Pubblichiamo un articolo di Marco Respinti, ospite (graditissimo) di The Right Nation, sulle elezioni suppletive in Massachusetts
Martedì nero per i Democratici statunitensi. Avrebbe dovuto essere la solita passeggiata di sempre e invece è stato un incubo. La vittoria del Repubblicano Scott Brown nelle elezioni suppletive per il Senato federale di Washington, che si sono volte martedì in Massachusetts, ha infatti non solo mandato all’aria certi giochetti politici “locali” vecchi e stantii, ma anzitutto e soprattutto lanciato alla Casa Bianca un nettissimo segnale di rivolta. Quella che potrebbe essere la fine della riforma del sistema sanitario nazionale fortemente voluta dal presidente Barack Hussein Obama parte infatti da qui, dal Massachusetts. Divenendo oggi il 41° dei senatori Repubblicani attualmente in carica, Brown infrange sugli scogli la maggioranza qualificata di 60 seggi che impedisce ogni ostruzionismo parlamentare. Per questo il Partito Repubblicano festeggia e il popolo conservatore gongola. Tenendo presente che, di tutto il castello di promesse mai mantenute, proprio la riforma sanitaria era ed è rimasta l’ultima speciosa arma retorica con cui la Casa Bianca cerca di mantenere la testa sopra la linea di galleggiamento, a solo un anno di distanza da quella montagna parolaia che nel novembre 2008 ha partorito il topolino Obama è opportuno che cronisti e commentatori inizino a rinfoderare la spocchia con cui da dodici mesi spadroneggiano nel nome di “Magic Barack”.
È dal 1952 che il seggio senatoriale ora conquistato da Brown stava inamovibilmente nelle mani del clan Kennedy, di JFK prima e dell’ineffabile “Ted” dopo; da trent’anni la rappresentanza del Massachusetts al Senato di Washington era un monolite monocolore Democratico, e pure ostaggio della componente più smaccatamente progressista del Partito Democratico. Che un Repubblicano come Brown abbia dunque infranto questa cortina di ferro è un fatto davvero eccezionale.
Per molti aspetti, Brown è un vir novus. Sì, in loco lo si conosce discretamente, le cronache mondane rimbalzano il suo nome da un bel po’, ma resta vero che per la politica di livello nazionale è ancora un “signor nessuno”. Che quindi sia un uomo così, più vicino alla gente di quanto s’immagini e più espressione del popolo di quanto si sospetti, a sbaragliare quelle gioiose macchine da guerra con ingranaggi ben oliati che in Massachusetts marciano alla guida di timonieri consumati (in tutti i sensi) e in una tornata elettorale tanto importante è un segnale politico di una forza straordinaria.
In poche settimane, il “parvenu” Brown ha polverizzato il “mito” che già manda cattivo odore di “Ted” Kennedy, ma soprattutto ha distrutto ciò che un uomo come lui ha per decenni rappresentato in politica. Vale a dire l’intrallazzo, il maneggionismo, l’inciucismo alternato volentieri al radicalismo ideologico, il binomio doppiopetto e sozzura, lo spregio della giustizia anzi del Paese intero in nome dei propri porci comodi, la politica annaffiata oltre ogni ragionevole soglia di tolleranza da caterve di denari viziati, vizianti e viziosi, nonché quella cosa da voltastomaco che è il vedere un fantastiliardario atteggiarsi a buon samaritano lasciando cadere dal vetro fumé della limousine qualche spicciolo per gli homeless, meglio-che-niente si dirà e invece no, la logica è che darne un po’ ai disperati li sottrae al fisco. Tipo Una poltrona per due, per intenderci.
Brown invece è un ruspantello di provincia, magari un po’ frescone ma piuttosto genuino, né ricco né povero, middle class come la maggior parte degli americani, proprietario e lavoratore, avvocato e militare, tocco di finto scandalo che non guasta mai e alla bisogna istinto politico dalla parte giusta. Mica san Giorgio cavaliere, ma oggi alla politica tutta basterebbero semplicemente uomini politici autentici, non dei superman. Dopo l’articolo su Brown comparso a firma del sottoscritto martedì su queste pagine, un gentile lettore mi ha raggiunto sul mezzo di comunicazione e relazione più à la page del momento, Facebook, laconicamente rimbrottandomi con un “Brown altro non è che un abortista moderato”. Vero, forse. A parte il fatto che oggi il suo istinto politico sembra averlo schierato mediamente più in linea con il mondo pro-life di quanto s’immagini, la cosa significativa da ricordare è che scegliendo lui il popolo del Massachusetts ha scelto di considerare mezzo pieno il bicchiere fino a oggi visto solo mezzo vuoto. Chi gielo va insomma a dire al popolo del Massachusetts, appesantito da 50 anni di Kennedy e da 30 di progressismo Democratico, che Brown non è (correggerei in “potrebbe anche forse non essere”) il top dei top?
