Dallo scorso 25 agosto, giorno in cui è scomparso Edward Moore Kennedy (detto “Ted”), sul più giovane dei figli di Joseph P. Kennedy Sr. e Rose Fitzgerald sono stati spesi fiumi d’inchiostro, anche in Italia. Molto, per esempio, si è raccontato della sua straordinaria carriera al Senato, che ha attraversato più di quattro decenni di storia politica americana. È stato spiegato, a ragione, che grazie a Ted Kennedy sono stati approvati centinaia di “pezzi” di legislazione federale statunitense, tra cui norme fondamentali nel campo dei diritti civili. In molti hanno ricordato l’aumento del “salario minimo” nel 1981, o la riduzione dell’età minima per votare (da 21 a 18 anni), ma i suoi successi parlamentari sono stati numerosissimi. E molti di essi sono arrivati grazie al paziente lavoro di ricerca del compromesso in cui Kennedy era maestro, capace com’era di lavorare sui fatti concreti con i congressmen di ogni estrazione politica (persino con i più conservatori, come il suo grande amico dello Utah, Orrin Hatch) pur senza rinunciare al proprio, particolarissimo, posizionamento ideologico-culturale, nettamente spostato a sinistra per gli standard a stelle e strisce. Il tutto, in un’era dominata dai conservatori (Richard Nixon, Ronald Reagan, George W. Bush) e dai moderati (George H.W. Bush, Bill Clinton). Basterebbe questo, probabilmente, a farne un personaggio eccezionale.
Moltissimo, poi, e anche in questo caso a ragione, è stato scritto sulle terribili prove personali che il Liberal Lion del Senato Usa è stato costretto ad affrontare durante la sua vita. Soltanto tra gli otto e i sedici anni, Ted Kennedy ha dovuto assistere alla lobotomia (fallita) della sorella Rosemary, alla morte in guerra del fratello Joseph P. Kennedy Jr. e alla morte in un incidente aereo della sorella Kathleen Agnes. Poi, come in un brutto film girato da un regista perverso: gli omicidi dei fratelli John e Robert, che hanno sconvolto l’America e dato il via alla “maledizione dei Kennedy”; l’aborto spontaneo della moglie Joan; la morte sfiorata nell’incidente aereo del 1964 in cui perse la vista il suo assistente; la lunga malattia del figlio Ted Jr. (a cui venne, dodicenne, amputata una gamba). Senza contare le decine di figli dei fratelli morti, dei quali era diventato il padre “di fatto”, che vide rovinarsi inesorabilmente la vita per colpa delle droghe, dell’alcool, della dissolutezza o, più semplicemente, dell’incoscienza.
Di tutto questo, nelle settimane successive alla morte di Ted Kennedy, sono state riempite le pagine dei giornali, le onde dell’etere televisivo e radiofonico, i sottilissimi filamenti di fibra ottica che compongono la spina dorsale di Internet. C’è dell’altro, però. Ed è proprio su questo altro che i media, soprattutto italiani ed europei, hanno steso un velo di omertoso silenzio. Un silenzio tanto assordante da non poter essere giustificato con il comprensibile e dovuto rispetto nei confronti dell’evento luttuoso. Proviamo, allora, a cercare di capire cosa è stato deliberatamente tenuto nascosto, concentrandoci su quattro frammenti della sua vita, senza i quali cercare di comprendere Ted Kennedy sarebbe come provare a capire suo fratello John dimenticandosi di Marilyn Monroe e del daiquiri.
Gli studi, la Corea (in Francia) e la prima volta al Senato
Mediocre studente alla Milton Academy (la media della sufficienza, niente di più), Ted Kennedy viene ammesso all’università di Harvard per meriti dinastici, visto che il padre e tutti i suoi fratelli hanno studiato nella reginetta dell’Ivy League. Durante i travagliati studi universitari, il giovane Ted viene espulso due volte. Dopo la prima - per aver mandato un amico, evidentemente più preparato di lui, a sostenere l’esame scritto di spagnolo – viene riammesso dopo una lunga telefonata del padre. Dopo la seconda, è costretto a un paio d’anni d’esilio nell’esercito, ma è sempre il padre a evitargli la partenza per la Corea, destinandolo a una località più consona al suo lignaggio: Parigi. Ted non va oltre il grado di soldato semplice, poi torna ad Harvard, dove ottiene un diploma di laurea rubacchiato e si iscrive alla facoltà di legge della University of Virginia. L’unica attività per cui si segnala nell’ateneo fondato da Thomas Jefferson a Charlottesville è la guida veloce, grazie alla quale diventa un “sorvegliato speciale” della polizia del luogo. Una volta viene fermato per aver guidato a 90 miglia all’ora (più di 140 km/h), di notte e a fari spenti, in un centro residenziale. Naturalmente la patente non gli viene ritirata. Nel 1959 passa gli esami di abilitazione all’avvocatura e due anni più tardi diventa assistente del District Attorney della contea di Suffolk, in Massachusetts.
