, dal desiderio di farsi fotografare e diventar famosi, dal giuoco dei ricatti, dalle soffiate interessate, dalla preoccupazione di veder crescere il peso di una sola procura, quindi dalla lotta di potere interna al mondo togato (ed in questo senso cominciò l’attacco anche contro gli imprenditori, mirando a rompere l’oggettiva confluenza d’interessi che era stata contrattata a Milano). Lo storico che si dedicherà alla descrizione di questi intrecci dovrà usare gli stivali, tale è il livello di palta nel quale si agitarono, in quel momento, le vicende italiane.

Ad un certo punto si perse il controllo della situazione. Era finita una stagione, e mentre le macerie ancora fumavano, si passava alla fase della reazione. Si apre il capitolo del post-manipulitismo, che è materia politica ancora pulsante.

Nell’Italia dei processi al presidente del Consiglio e dei girotondi, taluno può credere che vi sia una specie di disfida pro o contro il manipulitismo. Niente di più falso: il mondo politico che occupa la scena è figlio legittimo del manipulitismo. Questa solare realtà mostra tutti gli effetti mefitici della bugia. A creare questa realtà hanno concorso due elementi: l’avere affidato, per lungo tempo, il governo del Paese a persone e compagini prive di legittimità democratica, mai votati da nessuno, quasi che si potesse immaginare un governo non politico, ma, appunto, come si disse, tecnico, o presidenziale; l’elettorato, però, ed è il secondo elemento, ha mostrato grande perseveranza nel votare il centro politico, pur in assenza dei partiti politici che lo avevano animato.

Silvio Berlusconi è colui il quale lo ha capito prima e meglio di tutti. Ha capito che si era creato un grande vuoto e che, a dispetto della presunta evidenza, gli italiani non desideravano affatto essere governati dagli eredi del partito comunista. Lo ha capito e si è lanciato ad occupare il vuoto creato dal manipulitismo, con ciò stesso provocando la reazione furibonda degli stessi che gli avevano liberato il campo. Così vinse nel 1994, contro le previsioni di quasi tutti (e, di certo, contro la sicumera della sinistra, che non aveva avvertito il pericolo). Perse alle elezioni successive, ma per incapacità tecnica, portando comunque a casa la maggioranza dei voti. Non commise ancora lo stesso errore, e tornò a vincere.

Quello cui gli italiani hanno assistito non è uno scontro sul manipulitismo, che ha la paternità di questo mondo politico, ma il combinarsi di due elementi: da una parte la necessità, della quale deve farsi carico chiunque intenda governare, di arginare gli straripamenti del potere giudiziario; dall’altra la non celata speranza, coltivata da una parte dell’opposizione, che la partita politica possa ancora essere decisa in sede giudiziaria. La sinistra, negli anni del suo governo, non ha avuto la forza, morale e politica, di affrontare la prima questione, indebolita, del resto, dall’essere giunta al potere senza una legittimazione elettorale e proprio grazie alla demolizione, per via giudiziaria, degli avversari. La vittoria di Berlusconi, oltre tutto, viene vissuta come un’impostura, un trucco, o, quanto meno, uno scherzo della sorte. Ed è proprio questo il più tragico errore della sinistra: non avere compreso che quella vittoria è piena e legittima, costruita sul vuoto che si era creato, vuoto di cui la sinistra non comprese tutte le implicazioni ed i possibili sviluppi.

L’Italia ha vissuto dieci anni in preda alle convulsioni dell’antipolitica. Per rendersene conto basterà seguire il dibattito istituzionale: negli ultimi dieci anni i protagonisti si sono talora scambiati le posizioni: al suo debutto Berlusconi era favorevole ad una riforma del sistema elettorale sul modello francese del ballottaggio a doppio turno, D’Alema ed i ds erano assolutamente contrari; qualche mese dopo i ds proponevano il sistema francese, e Berlusconi ne diffidava, giacché temeva che il suo elettorato non gradisse recarsi alle urne in due domeniche troppo vicine. Ma che razza di pensiero è questo? Come si può cambiare così rapidamente posizione su questioni di tale rilevanza? Il primo governo Berlusconi aveva un ministro del tesoro, Lamberto Dini, che fece una proposta per la riforma delle pensioni, e la sinistra lo attaccò a testa bassa, considerandolo un nemico del popolo; pochi mesi dopo Berlusconi era all’opposizione, e la sinistra aveva eletto Dini proprio capo del governo. Questo non è il cinismo della politica, è una gastoniana mancanza dell’orrore di se stessi.

Nessuno dei leaders di un tempo si sarebbe potuto permettere tanta disinvoltura. Non avrebbe potuto Craxi, né De Mita, né Spadolini. E sapete perché? Perché alle spalle avevano dei partiti, fatti di persone vere, che rappresentavano interessi, certamente, ma anche passione ed idee. Quella gente non avrebbe tollerato di essere menata per il naso, avrebbe messo a soqquadro le assemblee per rivendicare uno straccio di coerenza. In tal senso la democrazia aveva fatto breccia anche nel partito comunista, che pure, venendo da una concezione leninista, quindi assolutamente antidemocratica, era abituato a seguire i capi senza fiatare: li seguì nell’amnistia ai fascisti, li seguì a baciar le pantofole papali, li seguì nell’adorazione del regime che ammazzava nei gulag gli oppositori … Ma anche lì erano cresciuti gli Amendola, i Chiaromonte, i Macaluso, lì aveva potuto trovare posto Altiero Spinelli. I partiti politici hanno una funzione ineliminabile, nei sistemi democratici. La crisi dei partiti è la crisi delle democrazie. L’eliminazione violenta dei partiti è un attentato alla democrazia. L’hanno voluta chiamare seconda Repubblica. Ma anche questo è un falso. Nulla ci autorizza a cogliere i nuovi assetti che la differenziano dalla prima. Stiamo vivendo, in realtà, i sussulti agonici di una prima Repubblica cui è stata sottratta l’anima politica, la capacità di pensare la cosa pubblica, di viverla come impegno e dovere.

