giovedì 25 maggio 2006

Abolire il liberalismo. Una provocazione
(ma non solo)

Vi invito a leggere con attenzione questo articolo di Marco Respinti, tratto dall'ultimo numero del Domenicale (lo ripubblichiamo integralmente perché, in questo momento, il sito del settimanale sembra inaccessibile). Credo che il tema centrale sollevato da Respinti meriti una discussione approfondita. (p.s. Interessante l'analisi de Il Filo a Piombo)

Abolire il liberalismo
di Marco Respinti

Le qualificazioni distinguono; ma se tutto distingue, nulla più qualifica. Prendi il “liberalismo”, per esempio. Se tutti sono “liberali” (come sembra di arguire dagli attuali scenari politico-culturali italiani), finisce che nessuno lo è davvero. Come potrebbe infatti esserlo Caio che dice cuori tanto quanto Tizio che dice picche? Indi per cui, con buona dose di consapevole follia, ci punge vaghezza di dire qui che, forse forse, è meglio eliminarla del tutto questa parola che non sa più di alcunché.

In questo ci confortano autorevoli padri. Il “liberalismo” fa problemi sin dalla definizione: «difficile», dice il Dizionario di politica UTET diretto da Norberto Bobbio, Nicola Matteucci e Gianfranco Pasquino alla voce Liberalismo compilata dallo stesso Matteucci. Addirittura irta di «particolari difficoltà». Anzi, persino «pericolosa», con una «storia guazzabuglio» in cui «abbiamo tanti liberali fra loro diversi, ma non il Liberalismo» e questi che, «ieri come oggi», «hanno occupato negli schieramenti parlamentari posizioni assai diverse: conservatrici, centriste, moderate, progressiste». Per di più, «ancor oggi la parola liberale ha significati diversi a seconda delle diverse nazioni». Una cosa di non poco conto.

Stante infatti che il linguaggio serve a comunicare – cioè a traslare da un contesto a un altro la permanenza di una sostanza, decifrando e tramandando –, un vocabolo afasico è un vocabolo inutile. Dite cioè a un americano che siete liberal per significare che v’ispirate a Ludwig von Mises, e quello vi toglierà il saluto per sempre. Per di più “liberale” è ambiguo come lo è “laico”, oggi gettonato secondo termine di un’(ab)usata endiadi. In origine, latina, significa infatti “generoso”, “munifico”.

Ora, questo importerebbe poco se non fosse però che per tutto il Settecento e porzioni significative dell’Ottocento inglese, britannico e nordamericano (quella, cioè, che s’indica come la koinè eziologica del “liberalismo”) il termine avesse mantenuto solo quel significato prepolitico.

L’origine della specie

Contenuto coscientemente politico, il termine “liberale” lo assume solo con Napoleone, il quale riformula l’intera eredità illuministico-giacobina del Settecento francese che a propria volta aveva con il tempo metabolizzato e per tempo rilanciato le lezioni semiclandestine di ciò che, prima, in Gran Bretagna, era definito free-thinking e che in Francia aveva cominciato a farsi adulto come libertinisme.

Il “grande còrso” lo usò nel Proclama del 18 Brumaio dell’anno VIII della repubblica francese, ovvero il “programma” politico con cui il 9 novembre 1799 attuò il colpo di Stato che lo impose primo console fino a quando, il 18 maggio 1804, si creò “Imperatore dei francesi”. Va detto, a lato, che questo è il periodo d’incubazione dell’idéologie, espressione con cui s’intese una “scienza delle idee” funzionale al potere politico e capace di rieducare la nazione alla verità di Stato onde fabbricare e mantenere il consenso popolare.

Il termine “liberale” fu poi definitivamente consacrato quando venne adoperato nelle Cortes (il parlamento) di Cadice, in Spagna, del 1812, a designare il partito culturalmente filofrancese. Nacque, cioè, “francese”, il “liberalismo” politico, pescando a piene mani nei contenuti ideologici della rivoluzione dell’Ottantanove e solo a posteriori, in virtù di una improvvida e mal calcolata analogia, fu applicato alla tradizione culturale anglosassone dove “liberale” valeva “munifico”.
Da qui fu poi nobiltà e miseria. In un aureo saggetto tradotto sul “Dom” del 29 maggio 2004 con il titolo Liberali, “liberal” e “libertarian”: tutta la storia di un’idea prettamente occidentale, il grande liberale (?) austriaco (e asburgico) Erik von Kühnelt-Leddihn distingue infatti almeno quattro diversi liberalismi, l’un contro l’altro armati. Nel secolo XX – ricorda Matteucci – si sono profusi grandi sforzi per la riconciliazione, anzitutto nel 1924 a Ginevra con “L’Entente internationale des partis radicaux et des partis democratiques similaires”, poi creando, a Oxford, nel 1947, l’Internazionale liberale. Ma sono rimasti dei nulla di fatto. Nel primo simposio è evidente l’ambiguità irrisolta (partis radicaux, partis similaires); nel secondo la debolezza concettuale, schiavo com’è del nominalismo marxista.

