THEODORE ROOSEVELT (1912)
Tutto inizia con un alce. Un alce maschio, per la precisione. O un “bull moose”, come gli americani chiamano il gigantesco cervide che ogni anno, in Siberia, Scandinavia e Alaska, uccide più uomini dei grizzlies. È un “bull moose”, infatti, il simbolo del Progressive Party creato nel 1912 da Theodore Roosevelt dopo il suo divorzio dal partito repubblicano. Ed è sotto l’insegna dell’alce che Roosevelt presenta una piattaforma programmatica – “A Contract with the People” – in cui, per la prima volta nella storia statunitense, è presente un piano per garantire una copertura sanitaria universale a tutti i cittadini ameriacani.
Roosevelt, diventato nel 1901 (a 42 anni) il più giovane presidente degli Stati Uniti, dopo l’assassinio di William McKinley (di cui era il vice), viene rieletto con un ampio margine nel 1904, ma nel 1908 decide di non correre per un terzo mandato, lasciando via libera a William H. Taft e partendo per un lunghissimo safari in Africa (oltre 10mila animali uccisi, tra cui sei rinoceronti bianchi) per conto del National Museum. Neppure il brivido della caccia grossa, però, è sufficiente per guarire Teddy dal virus della politica. Taft, secondo lui, ha impresso al GOP una piega troppo smaccatamente pro-business. Mentre il partito – e l’America – hanno un disperato bisogno di recuperare la propria anima populista. Roosevelt sfida Taft alle primarie repubblicane, ma la sua campagna elettorale parte troppo in ritardo, quando il presidente può già contare sull’appoggio dell’establishment del partito. Così, quando alla Convention di Chicago Teddy si rende conto di non avere abbastanza delegati per poter sconfiggere Taft, si decide a compiere il grande salto: diventa il candidato del Progressive Party e punta forte sul sogno della “sanità per tutti”, che fino a quel momento aveva fatto capolino soltanto in qualche pamphlet socialista di inizio secolo.
Purtroppo per Roosevelt, alle primarie i democratici scelgono il loro progressista migliore, Woodrow Wilson. E il ticket del Bull Moose Party, pur conquistando più voti elettorali di quasiasi altro terzo partito nella storia americana (prima e dopo), non va oltre il 27% del voto popolare. Meglio del GOP (fermo al 23%), ma molto peggio dei democratici, che schizzano al 42%, ringraziano sentitamente e portano Wilson alla Casa Bianca. Per qualche decennio, di riforma sanitaria non si sentirà più parlare.
FRANKLIN DELANO ROOSEVELT (1935)
Sarà un lontano cugino di Theodore Roosevelt, Franklin Delano, a riportare il tema della sanità “pubblica” sul tavolo della politica statunitense. Dopo l’orgia interventista dei primi “100 giorni” del suo primo mandato, FDR deve aspettare le elezioni di mid-term del 1934 – in cui i democratici conquistano solide maggioranze sia alla Camera che al Senato – per dare corpo a una struttura legislativa compiuta del New Deal. Tra queste misure ci sono la creazione della Work Progress Administration (Wpa), un’agenzia nazionale che darà lavoro (“scava la buca, riempi la buca”) a quasi due milioni di americani, il Wagner Act con cui ai lavoratori viene concesso il diritto federale di organizzarsi in sindacati, scioperare e firmare contratti collettivi e, soprattutto, il Social Security Act con cui viene creata quella rete di sicurezza sociale (e di “dipendenti” dal welfare) che consentirà ai democratici di governare per decenni.
La “quarta gamba” della seconda ondata New Deal, in teoria, dovrebbe essere un piano nazionale di assicurazione sanitaria finanziato con denaro pubblico. Roosevelt sceglie anche i due “architetti” più adatti per dare vita al suo progetto: Edgar Sydenstricker, capo del dipartimento di statistica del Public Health Service (Phs) e Isidore S. Falk, che lavora al Committe on Economic Security creato qualche mese prima dal presidente. Se, però, il New Deal del 1933 è stato approvato praticamente senza opposizione, quello del 1935 incontra la durissima resistenza della classe imprenditoriale, di quello che è rimasto del partito repubblicano, di un manipolo di combattivi conservatori democratici (Al Smith su tutti) e di alcune organizzazioni come la American Liberty League. Sul piano sanitario, poi, Roosevelt incontra un’opposizione addirittura feroce, quella della American Medical Association (Ama). L’associazione dei medici americani, sotto la guida di Morris Fishbein, parla del progetto come di «un passo risoluto verso il comunismo o il totalitarismo». Una definizione che scuote l’opinione pubblica e molti membri del Congresso. È proprio il capo del Committe on Economic Security, Frances Perkins, a suggerire a Roosevelt un passo indietro, per paura che l’opposizione crescente al piano sanitario possa compromettere tutto il Social Security Act. La riforma, ancora una volta, è rinviata a data da destinarsi.