Con precedenti così travagliati e un curriculum accademico che non va oltre qualche discreta partita di football, anche per un Kennedy sarebbe naturale attendersi qualche anno di gavetta, prima dell’esordio nel mondo politico della Beltway washingtoniana. E quando il fratello John vince le presidenziali del 1960, sia lui che Robert si oppongono all’ipotesi di affidare il seggio senatoriale vacante del Massachusetts a Ted, giudicandolo “troppo immaturo”. Neppure Jack e Bob, però, possono fare niente di fronte all’irrevocabile decisione del patriarca Joe, che “costringe” il governatore dello stato, Foster Furcolo, a nominare l’amico di famiglia dei Kennedy, Benjamin A. Smith, giusto il tempo necessario per permettere a Ted di compiere 30 anni. Nel 1962, raggiunta l’età minima per correre, Ted si presenta di fronte all’elettorato per conquistare il seggio che era stato di JFK. Durante le primarie democratiche, il suo avversario Eddie McCormack non riesce a trattenersi : “Se il suo nome fosse Edward Moore invece di Edward Moore Kennedy, la sua candidatura sarebbe una buffonata”. Il professor Mark DeWolfe Howe, suo professore ad Harvard (e consigliere politico di JFK) dichiara che la scelta è “ridicola e offensiva”. Ma si tratta di una “offesa” particolarmente efficace, perché Kennedy vince le primarie, vince le elezioni (contro il repubblicano George Cabot Lodge II) e sarà rieletto altre sette volte consecutivamente. Potenza di un cognome.
Chappaquiddick, Edgartown, Massachusetts
Nella notte del 18 luglio 1969, Ted Kennedy partecipa a un party piuttosto particolare al Lawrence Cottage sull’isola di Chappaquiddick, a poche miglia da Martha’s Vineyard. Presenti alla festa, oltre a Ted, altri cinque uomini e sei ragazze, le cosiddette “Boiler Room Girls”, i membri femminili dello staff per la campagna presidenziale del 1968 di Robert F. Kennedy. Verso mezzanotte, Ted (già sposato da undici anni) si allontana per riaccompagnare una delle ragazze – la ventottenne Mary Jo Kopechne – nella sua stanza d’albergo a Edgartown. Ma la sorte (e non solo la sorte) è in agguato. Kennedy sbaglia direzione, imbocca una strada sterrata e male illuminata che finisce con un pontile d’attracco per i traghetti (il Dike Bridge). Ted non si accorge di niente, almeno fino a quando la sua auto, una Oldsmobile Delmont 88, precipita in acqua. Il senatore riesce ad uscire facilmente dalla vettura, ma invece di tentare con ogni mezzo di salvare Mary Jo, pensa bene di tornarsene a piedi al Lawrence Cottage, bere un paio di cocktail, avvertire il suo avvocato e andare a nanna. Mary Jo muore d’asfissia dopo qualche ora di terrore. “Non è affogata – dice l’uomo che recupera il cadavere dalla Oldsmobile – è morta asfissiata dopo almeno 3 o 4 ore. Avrei potuto tirarla fuori dalla macchina in una ventina di minuti, se mi avessero chiamato prima. Ma non ha chiamato nessuno”.
Ancora oggi, molti aspetti nella dinamica dell’incidente sono oscuri. Kennedy dice di essersi immerso in acqua (“sei o sette volte”) per cercare di recuperare la Kopechne, prima di tornare alla festa come se niente fosse. Ma nella strada che va dal Dike Bridge al Lawrence Cottage ci sono almeno quattro case da cui Ted avrebbe potuto telefonare per chiedere aiuto. Un aiuto che, con ogni probabilità, avrebbe salvato la vita di Mary Jo. Una di queste case, come testimoniano i suoi inquilini, quella notte ha le luci esterne accese.