Il monte verità

Eppure ben altro ha prodotto il mondo “liberale”. All’indomani del disastro della Seconda guerra mondiale, cuore della tragedia del Novecento, chiedendosi se si fosse oramai giunti al capolinea della storia o se si potesse rifondare tutto bene e ancora meglio di prima, interrogandosi sull’incapacità delle istituzioni di diritto a fermare per tempo il totalitarismo ma senza buttare il bambino assieme all’acqua calda, la crème dell’intellettualità “liberale” – non della politica – creò la Mont Pelerin Society. La data fu il 1° aprile 1947, il luogo una omonima località delle Alpi svizzere. Iniziò tutto con una convention di dieci giorni, poi quel milieu si trasformò in un direttorio permanente di quella cultura che era ed è convinta che al “liberalismo” autentico non sia mai stata data una vera chance. Ossia che tutto quanto si è in passato paludato di quel nome è spurio, persino falso.

C’erano tutti: Milton Friedman, Luigi Einaudi, Walter Lippmann, Henry Hazlitt, Ludwig von Mises, Bertrand de Jouvenel, Michael Polanyi, Karl R. Popper, Wilhelm Röpke, per non citare che i più noti.

Anfitrione fu Friedrich A. von Hayek, il campione più famoso della “liberista” Scuola austriaca di economia, Premio Nobel 1974, che sul “liberalismo” ne avrebbe dette di belle. Nel discorso inaugurale affermò: «Sono convinto che, se la frattura fra il vero liberalismo e le convinzioni religiose non sarà sanata, non ci sarà alcuna speranza per la rinascita delle forze liberali». Von Hayek spiegò così al variopinto mondo “liberale” il perché una sessione dell’elvetico simposio fosse specificamente dedicata alla questione liberali/cristiani. L’eco più consona sembra a questo punto il Discorso ai rappresentanti del mondo della cultura, delle Chiese non cristiane e agli studenti, pronunciato a Praga, il 21 aprile 1990, da Papa Giovanni Paolo II: «se la memoria storica dell’Europa non si spingerà oltre gli ideali dell’illuminismo, la sua nuova unità avrà fondamenti superficiali e instabili». Perché? Perché la questione illuminista, come visto, è alla base del “liberalismo” che dovrebbe fondare l’Europa democratica.

Ora, le parole pronunciate da Von Hayek nel 1947 aprono la relazione presentata da Marcello Pera al convegno Liberalismo, cristianesimo e laicità (Fondazione Magna Carta, Roma, 11 dicembre 2004). Lì l’allora presidente “liberale” del Senato afferma di averle ignorate finché, molto di recente, ne è stato folgorato come a Damasco. In fila con ciò che nel libro Cattolici, pacifisti, teocon (Mondadori, Milano 2006) Gaetano Quagliariello (presidente della Fondazione Magna Carta e legittimo interprete del Pera-pensiero) dice essere il nerbo della sfida culturale lanciata, fra laici e cattolici, dall’ex seconda carica dello Stato italiano in dialogo con Papa Benedetto XVI – «ricucire lo scisma provocato dalle conseguenze del 1789» – fa un bel botto.

Il liberalismo statalista

È infatti Pera, in quella stessa relazione a convegno, a sostenere che ciò che fa problema «è la nostra storia, il nostro passato» («nostra, nostro» stanno per liberale); e che «per comprenderlo bisogna ritornare alla classica distinzione di Von Hayek circa i due liberalismi, quello “vero” anglosassone, e quello “falso”, continentale, che solo per carità di ricostruzione storica e non senza ambiguità si può chiamare ancora “liberalismo”».

Di Von Hayek è chiarificatore peraltro "Perché non sono un conservatore" (trad. it. Ideazione, Roma 1997), celeberrimo poscritto del libro The Constitution of Liberty, del 1960, da noi pubblicato come "La società libera" (Seam, Roma 1998). Temendo la morta gora dello status quo, Von Hayek proclama di considerarsi un “old whig” all’inglese, cultura che divenne “liberalismo” solo dopo essere stata alterata – dice – dal razionalismo rozzo e militante della rivoluzione francese. Ma il bello della faccenda è che l’“Old Whiggism” – progresso conservativo e conservazione innovativa – non esisterebbe se non fosse per l’angloirlandese Edmund Burke. Il quale, primo critico della rivoluzione francese e fiero avversario dell’illuminismo, è il padre riconosciuto sia del conservatorismo in cui Von Hayek dice di non riconoscersi, sia di quel “liberalismo” che, vonhayekianamente, ce l’ha con il costruttivismo illuministico-giacobino e in cui si riconosce il popperiano Pera oggi, preceduto ieri da Lord Emerich Edward Dalberg Acton.
Acton, appunto. Lo si usa dire un “cattolico-liberale”, ma fu – la differenza è enorme – un eminente storico cattolico e liberale. Cioè liberale perché cattolico (lo mostra a chiare lettere là dove descrive la storia della libertà che in tratti salienti si sovrappone alla storia della salvezza), cosa, questa, che riporta alla questione primaria: che cosa è il “liberalismo”?