HARRY TRUMAN (1945)
Dopo la morte di Franklin Delano Roosevelt, avvenuta pochi mesi dopo la rielezione del 1944, arriva alla Casa Bianca un altro tenace sostenitore di un piano di sanità pubblica: Harry Truman. Ma dopo il tentativo fallito da FDR e la fine della seconda guerra mondiale l’argomento è ormai diventato uno spartiacque ideologico. Per i conservatori, la resistenza contro l’introduzione della “socialized medicine” è un elemento centrale nella montante battaglia contro il comunismo internazionale. Per i progressisti, è addirittura impensabile che gli Stati Uniti non siano ancora dotati di un sistema sanitario pubblico come quasi tutti i paesi europei.
Il piano di Truman del 1945 è più “estremo” di quello di Roosevelt, perché prevede un singolo sistema universale, pubblico e valido per tutti, non soltanto per le classi più bisognose. Il Congresso reagisce piuttosto freddamente. Il leader repubblicano del Senato, Robert Taft (il figlio dell’ex presidente William H.), non usa giri di parole: «Lo considero un progetto socialista. Anzi, credo che sia la misura più socialista mai sbarcata al Congresso degli Stati Uniti». Per Taft, e per i repubblicani in genere, questa «assicurazione sanitaria obbligatoria» esce direttamente dalle pieghe della costituzione sovietica. E anche l’Ama, la American Hospital Association, la American Bar Association e gran parte della stampa nazionale disapprovano con forza il piano di Truman, che stenta a decollare sia alla Camera che al Senato.
Alle elezioni di mid-term del 1946, poi, il GOP riesce a riconquistare il controllo del Congresso. E frena il progetto fino alle presidenziali del 1948. Dopo la (risicata) vittoria di Truman, però, sembra proprio che l’Armageddon sia sul punto di compiersi. L’associazione dei medici americani e i repubblicani si preparano al peggio, continuando denunciare la potenziale deriva comunista degli Stati Uniti. In un volantino distribuito dall’Ama, viene citata una frase di Lenin che definisce la “socialized medicine” come l’architrave di uno stato socialista. Stavolta la sorte aiuta gli oppositori di Truman: pochi mesi dopo la re-introduzione del bill al Congresso, infatti, scoppia la Guerra di Corea. Per qualche anno gli americani, di comunismo (vero o presunto), non avranno nessuna intenzione di sentir parlare. E non sarà certo Truman a stuzzicarli sull’argomento.
LYNDON JOHNSON (1965)
Pur senza riuscire a portare a termine la riforma sanitaria, Truman riesce comunque a riportare l’argomento al centro del dibattito politico nazionale e a renderlo parte permanente delle piattaforme elettorali democratiche. Il momento giusto per raccogliere questa eredità arriva dopo l’elezione “a valanga” di Lyndon Johnson nel 1964. Sull’onda delle elezioni presidenziali, i repubblicani al Congresso sono ridotti ai minimi termini (e in piena ricostruzione ideologica dopo la rivoluzione conservatrice goldwateriana) e i democratici possono contare su oltre 150 seggi di vantaggio alla Camera (295 a 140) e su una maggioranza di 68 a 32 al Senato. Perfino in una situazione tanto favorevole, Johnson si rende conto che deve agire in fretta, se vuole inserire la sanità nel suo progetto di Great Society.
