In edicola insieme a Libero, a partire da oggi, "I sindaci in rosso", l'ultimo volume della collana "Manuali di conversazione politica" curata da Vittorio Feltri e Renato Brunetta. Anche questa volta, si tratta di un libro molto interessante e di facile lettura, che analizza i disastri combinati in alcune città italiane dai sindaci della sinistra più sgangherata del pianeta. Dopo una "guida alla lettura" firmata da Tino Oldani e un capitolo dedicato alla regione Umbria (di Gabriella Mecucci), parte il fuoco di fila indirizzato sui primi cittadini rossi: Giuliano Cazzola su Sergio Cofferati (Bologna); Stefano Bisi su Maurizio Cenni (Siena); Andrea Costa su Sergio Chiamparino (Torino); Tino Oldani su Leonardo Domenici (Firenze); Giacomo Di Capua su Massimo Cacciari (Venezia); Antonio Guizzi su Antonio Bassolino (prima Napoli e poi Campania); Michele Ruschioni e Arturo Diaconale concludono il libro con due capitoli dedicati al sindaco di Roma, Walter Veltroni. Qui sotto, in esclusiva mondiale (anzi, galattica!), pubblichiamo l'introduzione di Renato Brunetta. Appuntamento a domani per la prefazione di Vittorio Feltri.
Sunque, i sindaci rossi sono certamente un bluff. Dunque, come dimostrano le verifiche sul campo fatte dagli autori di questo libro, il mito dei sindaci rossi fa acqua da tutte le parti: il loro presunto buongoverno, sbandierato per anni da media compiacenti, in realtà è un malgoverno clientelare sistematico e patologico della spesa pubblica locale. Dunque, assoluzione per il centrodestra? Nemmeno per sogno. Anzi, diciamolo chiaro: il centrodestra ha problemi ancora più seri. Ed è ancora più colpevole. Ciò spiega perché, a dispetto dei loro bluff, i sindaci rossi vincono e continuano a vincere le elezioni amministrative con ampi margini di consenso. E questo, piaccia o meno, contribuisce a consolidare nel Paese l’egemonia della sinistra comunista, postcomunista, cattolico dossettiana, mastelliana, clientelare. Se non affronta di petto questo nodo, il centrodestra non riuscirà mai a governare il Paese anche se torna a Palazzo Chigi. La riforma del Titolo V della Costituzione (quella del centrosinistra, del 2001, varata con tre voti di scarto), per quanto insufficiente sotto il profilo federalista, sposta comunque grandi quote di potere (spesa pubblica, competenze, decisioni...) verso gli enti locali. Senza la collaborazione dei Comuni, delle Province e delle Regioni, molte decisioni del governo centrale restano sulla carta o vengono vanificate. Sempre. E la mitica stanza dei bottoni di Palazzo Chigi scopre di avere i fili tagliati. Con Berlusconi è già successo: poteva anche varare la migliore legge possibile (dalla Finanziaria, alla legge obbiettivo, alla riforma Biagi e così via...), ma poi se la Conferenza Stato-Regioni si metteva di traverso, o le singole regioni ricorrevano alla Corte costituzionale, il che si è verificato puntualmente dopo la vittoria del centrosinistra in 12 Regioni su 14, non c’era niente da fare (oppure si dovevano accettare pesanti compromessi e condizionamenti).
La buona legge restava solo un pezzo di carta straccia, oppure veniva piegata alle esigenze della sinistra delle regioni che, sul territorio se lo rivendeva come sua grande vittoria. E la loro egemonia si confermava come dura realtà: sacrifici al centro, tanti soldi e tanto potere in periferia! Sindaci e governatori rossi, nonostante i loro bluff, hanno dimostrato e dimostrano di avere alle spalle – prima ancora dei voti popolari – una scuola, un disegno strategico e un metodo per realizzarlo. Esattamente ciò che è mancato e manca al centrodestra. La scuola non è certo quella delle Frattocchie, bensì quella del training a livello locale, dove si imparano moltissime cose, tutte indispensabili per forgiare una classe dirigente. Si impara a misurarsi ogni giorno con l’avversario politico, sapendo che si può vincere e brindare, ma anche perdere e sputare sangue. Si impara a coniugare la propria battaglia politica con i bisogni della gente, (magari anche solo della propria gente), con le leggi e le procedure istituzionali e burocratiche. Di più: si impara a conquistare il consenso della società, a valutarne l’importanza, a conservarlo o a perderlo. I sindaci rossi non sono piovuti dal cielo fatti e finiti: il loro cursus politico descritto in queste pagine, dimostra che la gavetta sul piano locale l’hanno fatta tutti. E questa gavetta, bene o male, si è rivelata una tessera importante assieme a tutte le altre, come giornali, Tv, banche, sindacati, magistratura, cultura, teatro...) per la costruzione dell’egemonia politica. Tutt’altra musica nel centrodestra. Può vincere le elezioni politiche (o perderle di uno 0,6 per mille), ma soccombe di brutto in quelle locali. Il ripetersi di questo up and down è costante e ne facilita la spiegazione.