L’odio per Berlusconi, dunque, nasce proprio dall’essersi posto sui binari che avrebbero dovuto portare il treno della sinistra ad essere, come nel sogno (incubo) berlingueriano, sia il governo che l’opposizione, facendolo deragliare. Ma nel 2001 gli elettori hanno dato alla Casa delle Libertà un mandato pieno e forte per governare, il bilancio, cinque anni dopo, mostra che si è fatto meno di quello che si sarebbe dovuto, e potuto. Questo crea la delusione che può costare una sconfitta elettorale.

Vincere le elezioni, in democrazia, non significa “prendere il potere”. Non è così neanche negli Stati Uniti, dove il Presidente è un potere assai forte. Lo dimostrano, ad esempio, le diverse grandi opere che sono state fermate dall’antagonismo degli enti locali. Ci sono infrastrutture di grande importanza nazionale ed europea, come l’alta velocità ferroviaria, che hanno dovuto subire proteste e blocchi voluti dalle comunità locali. Così come ci sono state le condizioni economiche sfavorevoli, così come ci sono stati i continui attacchi giudiziari, non placatisi di certo. Ma è infantile ritenere che tutto si debba a condizioni esterne, che non vi siano responsabilità della coalizione che ha governato.

Intanto perché nella realtà italiana, formatasi nel biennio fatale 1992-1994, le coalizioni, tutte e due, sono del tutto disomogenee. Il governo Berlusconi è stato molte volte impedito non dall’opposizione, ma dai suoi stessi alleati. E non è possibile dimenticare che gli ultimi due anni sono stati occupati da paradossali “verifiche” che o non si concludevano o sfociavano in nuove cose da verificare.

La forza originaria della Casa delle Libertà stava nell’opporsi al colpo allo Stato, ma anche nel promettere una politica di libertà, con più mercato e più Stato: più liberalizzazioni, più concorrenza, e, al tempo stesso, più investimenti in infrastrutture ed istruzione.
Berlusconi rivendica pervicacemente i meriti del suo governo, vuole che sia chiaro che la gran parte del contratto con gli italiani è stato applicato, ma se si leggono le sue stesse dichiarazioni sui vincoli impostigli dalla coalizione, se si legge il programma elettorale che si è dato, si coglie subito che resta da farsi quel grande salto di cultura e di modernità che era nelle promesse originarie. Lo ripetiamo e lo sottolineiamo non per attribuirgliene la responsabilità, ma perché sarebbe una colpa tacerlo, con ciò stesso consegnandosi alla peggiore sconfitta, che non è quella elettorale, ma quella politica. Al contrario, invece, dire a chiare lettere che resta ancora molto da fare serve anche a comunicare che non si è cambiata idea, che si devono fare i conti con la realtà, ma non per questo si è spenta la forza propulsiva che aveva portato alla vittoria.
Noi non solo speriamo, ma lavoriamo affinché la Casa delle Libertà vinca le elezioni. Ma sarebbe un lavoro inutile se non partisse proprio dalla constatazione che parte consistente del programma attende ancora di diventare realtà. Perché, allora, se così stanno le cose, se dei fallimenti ci sono pur stati, non consegnare il governo alle sinistre, non mettere alla prova l’opposizione di oggi? La risposta è questa: perché tutto quello che a noi sembra troppo poco, nell’azione di questo governo, a loro sembra troppo. La sinistra di oggi è la più grande forza conservatrice presente sulla scena, laddove noi crediamo si debbano rompere le acque stagnanti dei corporativismi e dei protezionismi.

Avere una sinistra che sia forza di governo, capace di innovare e cambiare l’Italia, sarebbe una cosa utile e preziosa. Noi abbiamo sperato che la sconfitta del 2001 imponesse una trasformazione profonda di quello schieramento. In parte è avvenuto, e ci piace ricordare alcuni significativi strappi imposti dal leader della Margherita, Francesco Rutelli, ma sono rimaste tesi isolate, contro le quali si muove il corpaccione di una coalizione che partorisce il programma da noi esaminato.

Far vincere la sinistra, oggi, significa renderne più forti le componenti conservatrici, quelle che non saranno mai libere né dagli interessi costituiti, né da quelli corporativi, avremmo una politica economica dettata dal sindacato, una politica della giustizia dettata dalle toghe associate, una politica estera che risente dei gorgoglii antiamericani e no global, e così via. O non avremo nulla di tutto questo, perché si sfasciano sotto il peso d’insanabili contraddizioni. Per questo auguriamo loro la sconfitta.

Ma sarebbe un augurio amaro, una banale tifoseria (che non ci piace), se non l’accompagnassimo con la convinzione che, quale che sarà il risultato elettorale, dai banchi del governo o da quelli dell’opposizione, le forze che alla sinistra non si sono piegate sappiano tornare a guardare al futuro per far riprendere il cammino all’Italia dello sviluppo e della libertà.

(da "I peccati di Prodi. Tutti gli errori contenuti nel programma della sinistra", di Vittorio Feltri e Renato Brunetta)

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