Il presidente, a differenza dei suoi predecessori, rinuncia fin dall’inizio a pretese “universali” per concentrarsi sulle fasce sociali più bisognose: gli anziani e i poveri. Cambiando in questo modo i termini del dibattito, malgrado la forte resistenza repubblicana e dell’American Medical Association Johnson riesce ad evitare gli scogli parlamentari più insidiosi, dimostrandosi molto abile nel negoziare un compromesso efficace. Il presidente concede qualcosa ai dottori (soprattutto rimborsi statali per le loro prestazioni), agli ospedali (rimborsi e copertura dei costi) e ai repubblicani (il passaggio da un piano universale ad uno volontario, anche se finanziato dal governo). I frutti di questa mediazione sono il Medicare, che garantisce la copertura assicurativa sanitaria ai cittadini di età superiore ai 65 anni, e il Medicaid, che controlla i piani sanitari amministrati dai singoli stati. I due provvedimenti vengono approvati come emendamenti al Social Security Act e diventano legge durante una cerimonia ufficiale alla Casa Bianca, il 30 luglio del 1965, quando il Johnson firma i provvedimenti consegnando la prima tessera Medicare all’ex presidente Truman, che ha da poco compiuto 81 anni. Dopo trent’anni di sconfitte, i democratici possono finalmente celebrare una vittoria. Ma il loro sogno è ancora molto lontano dall’essere realizzato.
BILL CLINTON (1993)
Nel 1992, dopo molti decenni di stallo (compreso un tentativo fallito di Ted Kennedy durante la presidenza di Jimmy Carter), Bill Clinton riporta la riforma sanitaria sotto i riflettori della politica nazionale. E ne fa uno dei suoi cavalli di battaglia per la campagna elettorale che lo porta alla Casa Bianca (grazie, soprattutto, a Ross Perot e alle divisioni interne al movimento conservatore). Il piano di Clinton è ambizioso: garantire una copertura sanitaria universale a tutti gli americani. Nel gennaio del 1993, subito dopo l’Inauguration Day, Slick Willie crea una task-force per affrontare il problema e ha la brillante idea di affidarla alla moglie Hilllary. La mossa, unita alla fissazione per la segretezza della First Lady, porta l’amministrazione in tribunale, con l’accusa di aver violato i requisiti minimi di trasparenza governativa stabiliti dal Federal Advisory Committee Act (Faca). I guidici salvano il “dinamico duo” per un pelo, ma l’avventura sembra nascere fin dall’inizio sotto un cattivo presagio.
Il “discorso alla nazione” del presidente, di fronte alle sessioni congiunte di Camera e Senato, nel 22 settembre 1993, non sposta di molto l’opposizione al progetto, che continua a crescere nel paese e al Congresso. La task force di Hillary partorisce un mostro di oltre mille pagine (vi ricorda qualcosa?) che cerca goffamente di conciliare il dna statalista del progetto con il tentativo di mantenere in vita una qualche forma di competizione nel sistema. Tra gli oppositori più attivi, oltre all’industria assicurativa e alle associazioni dei medici, c’è il Project for Republican Future di William Kristol, che inonda di fax i rappresentanti repubblicani al Congresso con “political memos” che diventano presto leggendari. La Health Insurance Association spende quasi 20 milioni di dollari per una serie di spot televisivi dove una coppia di mezza età (Harry e Louise) compie mille peripezie per affontare la complessità burocratica di quello che la stampa ha ormai ribattezzato “Hillarycare”. E anche i mass media di orientamento liberal - Washington Post e New York Times, ma anche CBS News e CNN - iniziano a chiedersi se la soluzione proposta dall’amministrazione Clinton sia effettivamente praticabile.
Le cose non vanno meglio al Congresso. Per senatore democratico Daniel Patrick Moynihan, «chiunque pensi che il piano di Clinton possa funzionare nel mondo reale, evidentemente non vive nel mondo reale». E molti democratici, invece di serrare i ranghi dietro la proposta originale della Casa Bianca, iniziano a proporre piani alternativi. Nell’agosto del 1994, il leader democratico del Senato, George J. Mitchell, elabora un compromesso che esclude dal piano le piccole imprese, cercando di vincere l’ostruzionismo repubblicano e le perplessità dei democratici più conservatori. Ma il tentativo va a vuoto. E qualche settimana più tardi Mitchell si arrende, dichiarando che la riforma sanitaria avrebbe dovuto aspettare il prossimo Congresso.
Le elezioni di mid-term del novembre 1994 diventano un referendum sul “big government” e il GOP ha buon gioco nel denunciare l’Hillarycare come l’esempio più vistoso dello statalismo liberal che pervade l’amministrazione Clinton. Il risultato di questo referendum è nettissimo. Spinti dal Contract with America di Newt Gingrich, i repubblicani stravincono e conquistano il controllo di Camera e Senato per la prima volta dal 1954. Per sopravvivere politicamente, Clinton è costretto ad una svolta “centrista” che gli garantisce la rielezione nel 1996. Ma di riforma sanitaria, dalle parti di Pennsylvania Avenue, non si sentirà più parlare. Almeno fino a Barack H. Obama.
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