Potessero tornare indietro nel tempo, forse i climatologi vorrebbero un lodo Alfano globale. Almeno potrebbero salvarsi dal fango che sta schizzando ovunque, dopo essere entrato nel ventilatore della rete. Un hacker ha messo a disposizione la corrispondenza privata di molti di loro, saccheggiando i server dell’Hadley Centre, il centro di ricerca sul clima dell’Università della East Anglia. Nelle centinaia di email, c’era di tutto: discussioni scientifiche, scambi di idee sulle tattiche da utilizzare e tanta, tanta disonestà intellettuale. Del tipo che uno, quando sprofondato in poltrona si gusta una spy-story in tv, si aspetta dai cattivi. Solo che, nella percezione mondiale, i chierici del global warming sono i buoni più buoni, gli onesti più onesti, i ricercatori più disinteressati del pianeta Terra.
Intendiamoci: la violazione delle mailbox private degli scienziati è una vergogna. La magistratura britannica si è messa a caccia del responsabile e bisogna sperare che lo trovi e lo punisca in modo esemplare (come andrebbe fatto con chiunque irrompa nella privacy altrui). Detto questo, non possiamo far finta di non aver visto. L’indignazione per quello che è accaduto non può cancellare quello che abbiamo letto. Non possiamo ignorare che la percezione di integrità degli scienziati ne esce con le ossa rotta. Non tutti hanno perso la verginità intellettuale, beninteso: ma molti, sì. Per esempio, Kevin Trenberth si lamenta che “in questo momento non possiamo dare una spiegazione alla mancanza di riscaldamento ed è una finzione che non possiamo permetterci” (negli ultimi anni le temperature globali sembrano aver smesso di crescere).
Phil Jones parla con leggerezza del “trucchetto di Mann” (l’autore del grafico “a mazza da hockey”, su cui si basano tutti gli scenari più catastrofisti) “per nascondere il declino [delle temperature] in alcune serie a partire dal 1981”. Un loro collega spiega che “taglierò gli ultimi punti dalla curva prima del mio prossimo discorso, in modo che quel trend verso il basso sembri l’effetto della fine della serie, piuttosto che il risultato dei recenti anni freddi”. E poi dibattiti su come rafforzare il “clan” degli allarmisti e ripulire le riviste scientifiche dai contributi degli scettici, e addirittura esortazioni a cancellare dati scomodi. Se non è un complotto, è almeno un comportamento sospetto e sospettosamente diffuso. I testi di altre lettere sono disponibili, tra l’altro, sui blog “ClimateMonitor” e “Cambi di stagione”.
Questo significa che dobbiamo riavvolgere il nastro della storia, mettere in dubbio il riscaldamento globale o la sua componente antropica? Non necessariamente. L’approccio politico che molti protagonisti dell’allarmismo hanno dimostrato di avere ne compromette, almeno in parte, la credibilità, ma di per sé non ne confuta le tesi. E tuttavia fa suonare un campanello d’allarme. Perché significa che la comunità di cui il mondo si fidava ciecamente, non è in realtà né santa né pura. Dunque, le indicazioni che da essa giungono non vanno prese per oro colato, ma vanno valutate alla luce da un lato della posizione della comunità scientifica nel suo complesso, inclusi i settori meno compiacenti, dall’altro delle implicazioni economiche e politiche. In altre parole, quello che le email rubate rivelano è che i climatologi non sono i dodici apostoli: e, nella misura in cui lo sono, sono un po’ Pietro prima che il gallo canti, un po’ Giuda. Bisognerebbe riprendere in mano oggi, dopo l’esplosione di questo scandalo, il romanzo “Stato di paura” del compianto Michael Crichton, in cui una setta di fanatici ambientalisti è disposta a tutto, perfino a uccidere e causare disastri di ogni sorta, pur di trascinare il mondo dalla sua parte. Pur nell’estremizzazione narrativa, quelle pagine appaiono meno fantasiose e più profetiche.
Sul piano politico, una vicenda del genere avrà delle ripercussioni. Se email simili fossero state sottratte agli scettici, lo scandalo sarebbe anzi esploso con ben maggiore attenzione ed effetti più devastanti (invece i giornali l’hanno presa comoda). Di certo, il prossimo vertice di Copenhagen – già dato per semimorto – non se ne gioverà. Se gli individui che più di tutti strepitano perché si faccia qualcosa si dimostrano dei disonesti o, nella più benevola delle interpretazioni, degli onesti demagoghi, necessariamente il senso di urgenza per le azioni da essi invocate si riduce. E la questione climatica passa, come in parte è già accaduto e come sarebbe naturale, in secondo piano rispetto a temi più urgenti, a partire dalla recessione.
Ma c’è anche un altro e più duraturo risultato: improvvisamente, la statua equestre che le chiacchiere internazionali hanno eretto al catastrofismo ondeggia sul suo piedistallo. I fautori della certezza sono meno affidabili, e quindi diventano più credibili i difensori dell’incertezza. Se la scienza è meno solida, anche la politica lo deve diventare. Se non siamo così sicuri della componente antropogenica del riscaldamento globale, dei suoi drammatici effetti ambientali, della sua inevitabilità e dell’assoluta urgenza della riduzione delle emissioni, allora possiamo valutare le scelte politiche che stiamo per compiere con più calma. Inoltre, le scelte devono essere costruite in modo tale da incorporare l’incertezza: altrimenti rischiamo di partire per una crociata al termine della quale non c’è alcun beneficio ambientale.
Da ultimo, c’è un’implicazione più vasta, che prescinde dal dato climatico. Come ha scritto Guido Guidi, «registriamo il definitivo sorpasso della blogosfera sull’informazione di tipo tradizionale». I blog si sono subito accorti dello scoop, e hanno saputo distinguere in modo corretto il peccato originale (il furto di corrispondenza) dal contenuto delle email. La grande stampa vi ha dedicato poca attenzione e per dovere, senza il gusto della notizia. È sempre difficile, abbattere gli idoli venerati fino al giorno prima. (Carlo Stagnaro)
Da leggere (in italiano): Giornalettismo, Climate Monitor, Chicago-Blog, Il Mango di Treviso, 1972, Giova.
1 commento:
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