Washington, martedì 11 gennaio (ore 15.00). Dopo un pranzo veloce nei dintorni di Dupont Circle, torniamo verso Massachussetts Avenue per l'incontro con la Brookings Institution. Ad accoglierci ci sono Jeremy Shapiro (direttore del centro studi sui rapporti tra Stati Uniti ed Europa) e Michael Calingaert (visiting scholar nello stesso centro ed ex-diplomatico di lungo corso). Il nostro amico John Hulsman della Heritage Foundation ci aveva avvertito: "troverete musi lunghi alla Brookings, ancora non si sono ripresi dalla sconfitta elettorale". Noi pensavamo che John stesse scherzando, ma non era così. Se Calingaert, infatti, riesce a nascondere il proprio disappunto sotto l'aplomb di un perfetto gentleman wasp, Shapiro sembra appena uscito da una rissa con una banda di motociclisti. E non c'è dubbio che i motociclisti abbiano avuto la meglio. Parla sottovoce, ha lo sguardo affranto e ogni volta che la discussione scivola verso Bush (o i repubblicani in genere) sembra sull'orlo delle lacrime. La nostra delegazione è sorpresa e perplessa. Io e Krillix, che ci conosciamo da decenni, cerchiamo di non incrociare gli sguardi, per evitare di scoppiare a ridere (sarebbe scortese almeno quanto Shapiro che piange). Il problema è che sono passati più di due mesi dalle elezioni e ci sembra impossibile che studiosi nel libro-paga di una fondazione del calibro della Brookings siano così poco abituati alle alterne fortune del metodo democratico. Ma le vicende di George W. Bush, il presidente più misunderstimated della storia, ci hanno insegnato a non dare nulla per scontato. Così, facendo leva sui nostri istinti zen, restiamo (seriamente) in silenzio ad ascoltare la lezioncina di Shapiro sulle magnifiche sorti progressive della politica estera francese, salutiamo e ce ne andiamo. Una volta scesi in strada, ridere a crepapelle non è più maleducazione.
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