La Casa delle libertà, pur essendo una coalizione, registra le oscillazioni tipiche di un grande partito di opinione di massa. Ma l’oscillazione non è provocata da tutti i coalizzati. Al suo interno, tre partiti (An, Udc e Lega) prendono sempre, più o meno, gli stessi voti, sia alle amministrative che alle politiche. E’ come se vi fosse un rapporto matematico tra il loro radicamento sul territorio, fatto di consiglieri e assessori, e il numero dei voti. Per Forza Italia, non è così: è il partito maggiore, ma anche quello con la maggiore connotazione di “partito d’opinione di massa”, quasi del tutto privo di radicamento strutturale sul territorio. Prende voti alle politiche (due volte, nel 1994 e nel 2001, sufficienti per vincere, ma, anche, nel ’96 e nel 2006!!) perché entra in scena il magnetismo elettorale di Berlusconi e la “scelta di campo”. Ma nelle amministrative l’elettore non trova più il Cavaliere sulla scheda, bensì candidati improbabili, che il più delle volte non ha mai visto né sentito nominare, e magari inventati all’ultimo minuto dopo indecenti risse nella casa delle libertà. E questo non va affatto bene in un sistema che predica la sussidiarietà e il federalismo, un maggiore contatto tra amministratori locali e cittadini, con un inevitabile maggiore controllo di questi ultimi sui programmi e sugli eletti. In prospettiva, si tratta, quasi sempre, di un disastro annunciato, anche se, per fortuna, le eccezioni non mancano, ma che confermano la regola! Purtroppo.
Può perfino sembrare facile mettere alla berlina il bluff dei sindaci rossi (anche se nessuno, per la verità, l’aveva fatto finora). Ma si deve essere anche amaramente consapevoli che il centrodestra è in condizioni ancora peggiori degli avversari, salvo le rare eccezioni che si trovano nel Nord e in qualche realtà nel sud. Eccezioni, si badi bene, frutto di individualità straordinarie o di storie che vengono da lontano, quasi mai prodotte nella nuova stagione politica. Gli elettori, che non sono fessi, lo sanno, e votano di conseguenza. E fanno pure bene! Serve, dunque, con urgenza una nuova classe dirigente.
Anche una sceneggiatura da Oscar, diventa un flop senza gli interpreti azzeccati. Così, anche la migliore strategia politica per contrastare l’egemonia della sinistra è destinata a restare sulla carta se non riesce a camminare sulle gambe degli uomini giusti. Di Berlusconi ce n’è uno solo: all’orizzonte non se ne vedono altri. Ma dove pescare allora nuovi dirigenti? Il popolo della partita Iva, elettore di riferimento del centrodestra, non ha mai mostrato molta
voglia di dedicarsi in prima persona alla politica: nelle amministrazioni locali le procedure di una decisione che in qualsiasi azienda richiederebbe pochi minuti, sono lunghe e defatiganti. Se un artigiano o un professionista ritiene che fare politica significa “perdere tempo”, è difficile dargli torto. Su chi puntare, allora? La scuola, di sinistra, è, in gran parte, persa. L’università e la magistratura, non ne parliamo. Gli intellettuali e i giornalisti sono per definizione di sinistra. Siamo messi bene!
Ma noi non ci arrendiamo: la sinistra comunista ha impiegato due-tre generazioni per costruire la sua egemonia; ma come tutte le imprese umane, anche un’egemonia politica può essere prima smascherata nei suoi bluff, poi intaccata, lavorata ai fianchi e infine sconfitta. Basta crederci, e aggredirla proprio là dove nasce. Ci vuole solo un po’ di tempo e molta determinazione. Nei quartieri, nei consigli comunali, nelle camere di commercio, nei consigli scolastici, nei sindacati, nell’associazionismo d’impresa, in quello del volontariato, in quello culturale, nelle cooperative, nelle banche locali, nelle fondazioni, negli enti collaterali del turismo, piuttosto che della bonifica o della promozione della patata novella o dell’uva coglionella. Ma anche nella scuola, nell’Università, nel giovane giornalismo, purchè si riesca a parlare con loro, e dare loro una prospettiva, un progetto. Farli sentire parte di una società libera ma non fessa, capace di prendere il potere, ma anche di gestirlo con efficienza, correttezza, per il bene di tutti. Ecco, chi ha la responsabilità della maggiore forza politica del centrodestra deve svegliarsi e prenderne atto in fretta e mettere mano a una riforma strutturale del partito: per radicarlo sul territorio, dargli un metodo di lavoro (come minimo: più democrazia e meno presidenzialismo deteriore dei tanti “cloni” del capo) e obiettivi concreti, di connessione con le rappresentanze, economico e sociali, con le reti, con la società di mezzo, tali da potere essere verificati in tempi certi.
Recuperare consensi e credibilità sarà un’impresa faticosa e non sempre gratificante, di lunga durata. Ma è indispensabile fare il primo passo. Avere l’ambizione di proporsi in futuro come forza di governo nazionale e locale credibile e efficace, dove la decisione di un premier non sia smentita e resa vana dal “niet” di un sindaco rosso, è un buon punto di partenza. Noi abbiamo un’ambizione in più: partecipare alla sfida per vincerla. E mandare a casa quanto prima i sindaci rossi. Il re è certamente nudo, e noi lo diciamo, in questo libro, con feroce chiarezza. Ma al momento, attorno, c’è solo il vuoto.
Renato Brunetta, da "I sindaci rossi", in edicola insieme a Libero da martedì 17 ottobre
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