Malgrado i numerosi tentativi di cover-up della famiglia Kennedy, nel gennaio del 1970 al tribunale di Edgartown il giudice James A. Boyle firma le conclusioni dell’inchiesta ufficiale (un fascicolo di 763 pagine che chiunque, oggi, può consultare negli archivi online dell’Fbi). Secondo il giudice, Ted guidava troppo velocemente (in maniera “negligente e temeraria”) e proprio la sua condotta al volante “ha contribuito alla morte di Mary Jo Kopechne”. Naturalmente, Ted non viene neppure processato. E la famiglia Kopechne viene messa a tacere con qualche decina di migliaia di dollari.
Il Chappaquiddick Incident spegne sul nascere le velleità presidenziali di Ted, proprio mentre la grande maggioranza dei cittadini americani è convinta che possa essere il candidato democratico destinato a sfidare Richard Nixon nel 1972. Ma nella People’s Republic of Massachusetts la sua carriera politica non viene mai messa seriamente in discussione: a novembre viene rieletto al Senato con il 62% dei voti. Questa volta però, la patente di guida gli viene sospesa per sei mesi.
Back in USSR, 1983
È 14 maggio del 1983, siamo al culmine della Guerra Fredda, nei mesi in cui i rapporti tra Stati Uniti e Unione Sovietica sono più tesi e difficili. Il capo del KGB, Viktor Chebrikov, scrive un messaggio riservato (e segretissimo) al segretario generale del Partito comunista, Yuri Andropov. Secondo Chebrikov, un ex senatore democratico della California, John Tuney, amico di vecchia data e compagno d’università di Ted Kennedy, gli ha chiesto di mandare un segnale alla leadership sovietica. Anzi, qualcosa di più che un segnale. Kennedy, dice Tuney, è molto preoccupato per il deteriorarsi delle relazioni tra Usa e Urss, che lui crede siano pericolosamente vicine ad una confrontation nucleare. E il buon Ted è convinto che la causa primaria di questa situazione sia il presidente americano, Ronald Reagan. Al contrario, Kennedy si dice “favorevolmente impressionato” da Andropov (lo stesso simpatico personaggio che stroncò nel sangue la rivolta di Budapest nel 1956). Il senatore del Massachusetts – sostiene Tuney e Chebrikov non fatica a credergli – è disposto a fare qualsiasi cosa per fermare le “aggressive politiche” di Reagan (dai Pershing II e i Cruise in Europa alla Strategic Defense Initiative) e impedire che il leader repubblicano venga rieletto nel 1984.
Niente di particolarmente impressionante, tutto sommato, visto che qualche mese più tardi (marzo 1984) - in un’intervista a Rolling Stone – Kennedy avrebbe descritto la politica estera di Reagan come una “fuorviante tattica basata sulla paura anticomunista e su un incosciente macchinazione in stile Guerre Stellari”. Più preoccupante è che un senatore degli Stati Uniti si spinga fino a dare consigli di public relations al leader di una nazione nemica. Il problema, infatti, secondo Ted è soprattutto di marketing politico: i sovietici hanno difficoltà di comunicazione con l’opinione pubblica americana ma questo potrebbe essere risolto – dice Kennedy-via-Tuney – “se solo fossero in grado superare la cortina di fumo reaganiana e far conoscere direttamente al popolo statunitense le loro pacifiche intenzioni…”.
Ecco il piano, dunque: “agganciare” (“hook up”, in inglese, rende molto meglio l’idea) Andropov e qualche altro apparatchik sovietico con i media americani, attraverso i quali poter presentare il loro messaggio di pace universale. Nel documento – declassificato dopo l’apertura degli archivi del KGB voluta da Boris Eltsin nel 1991 – vengono fatti i nomi di Walter Cronkite e Barbara Walters. In più, Kennedy si offre di volare a Mosca per incontrare personalmente Andropov.
