L’ultima spiaggia. Ma anche la prima. E’ uno strano debutto, quello di Rudy Giuliani, nella lunga corsa per la nomination repubblicana alla Casa Bianca. Fino ad oggi, infatti, l’ex sindaco di New York ha praticamente snobbato tutte le elezioni primarie di gennaio, concentrando le proprie risorse – umane e finanziarie – proprio nel Sunshine State, confidando in una vittoria che potesse servirgli da trampolino di lancio per le grandi sfide del Super Tuesday (5 febbraio). Una strategia rischiosa, criticata quasi all’unanimità da analisti e political junkies, ma che per lunghi tratti del 2007 è sembrata funzionare alla perfezione.
Sempre in vantaggio nei sondaggi nazionali, l’America’s Mayor era parso potersi sbarazzare con facilità degli avversari che, mese dopo mese, insidiavano il suo status di front-runner. Prima John McCain, che in primavera sembrava essere affondato sotto il peso di uno scarso fund-raising e degli eterni dubbi che il suo nome solleva nella base del partito. Poi Fred Thompson, il reaganiano duro e puro sceso in campo quasi controvoglia, che durante l’estate sembrava il solo candidato in grado di scalfire la superiorità di Giuliani, ma che non era mai riuscito a decollare. E ancora Mike Huckabee, il campione indiscusso della destra evangelica e dei social conservatives, brillante e simpatico nei dibattiti televisivi e nei comizi elettorali, ma le cui posizioni in politica estera e in economia assomigliavano più a quelle di Jimmy Carter che a quelle di Ronald Reagan. Infine Mitt Romney, il mormone del “Taxachussets”, i cui flip-flop sulle questioni etiche e in politica economica sollevavano più di un dubbio tra i simpatizzanti repubblicani, costringendolo ad arrancare in ogni sondaggio nazionale, malgrado il sostegno massiccio dell’establishment del partito e dei think-tank d’area.
Il calcolo di Rudy era azzardato, ma lineare. Tolto di mezzo McCain, soltanto Romney aveva il denaro e gli endorsement sufficienti per contrastare la sua vittoria. E Romney aveva scelto una strategia “classica” (almeno per gli ultimi trent’anni di politica americana): puntare forte su Iowa e New Hampshire, costruire un momentum sufficiente per tenere alto il livello del fund-raising nelle settimane successive e crescere abbastanza nei sondaggi per arrivare in una posizione di forza al Super Tuesday. Così Giuliani ha scelto la strategia esattamente opposta: ignorare gli early states (anche se un tentativo, verso novembre, Rudy lo ha fatto in New Hampshire), passare indenne in South Carolina sfruttando le divisioni in campo conservatore, vincere la Florida ed esplodere definitivamente nel Super Tuesday, soprattutto nei grandi stati del nordest che sembravano strutturalmente a lui più congeniali, come New York, New Jersey e Connecticut.
Contemporaneamente, Giuliani doveva risolvere il suo “vero” problema, quello di essere considerato il più liberal dei candidati repubblicani in lizza. E non è stata una strategia di riposizionamento semplice. Già abbastanza a destra in politica estera, Rudy ha presentato un piano di tagli fiscali mastodontico (il 4% del pil) per avvicinarsi alla componente più liberista del partito. Insieme al sostegno del “papà della flat tax”, Steve Forbes, con lui fin dall’inizio, questa aggressiva politica anti-tasse gli è fruttata il sostegno di Grover Norquist degli Americans for Tax Reform, oltre che dell’influente think-tank Club for Growth. Per far dimenticare le sue posizioni pro-choice e non pregiudizialmente contrarie al matrimonio gay, poi, Giuliani ha scelto – anche in questo caso –la strada opposta a quella di Romney: invece di cambiare idea da un giorno all’altro, ha provato a spiegare agli elettori che le sue posizioni personali non gli avrebbero impedito di nominare alla Corte Suprema giudici contrari a quelle “reinterpretazioni” della Costituzione che avevano portato alla legalizzazione dell’aborto (“scrict constructionists judges”).
