Nell'offrire le sue glaciali condoglianze alle famiglie delle vittime del massacro di Fort Hood, il presidente Obama si è affannato ad invitare gli americani a non «saltare subito a conclusioni affrettate» identificando Nidal Malik Hasan come un terrorista islamico. Anche se italiani (almeno di passaporto), gli abbiamo voluto dare ascolto, astenendoci da qualsiasi commento “di pancia” in merito. Ormai, però, sono passati quattro giorni. E la nostra pancia non vuole smetterla di brontolare. Anche perché continuano ad accumularsi gli indizi che puntano verso il movente “islamista” della strage, nel totale disinteresse dei mainstream media americani e italiani.
A squarciare il velo di omertà che avvolge il sistema dei media, finora ci ha pensato soprattutto il quotidiano britannico Daily Telegraph. Nell'edizione di sabato, Philip Sherwell e Alex Spillius hanno raccontato come Hasan, nel 2001, frequentasse la «controversa moschea Dar al-Hijrah, di Great Falls (Virginia) insieme a due dei terroristi dell'11 settembre». Nella stessa moschea, nel maggio 2001, si sono svolti i funerali della madre di Hasan. «L'imam di quei giorni - scrivono Sherwell e Spillius - era Anwar al-Awlaki, un americano di origine yemenita a cui è stato impedito di partecipare a un incontro pubblico a Londra, perché accusato di aver sostenuto gli attacchi terroristici contro le truppe britanniche in Iraq e in Afghanistan». Il Telegraph ha anche raccolto la testimonianza di Charles Allen, ex sottosegretario all'intelligence del dipartimento per la Homeland Security, che descrive al-Awlaki (che ora vive in Yemen), come un «supporter di al-Qaeda, leader spirituale di tre dei dirottatori dell'11 settembre, che indottrinava i musulmani americani con prediche online che incoraggiavano gli attacchi terroristici contro le strutture militari statunitensi».
Hasan, che alcuni dei sopravvissuti dichiarano aver sentito urlare «Allah Akhbar» mentre sparava alle sue vittime con due pistole semi-automatiche, prima della strage ha distribuito copie del Corano ai vicini di casa. E chi lo conosce bene dice di avergli sentito esprimere l'opinione che «la guerra al terrorismo è in realtà una guerra contro l'Islam», il tutto condito da «sentimenti anti-semiti» e la difesa d'ufficio dei suicide bombers. «Non sono sorpreso dalla notizia della strage - dice al Telegraph il dottor Val Finnell, che insieme ad Hasan aveva seguito un corso nel 2008 - era una bomba ad orologeria pronta ad esplodere». Secondo i parenti, dopo la morte dei genitori (nel 1998 e nel 2001), Hasan era diventato sempre più devoto, affogando la propria malinconia nella lettura ossessiva del Corano. «Non aveva una fidanzata, non andava a ballare, non frequentava locali», dicono. Sembra che, quando viveva nei sobborghi washingtoniani di Silver Spring, Hasan si fosse iscritto ad un servizio di “ricerca dell'anima gemella” per musulmani, specificando che cercava una donna che indossasse il velo e che pregasse almeno cinque volte al giorno. Una ricerca rivelatasi inutile.
Nell'edizione di domenica del Daily Telegraph, il corrispondente degli Stati Uniti, Nick Allen, scava ancora di più in profondità, svelando che Hasan - durante un convegno a cui partecipava insieme ad altri dottori al Walter Reed Army Medical Centre, dove lavorava fino a sei mesi fa, prima di essere trasferito a Fort Hood - aveva dichiarato che «gli infedeli dovrebbero essere decapitati e costretti a bere olio bollente» (non si sa se prima o dopo la decapitazione). Vi sembra il ritratto di un uomo sotto stress o quello di un fondamentalista islamico? Molti suoi colleghi, scrive Allen, raccontano che Hasan diceva di sentirsi «prima musulmano e poi americano”. E uno dei poliziotti che ha tentato di impedirgli la strage spiega che, durante la sparatoria, Hasan gli è sembrato «molto calmo». Per il senatore democratico Joe Lieberman, che presiede il comitato per la Homeland Security, questi sono «forti segnali di avvertimento» che avrebbero dovuto mettere l'esercito statunitense sull'avviso e identificare Hasan come «un fondamentalista islamico». «In casi come questi l'esercito dovrebbe seguire una linea di “tolleranza zero” - spiega il senatore - e procedere ad una espulsione immediata». Ma i colleghi di Hasan si difendono, affermando di non aver voluto presentare un reclamo ufficiale per paura di essere etichettati come “razzisti”.
Ecco le conseguenze della dittatura contemporanea del politically correct: ignorare l'evidenza, per paura di essere tacciati di razzismo o anti-islamismo dai campioni del multiculturalismo. E continuare ad ignorare la realtà, sistematicamente e metodicamente, perfino di fronte al sangue di tredici innocenti, vittime del peggiore attacco terroristico subito dagli Stati Uniti d'America dopo l'11 settembre 2001. Welcome to Obamaland.
UPDATE. Qualcosa inizia a muoversi, sul canale che - secondo Obama - non trasmette «news».
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