La generosa offerta del senatore non ha poi alcun seguito pratico, perché Andropov si ammala (sarebbe morto all’inizio del 1984) e perché la corsa verso la rielezione di Reagan acquista un’inerzia tale che per fermarla non sarebbe bastato tutto l’arsenale nucleare sovietico e tutti i network televisivi liberal (e i secondi, per la verità, saranno effettivamente utilizzati). Ma la cosa sconvolgente è che nel febbraio del 1992, grazie al ricercatore inglese Tim Sebastian, il documento era già stato scovato negli archivi sovietici e l’incredibile storia pubblicata sul quotidiano The Times. Ma tutto era finito così, nel colpevole silenzio dei media americani e nell’ignavia di quelli internazionali. Anche nel 2006, quando lo storico statunitense Paul Kengor si imbatte nuovamente nel documento (durante la scrittura del libro “The Crusader: Ronald Reagan and the Fall of Communism”) e cerca diffonderne l’esistenza sui media tradizionali, lo storia viene totalmente ignorata, ad eccezione che nel talk-show radiofonico di Rush Limbaugh. Soltanto Ted Kennedy sarebbe potuto uscire “illeso” da uno scandalo di questa portata.
Robert Bork. Ovvero, quando la politica americana perse l’anima
Qualcuno si stupisce del livello di violenza verbale e di attacchi personali a cui è arrivato, negli ultimi anni, il dibattito politico statunitense. Secondo Jonah Goldberg della National Review (e la sua non è certo un’opinione isolata), “l’inizio della fine” corrisponde a una data ben precisa. E’ il 1° luglio del 1987: il presidente Reagan sceglie il giudice Robert Bork per sostituire Lewis Powell alla Corte Suprema. Powell è un “moderato”, mentre Bork – da molti considerato dei più grandi giuristi della nostra epoca – ha il terribile difetto di essere un “originalist” (come Antonin Scalia e Clarence Thomas): è convinto, cioè, che la Costituzione vada interpretata per quello che c’è scritto e non per quello che i giudici “progressisti” vorrebbero ci fosse scritto. Warren Earl Burger, che della Corte Suprema è stato Chief Justice per quasi vent’anni, parla di Bork come “il candidato più qualificato che abbia mai visto nella mia intera vita professionale”. E, come ricorda Goldberg, in questo periodo di tempo sono comprese le carriere di “pesi massimi” come Benjamin Cardozo, Hugo Black e Felix Frankfurter.
Ma questo, ai democratici, interessa poco. Spaventati dalla prospettiva di una Corte Suprema troppo spostata “a destra”, stanno preparando la controffensiva contro Bork da settimane e, appena 45 minuti dopo l’ufficializzazione della scelta di Reagan, Ted Kennedy si presenta di fronte alle telecamere di tutti i network nazionali (gli stessi a cui aveva sperato di presentare il programma progressista di Andropov) per pronunciare uno dei più brutali e incivili discorsi “politici” mai pronunciati da un senatore degli Stati Uniti d’America.
“L’America di Robert Bork è una terra in cui le donne sarebbero costrette ad abortire nei vicoli, i neri tornerebbero a essere segregati nei ristoranti, irromperebbe nelle case dei cittadini con raid notturni, agli scolari non verrebbe insegnato l’evoluzionismo, gli artisti e gli scrittori sarebbero censurati a piacimento del governo… Nessuna giustizia sarebbe meglio di questa ingiustizia”. Il “discorso”, trasmesso simultaneamente in tutte le case degli americani, provoca uno shock terrificante in tutti gli Stati Uniti. E il fatto che la sua attinenza con la realtà sia del tutto inconsistente, non basta a salvare la candidatura di Bork, la cui fine arriva qualche giorno più tardi, grazie anche alla reazione debole e tardiva dell’amministrazione Reagan.
“Bork” diventa, nel gergo politico, un sinonimo di “fare fuori qualcuno senza pietà”. Ed è proprio Ted Kennedy, l’osannato e compassionevole Liberal Lion della politica americana, ad aver dato il via a quest’epoca di degrado costante nel tono del dibattito politico. Ethal Bronner, autore di “Battle for Justice: How the Bork Nomination Shook America”, ricorda la reazione di un’incredula Peggy Noonan (allora speechwriter di Reagan e oggi editorialista del Wall Street Journal) al discorso di Kennedy: “È stata un’esibizione grottesca, ma ha funzionato. La prossima volta, la destra risponderà allo stesso modo, pareggiando nei toni e pareggiando negli attacchi”. E così è stato, in un crescendo di fango e di character assassination.
Questo, anche questo, è stato Ted Kennedy. Così, la prossima volta che qualcuno vi narrerà le gesta leggendarie del senatore del Massachusetts e dei grandi cavalieri senza macchia e senza paura che hanno dato vita all’American Camelot, provate a ricordarvi anche di Robert Bork e Mary Jo Kopechne.
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