Tutti gli elementi necessari perché la strategia di Giuliani prendesse corpo si sono, più o meno, concretizzati. Il campo conservatore del partito repubblicano, almeno fino all’abbandono di Thompson, è rimasto abbastanza frammentato. A livello nazionale ancora non c’è un chiaro front-runner. Romney non è riuscito, in Iowa e New Hampshire, a costruire un momentum significativo, anzi ha perso entrambi in gli stati. I fiscal conservatives sono schierati, in modo abbastanza compatto, nel fronte dell’ex sindaco di New York. Le critiche dei social conservatives si sono, tutto sommato, attenuate, soprattutto dopo l’endorsement di Pat Robertson. Eppure, a meno di ventiquattr’ore dal momento decisivo, le speranze per Giuliani di conquistare la nomination repubblicana sembrano ormai quasi inesistenti. Gli scommettitori del mercato virtuale di InTrade gli assegnano soltanto il 7% di possibilità di vittoria (McCain ha il 55% e Romney il 35%); nei sondaggi nazionali è ormai quarto (dietro a McCain, Huckabee e Romney) con una media del 14% (nei primi mesi del 2007 sfiorava il 40% ed è rimasto intorno al 30% fino a dicembre); in Florida, nelle ultime due settimane, è passato da un solido primo posto ad una stentata terza posizione (sempre dietro Romney e McCain). Cosa è andato storto, allora?
A parte i rischi strutturali nella sua strategia, sprezzante della conventional wisdom più recente, Giuliani ha reagito con troppa lentezza all’incredibile ritorno di fiamma di McCain, che all’inizio di dicembre veleggiava malinconicamente alle spalle di tutti gli altri candidati, senza denaro e senza speranze. Contando su un campo conservatore frammentato, Rudy si è improvvisamente ritrovato a dover contrastare un avversario che pescava elettori nella sua stessa constituency, quella dei repubblicani (e di qualche indipendente) disposti a rinunciare all’ortodossia della rivoluzione conservatrice pur di evitare il ritorno della Dinastia Clinton alla Casa Bianca. Anche le alterne sorti di Hillary Rodham Clinton, messa in difficoltà da Barack Obama più del previsto, hanno frenato la rincorsa di Rudy, che aveva fatto di tutto per accreditarsi come l’anti-Billary per eccellenza. Giuliani avrebbe avuto partita facile in uno scontro a due con Huckabee, ottime speranze in uno scontro a tre con Romney e Huckabee, buone speranze in uno scontro a due con Romney, ma ha veramente poche speranze in uno scontro a tre con Romney e McCain. Ed è proprio questo il tipo di sfida che si sta delineando in Florida.
In caso di sconfitta nel Sunshine State – e a maggior ragione in caso di terzo posto (come quello che gli assegnano oggi i sondaggi) – la candidatura di Rudy Giuliani soffrirebbe un colpo molto probabilmente mortale, anche se dalle sue parti continuano a giurare di volere in ogni caso arrivare al Super Tuesday. Ma non si tratterebbe soltanto di uno schiaffo alle ambizioni dell’America’s Mayor. In caso di una sua vittoria alle primarie, infatti, i repubblicani avrebbero avuto la possibilità di cambiare la dinamica di una corsa che, a meno di clamorosi sviluppi nei prossimi mesi, sembra destinata a concludersi con il ritorno dei democratici alla Casa Bianca. Né McCain, né tantomeno Romney, sembrano infatti in grado di rimettere in gioco quel numero di blue states in cui l’ex sindaco di New York avrebbe potuto combattere, fino all’ultimo giorno, contro Barack Obama e soprattutto Hillary Clinton.
Senza Rudy, il New Jersey e la Pennsylvania (con i loro 37 voti elettorali) resterebbero, per l’ennesima volta, nel libro dei sogni del GOP. E con il Nevada, il New Mexico, il Colorado, l’Arizona e la Virginia che sembrano scivolare sempre più velocemente nella colonna dei purple states, ai repubblicani (di tutto il pianeta) non resterebbe che sperare in un miracolo. Proprio come quello di cui Rudy ha bisogno oggi.
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