L’impresa in cui Brown è riuscito è enorme. Ma è enorme soprattutto perché significa che dietro a uno Scott Brown, che è quello che è come tutti sono quello che sono, esiste un popolo di votanti pari a più della metà di chi martedì ha fisicamente votato alle urne il quale ha scelto di dire basta a Obama e ai Democratici. Come ignorare infatti che di tutti seggi che i Repubblicani avrebbero mai potuto conquistare in Massachusetts il primo a incrinare lo strapotere di una politica arrogante contro le persone e contro il Paese è quello che già fu di quel “Ted” Kenendy che nemmeno da morto, come di solito accade, ha fatto il miracolo, il “Ted” che per una vita si è battuto per quella riforma sanitaria che oggi la Casa Bianca sfoggia come un fiore all’occhiello e che proprio poco prima di passare a miglior vita l’ultimo Kennedy ha pubblicamente benedetto in Obama con il crisma della continuità progressista? Come non comprendere che avere mandato a casa il seggio di “Ted” significa avere già sconfitto la politica impopolare di Obama?
La vittoria di Brown è senza dubbio storica, sia come sia il futuro. Brown è riuscito in una singolare tenzone di alto valore politico e morale come prima non era praticamente mai successo. Non era successo al bravo William J. Federer, per esempio, omonimo di un bravo tennista come Brown lo è di un bravo calciatore, quel Federer storico e saggista prestato alla politica che in novembre ha sottoscritto la “Dichiarazione di Manhattan” (di cui occorrerà riparlare) la quale unisce protestanti evangelicali, cattolici e ortodossi americani in una sfida elegantemente “di piazza” all’establishment egemonizzato dai progressisti su temi di difesa intergale della persona umana, insomma il Federer semisconosciuto che nel 2000 cercò di battere in Missouri l’allora leader della minoranza Democratica alla Camera, il potentissimo Richard “Dick” Gephardt, perdendo con onore una sfida impari ma moschettiera. Federer fu al tempo sostenuto da William H.T. “Bucky” Bush, zio del presidente George W. Bush jr., dal leader della maggioranza Repubblicana alla Camera Richard “Dick” Armey, dal fuoriclasse Repubblicano, reaganiano, cattolico e antiabortista Alan Keyes (negro, più nero e più autentico di Obama), dalla madrina del femminismo antifemminista Phyllis Schlafly, dal popolare opinionista David Limbaugh (fratello minore del popolarissimo commentatore radiofonico Rush Limbaugh), dal presidente della Corte Suprema dell’Alabama Roy S. Moore (famoso perché si ostina a mantenere in piedi il monumento ai Dieci Comandamenti nel tribunale che presiede), dal grande Chuck Norris, dal rocker conservatore Ted Nugent e dal noto radiopredicatore James C. Dobson jr., di “Focus on the Family”. La vittoria di Brown oggi vendica tutti i Federer sconfitti di ieri, ma soprattutto incorona il popolo americano che cerca, che sceglie e che premia tipi come loro. Quando i Repubblicani puntano sui conservatori vincono. Il ripasso della lezione di storia parte dal Massachusetts. Dietro Brown, infatti, spunta il popolo dei “Tea Party”, cioè il movimento della rivolta fiscale ma non solo, torna la “Right Nation”, sogna ancora l’America.
Aggiungete alla vittoria di Brown i recentissimi trionfi Repubblicani ottenuti alle elezioni per il rinnovo dei governatori di Virginia e New Jersey. Aggiungete quel dato troppo a lungo scordato che è stato il clamoroso successo della proposition a difesa della famiglia naturale e del matrimonio eterosessuale che nel novembre 2008 si è registrato nella Californication (e in altri Stati) che al contempo premiava Obama (segno tra l’altro del fatto che non tutti gli elettori di Obama sono stati degl’ideologi trinariciuti). Aggiungete che forse forse anche Sarah Palin rientrerà presto nel giro, e allora non è davvero difficile dare ragione a FoxNews che il 3 novembre scorso qualificava come referendum pro o contro Obama le elezioni di metà mandato che gli Stati Uniti celebreranno nel novembre prossimo. Un referendum dopo il quale Obama potrebbe già mettersi a preparare la valigie. Forte della vittoria ottenuta con quasi il 52% de voti contro la rivale Martha Coakley, vassalla del feudo Kennedy-Obama, Scott Brown ha dichiarato: «Cercherò di essere un degno successore di Ted Kennedy». Ecco speriamo che questa promessa non la mantenga.
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