È ancora possibile, nei 20 giorni che ci separano dalle elezioni presidenziali americane, ipotizzare una rimonta di John McCain ai danni di Barack Obama? Oppure gli Stati Uniti devono “arrendersi” alla prospettiva di un monocolore democratico alla Casa Bianca, alla Camera e al Senato per i prossimi quattro (e probabilmente otto) anni? Per rispondere a questa domanda bisogna prima cercare di capire quale sia, realmente, l’entità del vantaggio di cui gode oggi Obama nei sondaggi condotti a livello nazionale. Perché questo distacco varia, anche sensibilmente, a seconda dell’istituto di ricerca che si prende in considerazione.
Possiamo, per semplificare, dividere i sondaggisti in due categorie. Nella prima c’è chi attribuisce al candidato democratico un margine di vantaggio in doppia cifra (o quasi): Newsweek (+11%); Abc News/Washington Post (+10%); Cbs News/New York Times (+14%); Los Angeles Times (+9%); Battleground (+8%). Nella seconda categoria, invece, ci sono i sondaggisti che registrano un vantaggio di Obama intorno ai 3-5 punti percentuali: Rasmussen Reports (+5%); Zogby/Reuters (+4%); Investor’s Business Daily (+3%). In mezzo a questi due estremi, galleggia Gallup, che ormai da qualche giorno, nel suo tracking quotidiano, pubblica due dati separati: uno utilizzando il suo metodo tradizionale di screening dei likely voters; un altro utilizzando un metodo diverso, che tende a sovra-rappresentare il voto giovanile e delle minoranze (un metodo ritagliato apposta sulla candidatura di Obama, insomma). Ieri il vantaggio democratico era di 4 punti percentuali utilizzando il primo metodo e di 8 utilizzando il “metodo Obama”.
Come districarsi in questo labirinto di cifre e di trend spesso discordanti? Ieri, sulla National Review, analizzando queste forti oscillazioni tra i diversi sondaggi, Todd Eberly è andato ad indagare nei cosiddetti “internals”, in cui il dato complessivo viene disaggregato geograficamente e demograficamente. E la sua indagine non è stata avara di sorprese. Nel sondaggio condotto da Newsweek, per esempio, si scopre che Obama conquista il consenso dei democratici (91%), McCain quello dei repubblicani (89%) e che gli “indipendenti” sono spaccati a metà (45%-43% per McCain). Dati, questi, che non sembrano affatto compatibili con il clamoroso +11% che, nel suo complesso, il sondaggio attribuisce a Obama.
Scavando in profondità, però, Eberly si è accorto che, nel campione preso in considerazione da Newsweek, ci sono il 40% di democratici, il 27% di repubblicani e il 30% di indipendenti. Il problema è che, nella storia recente degli Stati Uniti, i democratici non hanno mai avuto un vantaggio così consistente nella “party identification”. Nel 2004, secondo gli exit poll, l’elettorato era diviso equamente (37%-37%). E perfino nelle catastrofiche (per i repubblicani) elezioni di mid-term del 2006 le percentuali erano simili (38%-36%, con il 26% di indipendenti). Anche durante l’era-Clinton - con le elezioni del 1996 e del 2000 - i democratici non hanno mai avuto un vantaggio superiore al 4%. Quanto è credibile che questo margine, oggi, sia arrivato al 13% ipotizzato da Newsweek? E, soprattutto, quanto questa “ipotesi” influenza il dato finale dei sondaggi?
Ricalcolando gli stessi dati con un vantaggio democratico nella “party identification” pari al 4%, Eberly raggiunge un risultato che fa scendere il vantaggio di Obama da 11 a 4 punti percentuali. In linea, dunque, con il gruppo dei sondaggisti che registrano un distacco intorno ai 4-5 punti. La stessa operazione, più o meno, può essere compiuta con tutti gli altri istituti di ricerca che vedono il distacco di Obama in doppia cifra.
Se, dunque, a livello nazionale, lo svantaggio di McCain non è così terribile come viene dipinto (fateci caso, ma quasi tutti i sondaggisti del primo gruppo sono legati a testate che stanno facendo campagna pro-Obama fin dall’inizio del ciclo elettorale), allora non è fantascientifico affermare che il candidato repubblicano ha qualche speranza di poter invertire la dinamica della corsa. È già accaduto in passato, infatti, che tra i sondaggi condotti a metà ottobre e i risultati reali delle elezioni ci fosse una differenza, anche considerevole.
Prendiamo la serie storica di Gallup, che ci consente di andare abbastanza indietro con gli anni. Nel 2004, alla metà di ottobre, Bush Jr. aveva 8 punti di vantaggio su John Kerry (avrebbe poi vinto con un margine del 3%). Nel 2000, sempre George W., era in fuga con un distacco di 11 punti su Al Gore (sarebbe poi finita al fotofinish in Florida, con Bush indietro nel voto popolare nazionale). Nel 1996, sempre a metà ottobre, Bill Clinton aveva quasi 20 punti di vantaggio su Bob Dole, ma avrebbe visto questo margine ridursi di oltre la metà. Nel 1992, addirittura, Bush Sr. era davanti e Bill Clinton inseguiva a 18 punti percentuali di distanza. Com’è andata a finire lo ricordiamo tutti. E anche tornando più indietro negli anni le sorprese non mancano. A metà ottobre, nel 1980, Jimmy Carter aveva 5 punti di vantaggio su Ronald Reagan (che vinse di 10). Nel 1976, sempre Carter conduceva con un distacco di 6 punti (poi ridotti a 2 nel giorno delle elezioni). Nel 1968, Richard Nixon era davanti di quasi 10 punti rispetto a Hubert Humphrey (e vinse con meno dell’1% di margine).
La storia degli Stati Uniti, insomma, ci insegna che nelle ultime tre settimane di campagna elettorale sono stati sovvertiti vantaggi anche più consistenti di quello di cui oggi, probabilmente, gode Obama nei confronti di McCain. Il vero problema del candidato repubblicano, invece, sono i sondaggi condotti negli swing-states vinti da Bush nel 2004 (Nevada, Colorado, New Mexico, Florida, North Carolina, Virginia, Missouri, Ohio). In quasi tutti questi stati, il trend delle ultime settimane sembra favorire Obama. E McCain, se vuole arrivare alla Casa Bianca, deve vincerli quasi tutti.
(domani in edicola su Liberal)
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