(Alert! Post molto lungo)
Sentiamo voci a noi molto care (come Walking Class, 2twins, Regime Change e Watergate2000) lamentarsi perché Berlusconi ha deciso di rinviare, a dopo le elezioni 2006, il dibattito sul partito unico del centrodestra. Poche settimane fa, abbiamo sentito voci simili (non necessariamente le stesse) lamentarsi perché Berlusconi aveva deciso di aprirlo, questo dibattito. "Ormai è troppo tardi". "Anzi è troppo presto". "Serve prima una carta dei valori condivisi". "E' soltanto un espediente tattico". "Le elezioni è meglio affrontarle in ordine sparso". "Berlusconi è finito". "Tocca a Pera". "Pera non vuole, meglio Casini o Formigoni. Perfino Tremonti". "No, Fini no, è morto pure lui".
Da parte nostra, avevamo sempre ritenuto che l'approdo naturale della destra italiana dovesse essere quello di una "big tent" sul modello del partito repubblicano USA, capace di accogliere le diverse anime che abitano la rive droite italiana: da quella liberale e liberista a quella tradizionalista e cattolica, passando per le mille sfumature neo-theo-lib-paleo conservatrici, nazionaliste, riformiste (o riformatrici), liberalsocialiste o espressione della cosiddetta destra sociale. Se l'orizzonte è quello del bipartitismo, la direzione non può essere che questa. Un partito unico in cui nessuna delle componenti di base abbia un predominio schiacciante sulle altre, ma in cui tutte le forze spingano verso un certo numero di obiettivi comuni per evitare la vittoria di un nemico (politico) comune.
Ma il nodo della questione sta, appunto, nell'orizzonte che ognuno di noi vuole scegliersi. Se, per fare un esempio, il proprio modello di riferimento fosse quello di un grande rassemblement popolare sul modello della CDU tedesca o, per dirla meglio, della DC italiana nel dopoguerra, magari inserito in un quadro bipolare zoppicante, sempre sull'orlo di scivolare verso il tripolarismo, è ovvio che il momento migliore per dare corpo ad un partito unico del centrodestra sarebbe stato adesso, nel pieno degli effetti devastanti di un referendum che le forze "laiche" hanno condotto nel peggiore dei modi immaginabili. Ma se l'orizzonte è quello di un GOP italiano in un sistema bipartitico, la scansione dei tempi decisa da Berlusconi (e assai poco ci interessano le motivazioni che lo hanno spinto a questa scelta) è quella più sensata.
Pensare di costruire la "big tent" giusto in tempo per le elezioni 2006 sarebbe un suicidio collettivo. Non esiste un leader alternativo a Berlusconi. Non ci sono le condizioni culturali per una operazione di tale portata. Servono investimenti miliardari per elaborare idee, trasformarle in progetto politico condiviso e diffondere questo progetto sul territorio, nelle teste e nei cuori dei cittadini italiani. Ripensando all'esempio di Barry Goldwater nel 1964, abbiamo sempre parlato di una guerra culturale e politica che potrebbe durare decenni, prima di portare a casa qualche risultato. Nel mondo contemporaneo, che viaggia a velocità differenti, forse si potrà combinare qualcosa in 5-6 anni. E sarebbe già uno straordinario risultato. Avevamo apprezzato l'accelerazione di Berlusconi dopo le elezioni regionali, perché se non si parte mai, mai si arriva. Ma da qui a credere alla Befana, ce ne passa.
Ecco perché è sempre bene tenere distinti i due piani: quello della rimonta culturale e quello, ormai di brevissimo termine, del ciclo politico contingente. Da qui al 2006 servono tanti soldi e tanto marketing elettorale per provare a vincere, o quantomeno perdere a testa alta. E nessuno può garantire flusso di denaro e capacità di marketing politico meglio di Berlusconi. Dopo il 2006, invece, comunque vadano le elezioni, serve continuare a discutere sul progetto del partito unico e cominciare a costruirlo davvero. E in questo, se ce lo consente, l'apporto di Berlusconi potrebbe anche limitarsi ad un aiuto finanziario di medio periodo, con il sostegno a fondazioni, think-thank, case editrici, giornali e - magari - aggregatori di blog ;) Ma il disimpegno di Berlusconi non deve avvenire prima di aver trovato un'alternativa credibile alla sua leadership. Cosa che, al momento, sembra veramente un'ipotesi pallida e senza sostanza.
