È stata una notte più breve del previsto, quella che ha visto consumarsi in Massachusetts la più clamorosa batosta elettorale ai danni del partito democratico degli ultimi quindici anni. Già alle 9 della sera (le 3 del mattino, in Italia), Fox News ha assegnato la vittoria al candidato repubblicano, Scott Brown. Gli altri network hanno aspettato un po’ più a lungo, ma quando, verso le 10, anche Associated Press ha effettuato la chiamata, la percezione della disfatta democratica era ormai considerata un dato di fatto. Poi, da lì a qualche minuto, l’evento storico si è compiuto. La candidata democratica Marta Coakley ha riconosciuto la sconfitta, il quartier generale del Gop (già su di giri da qualche ora) è esploso come un petardo nella notte del 4 luglio e Scott Brown è diventato il nuovo senatore junior del Commonwealth del Massachusetts, conquistando il seggio che fu prima di John F. Kennedy e poi di suo fratello Ted, saldamente in mano democratica da oltre mezzo secolo. Brown, soprattutto, diventa il 41° voto repubblicano al Senato, togliendo al partito del presidente Obama quel preziosissimo sessantesimo seggio che, secondo i regolamenti del Congresso Usa, consente alla maggioranza di aggirare qualsiasi pratica ostruzionistica dell’opposizione.
Le due settimane più lunghe di Barack
Tutto era iniziato il 4 gennaio, quando il sondaggista Scott Rasmussen ha pubblicato una sorprendente ricerca sulle elezioni suppletive del Massachusetts, fino a quel momento considerate poco più di una formalità per i democratici. Il sondaggio di Rasmussen, invece, registrava un vantaggio per la Coakley inferiore ai dieci punti percentuali (9, per l’esattezza) che aveva in un primo momento provocato l’ilarità degli analisti, soprattutto democratici, che consideravano del tutto irrealistico uno scarto così ridotto. Per comprendere pienamente l’entità dell’evento sismico che si è verificato nella notte tra martedì e mercoledì, bisogna fare un breve excursus nella storia elettorale dello stato nel dopoguerra. In quella che i conservatori chiamano con disprezzo People’s Republic of Massachusetts (Repubblica Popolare del Massachusetts), JFK ha vinto a fatica le elezioni per il Senato nel 1952 (51-48), ma da quella data in poi il distacco tra democratici e repubblicani è sempre stato elevatissimo. Tanto che il risultato migliore per il Gop l’aveva ottenuto Mitt Romney (poi diventato governatore) che nel 1994 - anno favorevolissimo al Gop - aveva perso contro Ted Kennedy con “soli” 17 punti percentuali di scarto. Nel seggio non di proprietà diretta della dinastia Kennedy, invece, John Kerry nel 2002 è riuscito addirittura a correre senza oppositori. E appena un anno fa, Kerry aveva sconfitto Jeff Beatty 65-30: trentacinque punti percentuali e oltre un milione di voti di vantaggio.
Il panico (tardivo) dei democratici
Data per scontata la vittoria, i democratici hanno praticamente fermato la loro poderosa macchina elettorale in Massachusetts appena dopo la vittoria della Coakley alle primarie. Ma non hanno tenuto conto di almeno due fattori: la crescente opposizione nazionale al piano di riforma sanitario faticosamente approvato dal Congresso e la protesta montante della popolazione nei confronti della politica economica della Casa Bianca, maturata con il dilagare dei Tea Party in ogni angolo della nazione (Massachusetts compreso). Il sondaggio di Rasmussen è stato frettolosamente archiviato come una bizzarra “anomalia statistica”. E i democratici hanno continuato a dormire sonni ancora più tranquilli. L’incubo, invece, era appena iniziato.
Ad appena una settimana dal voto, infatti, è arrivato un altro fulmine a ciel sereno: secondo il sondaggista democratico Tom Jensen di Public Policy Polling, infatti, Brown era addirittura davanti alla Coakley (anche se solo dell’1%) e stava riuscendo a monopolizzare il voto degli indipendenti, strappando addirittura il consenso di qualche elettore tradizionalmente democratico. Se il partito di Obama aveva avuto buon gioco nel definire Rasmussen come un sondaggista vicino ai repubblicani (affermazione non del tutto corretta, per la verità), Jensen non poteva certo essere considerato un “guastatore” del nemico, vista la sua storica vicinanza, anche professionale, con il partito democratico. E il fulmine si è presto trasformato in un acquazzone fuori stagione.