Acton, un burkeano, è colui dal quale Von Hayek apprende a definire san Tommaso d’Aquino il primo (old?) whig della storia e uno che, guardando all’Italia unificata dal Risorgimento, distingueva così: «La dottrina della libertà insiste sull’indipendenza della Chiesa; la dottrina del liberalismo insiste sull’onnipotenza dello Stato quale organo della volontà popolare» (nell’articolo Cavour, pubblicato su The Rambler del luglio 1861). Visto cosa ne è stato del “liberalismo”, oggi Acton – è questo l’autorevole pensiero di Robert A. Sirico, che di Acton s’intende essendo il cofondatore e il direttore dell’Acton Institute for the Study of Religion and Liberty – sarebbe un conservatore, cioè un difensore della libertà ordinata.

L’era dell’ircocervo

Ed ecco allora la nostra proposta. Anzitutto occorre tornare a separare lucidamente ciò che oggi è confusamente unito, il liberalismo “vero”, anglosassone, da quello “falso”, continentale. Il primo – con Von Hayek e, prima, Burke – è quello che dà una lettura evolutiva (“liberalismo storicista” lo chiama Quagliariello) della cultura e dello spirito, e che poggia sull’idea dei limitati poteri della ragione umana, rispettando la tradizione su cui si basano la conoscenza e le civiltà. L’altro è quello fondato sul desiderio di rifare continuamente il mondo conformemente a uno schema ideologico (pre)determinato. È Von Hayek che ricorda, a mo’ di specimen, Voltaire: «Se volete buone leggi, bruciate quelle che avete e datevene di nuove». Più o meno l’idea di Valerio Zanone in Il liberalismo moderno (nel sesto volume della Storia delle idee politiche, economiche e sociali, diretta da Luigi Firpo per la UTET): una libertà staccata dalla verità e assunta come una religione, e una ragione che, opponendosi alla metafisica, inaugura il relativismo.

Fatto questo, occorre poi abolire, e subito, il “liberalismo”. Utile allo scopo è l’intellettuale Biagio De Giovanni, che su il Riformista del 4 marzo spera nel prossimo avvento dell’ircocervo, le nozze tra liberalismo e socialismo impossibili per Benedetto Croce, ma che invece è oramai tempo di celebrare. De Giovanni lo dice almeno dal 1989. “Spalla” di Achille Occhetto nella trasformazione del PCI nella “Cosa” che generò il PDS, poi i DS e domani forse il Partito Democratico, al tempo suggellò la necessità di sostituire, nell’immaginario militante della Sinistra, il mito del 1917, la rivoluzione bolscevica, con l’Ottantanove. Indietro per avanzare.

L’endorsement politico di Occhetto officiò l’esperimento: «Siamo voluti tornare alle fonti. Alle fonti della modernità politica. Alla fonte comune che ha dato alimento ideale, per due secoli, a tutti i movimenti democratici e di sinistra in Occidente». La Sinistra postmarxista che occupa l’intero spazio del liberalismo, richiamandosi coscientemente alle origini del razional-relativismo che lo connota, l’Ottantanove.

E gli altri “liberali”, quelli della tradizione della libertà ordinata”? Serve un altro nome. Un tempo ne fu usato uno, bruttino, che – a partire dal “Dom” del 22 novembre 2003 – abbiamo riscoperto, il “fusionismo”. Non solo l’alleanza strategica di quelli che hanno in comune degli avversari per superare sbarramenti elettorali e lucrare sdoganamenti culturali. Non certo un “partito unico”. Ma la cerca – cito dall’introduzione di Piero Cantoni a Il tascabile dell’apologetica cristiana di Peter Kreeft e Ronald K. Tacelli (trad. it. Ares, Milano 2006), parole adattissime anche se di altro contesto – di «Che cosa pensavamo quando eravamo ancora uniti? Prima di quel drammatico momento in cui abbiamo imboccato sentieri diversi, le cui conseguenze rendono ora tanto più difficilmente credibile il nostro annuncio?». L’irruzione dei Marcello Pera, Giuliano Ferrara, Gaetano Quagliariello, Oriana Fallaci, Eugenia Roccella, Giorgio Israel, senza scordare i teocon e i libertarian USA e italiani, gli Alain Finkielkraut, e nemmeno i Raimondo Cubeddu, i Marco Taradash, i Giovanni Orsina, lo permette, anzi lo impone.
Di là il liberalismo; di qua Von Hayek, che – ricorda Matteucci nel Dizionario di politica – «ha proposto di rinunciare all’uso di una parola così equivoca». Modesta proposta? Bella proposta. Noi raccogliamo firme.

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