Al contrario, se l'orizzonte è quello di rifare la DC (chiamiamolo Partito Popolare se questo placa i demoni delle coscienze), l'alternativa sarebbe molto più semplice. Si prende Casini (quello che ha creato Follini e Tabacci), oppure Formigoni (quello amico di Saddam) e si da un bel calcio nelle chiappe al Berluska (magari senza neanche sporcarsi i piedi e mandandolo allo sbaraglio nelle politiche del 2006). La destra sociale, dopo la svolta theocon di Alemanno (ma i neofascisti seri non erano pagani?) ci starebbe sicuramente. Magari si rischia di perdere per strada qualche liberale e qualche ex-missino duro, puro e a-sociale. Magari si mollano quei quattro gatti radicali, laici o libertari che ancora non si rassegnano a fare i fratelli poveri di Prodi e Bertinotti. Ma tanto la sconfitta è annunciata, vero? E forse una bella batosta convincerebbe il Cavaliere a mollare la presa senza fare troppe storie (gli saranno pur bastati cinque anni a prepararsi una exit-strategy personale...).
Forse propio per questo motivo, gli stessi che avevano sbuffato o sorriso di traverso quando Berlusconi aveva iniziato a parlare di partito unico, gli stessi che gli avevano consigliato di andare al macello delle elezioni anticipate dopo la sconfitta alle regionali, gli stessi che lo hanno dato morto (politicamente) già qualche volta di troppo, erano gli stessi che nelle ultime settimane avevano iniziato ad intravedere nel dibattito sul partito unico una backdoor per sbarazzarsi del Capo senza passare da traditori. Non si capisce bene, è vero, per quale motivo avrebbero voluto Casini prima delle elezioni quando da mesi danno per scontato che le elezioni si perderanno. Di poco o di moltissimo, ma si perderanno. Forse, in un supremo atto di masochismo democristiano (avete mai visto scomparire, dalla sera alla mattina, un partito del 30%?), volevano impallinare il loro leader prima ancora che potesse avere il tempo di crescere.
In ogni caso, hanno sbagliato i loro conti: Casini non ha le palle per farsi carico della rifondazione del centrodestra alla vigilia di una quasi sicura sconfitta elettorale. E Berlusconi non ha nessuna intenzione di gettare la spugna prima del verdetto delle urne. Per chi crede nella necessità di lavorare verso un GOP italiano, invece, il rinvio del dibattito a dopo le elezioni e la sua decisione di ricandidarsi a premier nel 2006 non spostano di una virgola i termini della questione. Anzi, se la coalizione riuscisse a compattarsi in vista dell'appuntamento elettorale, potrebbe essere l'occasione buona per iniziare a sperimentare un lavoro coordinato sul territorio.
Una sola cosa non serve a nessuno, qualsiasi orizzonte si sia scelto come futuro desiderabile del centrodestra italiano: il pessimismo. Il pessimismo e il fastidio che, ormai sempre più prevedibilmente, affiorano nei commenti di chi crede (senza lo straccio di una prova concreta e senza l'ombra di un'alternativa plausibile) che il berlusconismo sia in coma irreversibile. Il Cavaliere avrà pure una tonnellata di difetti e di limiti, soprattutto strategici, ma esasperare il tono delle critiche e abbandonarsi al pessimismo cosmico in piena campagna elettorale, con il centrosinistra già impegnato a spartirsi le poltrone del governo e del sottogoverno prima ancora di aver vinto, è peggio che masochismo. Nel breve periodo, è intelligenza con il nemico (politico). Nel lungo periodo, è il modo peggiore per affrontare la sfida imponente che ci troviamo di fronte.
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