Arrivano i rinforzi da Washington
La Casa Bianca e i vertici del partito, consapevoli che una sconfitta in Massachusetts avrebbe tolto alla maggioranza il 60° voto del Senato necessario a frenare ogni velleità di filibustering da parte del Gop, sono entrai immediatamente (si fa per dire) in emergency-mode. Bill Clinton e i suoi surrogati si sono precipitati nello stato a fare campagna per la Coakley. A ventiquattr’ore dall’apertura delle urne, si è scomodato addirittura il presidente, anche se già iniziavano a circolare memo interni dell’amministrazione che accusavano di inettitudine la candidata democratica e memo interni della campagna Coakley che accusavano la Casa Bianca di scarso impegno.
Mentre i repubblicani di tutti gli Stati Uniti si chiedevano, sbigottiti, se fosse davvero arrivato il momento della “liberazione” atteso da oltre mezzo secolo, gli attivisti dei Tea Party battevano lo stato palmo a palmo, sconfiggevano clamorosamente liberal e progressive proprio sui loro terreno preferito (guerrilla marketing, fundraising online e controllo dei social network) e smentivano ancora una volta chi li considera custodi un po’ ottusi della “purezza” conservatrice, appoggiando con tutta l’energia possibile un candidato in alcuni casi eterodosso rispetto al baricentro ideologico del movimento.
Il crollo verticale
Negli ultimi giorni della campagna elettorale, Brown inizia una surge statistica con pochi precedenti nella storia americana. I sondaggisti che registrano un vantaggio per Brown - a volte minimo, a volte più consistente - si moltiplicano. E perfino gli istituti di ricerca più vicini al partito democratico si arrendono all’ipotesi di una gara combattuta sul filo di lana. Un’eventualità, per il Massachusetts, semplicemente fantascientifica fino a un paio di settimane prima. In realtà, chiuse le urne e contati i voti, tutto è stato più semplice del previsto. Il turnout discreto dei democratici a Boston, provocato dal tentativo di “nazionalizzare” in extremis la sfida, è stato schiacciato dai numeri straordinari ottenuti dal Gop nei sobborghi di Bay State, dove il candidato repubblicano è riuscito non solo ad energizzare la base conservatrice, ma a smuovere la tradizionale apatia dell’elettorato “indipendente”, che si è spostato con percentuali “bulgare” dalla parte di Scott Brown, che alla fine ha vinto con 5 punti percentuali e oltre 100mila voti di distacco.
Ma qualsiasi considerazione locale scompare di fronte all’impatto di queste elezioni sul panorama politico nazionale. Dopo le sconfitte di novembre in Virginia e (soprattutto) New Jersey, Obama si trova di fronte a un ambiente politico estremamente ostile: il suo job approval è ormai stabilmente al di sotto della linea di galleggiamento del 50%; il suo partito perde regolarmente le sfide nel congressional generic ballot; la riforma sanitaria è a rischio; la sua politica ecomomica ha indici di approvazione che sfiorano il 30%; i potenziali candidati democratici alle elezioni di mid-term (incumbent compresi) fanno a gara nel ritirarsi dalla co,petizione; i repubblicani, che sembravano definitivamente usciti di gioco, sono più motivati e combattivi che mai; i Tea Party raccolgono libertarian, indipendenti e conservatori in un unico movimento di protesta anti-statalista, diffuso e sul piede di guerra. «La situazione, forse, è peggio di come ce le immaginavamo», ha ammesso ieri l’analista-blogger democratico Nate Silver, che fino all’ultimo minuto si rifiutava di credere all’eventualità di una vittoria repubblicana in Massachusetts. E il “peggio”, probabilmente, per Obama e i democratici deve ancora arrivare.
(domani in edicola su Liberal quotidiano)
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