Ne manca uno. Un solo senatore perché il partito democratico raggiunga la fatidica “quota 60” conquistando, di fatto, il controllo totale del Congresso. Con 60 senatori, infatti, i democratici avrebbero una maggioranza a prova di ostruzionismo, negando qualsiasi margine di manovra politica ai repubblicani. E il “senatore mancante” dotrebbe arrivare presto, se - come sembra - sarà confermata (a cinque mesi dal voto) la contestatissima vittoria di Al Franken su Norm Coleman in Minnesota. Arlen Specter, dal 1980 senatore della Pennsylvania, ha scelto infatti di abbandonare il partito repubblicano per correre, come democratico, alle prossime elezioni di mid-term.
Nella conferenza stampa con cui ha annunciato il “ribaltone”, Specter ha parlato di un Gop scivolato troppo a destra per un moderato come lui. La realtà, invece, è più prosaica. Specter è sempre stato considerato un “rino” (republican in name only) dalla base del partito. Già sfidato - e quasi battuto - alle primarie nel 2004, nel 2010 Specter avrebbe dovuto nuovamente raccogliere la sfida di Pat Toomey, presidente del Club for Growth (un influente think tank dell’ala “liberista” del partito). Con una significativa differenza rispetto al passato: nei sondaggi Toomey viaggiava con più di 20 punti percentuali di vantaggio rispetto a Specter. Odiato dalla base, mal sopportato dalla leadership del Gop (soprattutto dopo il voto favorevole allo stimulus di Obama) e indietro nei sondaggi, Specter ha deciso che i suoi giorni nella “big tent” reaganiana erano terminati, scegliendo il cambio di casacca per evitare la fine di una lunga carriera politica. A meno che, naturalmente, qualche democratico non si metta di traverso nelle primarie.
La reazione del partito repubblicano all’abbandono di Specter è stata piuttosto dura, con l’eccezione di qualche altro esponente dell’ala moderata, soprattutto alla luce di un precedente che risale al 2001. Quando Jim Jeffords, repubblicano moderato del Vermont, abbandonò il partito regalando la maggioranza del Senato ai democratici, Specter propose «una regola per impedire ogni futuro cambio di partito ai senatori in carica». Una regola che, se applicata, gli avrebbe oggi impedito il party-switch. Ripercorrendo la storia recente degli Stati Uniti non si trovano molti episodi del genere.
Partiamo dal Senato. Il caso più recente è quello di Joe Lieberman (Connecticut): eletto al senato nel 1988 come democratico; rieletto nel 1994 e nel 2000; candidato (sconfitto) alla vicepresidenza nel 2000 in ticket con Al Gore; dopo la sconfitta alle primarie democratiche nel 2006 decide di correre come indipendente e vince le elezioni. Oggi resta “indipendente” anche se è associato al caucus democratico, malgrado il sostegno a McCain alle ultime presidenziali.
Il caso di James Jeffords (Vermont) è senza dubbio quello più eclatante. Repubblicano dal 1989 al 2001, il suo cambio di casacca porta i democratici a controllare il Senato - che in quel momento è diviso 50-50 con il voto decisivo del vicepresidente Dick Cheney - fino alla vittoria del Gop alle elezioni di mid-term del 2002. Uno switch rilevante, al contrario di quello brevissimo (dal 13 luglio al 1 novembre del 1999) che coinvolge Robert Smith (New Hampshire), passato dai repubblicani agli indipendenti per poi tornare quasi immediatamente al Gop, in cambio della succulenta presidenza della commissione ambiente, lasciata libera dalla morte del senatore repubblicano del Rhode Island, John Chafee.
Tornando indietro nel tempo, dal 1995 al 1964 troviamo soltanto qualche democratico passato ai repubblicani. Nel 1995, Ben Nighthorse Campbell (eletto appena due anni prima), rimasto in carica fino al 2005. Nel 1994, Richard Shelby (Alabama), eletto con i democratici nel 1987 e ancora oggi esponente di rilievo del Gop. Entrambi erano classici prototipi di Reagan Democrats, tornati a casa dopo la “rivoluzione conservatrice” del 1994. Poi niente, fino al caso di Harry F. Byrd, Jr. (Virginia), che nel 1971 abbandona il partito democratico che lo aveva fatto eleggere nel 1965, in polemica con la leadership del partito in Virginia. Byrd, figlio d’arte, non entra nel Gop ma resta indipendente fino al 1983 e continua a votare - più o meno - in linea con in resto dei democratici.
Più clamoroso fu l’addio di J. Strom Thurmond (South Carolina), democratico dal 1954 al 1964 e poi repubblicano fino al 2003. Thurmond è stato il terzo senatore statunitense a superare i cent’anni d’età e l’unico a festeggiare il secolo di vita ancora in carica. Spirito irrequieto fin dagli esordi, Thurmond (eletto governatore della South Carolina nel 1946), partecipa alle presidenziali del 1948 - fondando di fatto i Dixiecrat sudisti - in polemica con la decisione di Harry Truman di abolire la segregazione razziale nell’esercito. Supera il milione di voti, ottiene il 2,4% dei consensi e conquista 39 grandi elettori, tutti negli stati del Sud. Nel 1950 si candida al Senato ma viene sconfitto dal democratico Olin D. Johnston. È la sua unica sconfitta in un’elezione locale. Alle presidenziali del 1952 appoggia il repubblicano Dwight D. Eisenhower. Due anni dopo viene eletto al Senato con il 63% dei voti, battendo un altro record: è il primo candidato write-in (non presente nella scheda elettorale, ma il cui nome deve essere scritto manualmente dall’elettore) a vincere una consultazione elettorale negli Usa. Con l’inizio della “southern strategy” repubblicana, Thurmond decide di abbandonare il partito d’origine e il 16 settembre del 1964 entra nel partito repubblicano di Barry Goldwater, in cui resta fino alla morte. Trovando il tempo di sconfessare gran parte delle politiche segregazioniste che aveva appoggiato negli anni precedenti.
Per trovare altri “Mastella d’America” al Senato bisogna spingersi ancora più in là. Wayne Morse (Oregon) parte repubblicano (1945-1953), diventa indipendente (1953-1955) e finisce democratico (1955-1969). Henrik Shipstead (Minnesota) inizia la sua carriera nel Farmer-Labor (1923-1941) e la prosegue nel partito democratico (1941-1947). All’inizio del ’900, infine, fa storia la dinastia La Follette in Wisconsin, Robert M. e il figlio Robert Jr., che lasciano il partito repubblicano - rispettivamente nel 1925 e nel 1935 - per correre sotto le insegne Progressive.
Ripercorrere la storia della Camera è molto meno interessante, soprattutto perché mai il passaggio di un congressman da un partito all’altro ha provocato cambi di maggioranza o scossoni politici. Ricordiamo, per amor di cronaca, il caso di Nathan Deal (Georgia), passato ai repubblicani nel 1996 e diventato uno dei membri più conservatori del partito. E quello di Bill Tauzin (Louisiana), co-fondatore dei Blue Dog Democrats (il caucus dei democratici moderati), approdato al Gop nel 1995. Più recente, infine, il “ribaltone” di Rodney McKinnie Alexander (Lousiana), che aderisce al partito repubblicano appena prima della deadline elettorale del 2004, in polemica con la vittoria di Kerry alle primarie. Uno switch che fa infuriare i democratici e provoca la reazione entusiasta del Gop e del presidente Bush. Sembra trascorso un secolo.
(domani in edicola su Liberal quotidiano)
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