Qualcuno già inizia a chiamarla “War 2.0”. Ed è l’altra faccia della guerra contemporanea, quella che non si combatte per aria, terra o mare, ma in quella zona - a metà strada tra la realtà e l’immaginazione - in cui abitano i media, vecchi e nuovi. Una guerra che negli ultimi anni è diventata sempre più importante, visto il ruolo esercitato dalle “opinioni pubbliche” mondiali nei confronti dei governi occidentali. E nella quale gli israeliani si sono sempre, sistematicamente, ritrovati a soccombere nei confronti del “nemico”. Almeno fino ad oggi.
Qualche esempio in ordine sparso. Nell’autunno del 2000, la morte del dodicenne palestinese Muhammad al-Durrah diventa il simbolo della furia cieca dell’esercito israeliano. E le immagini della sua uccisione, girate da un operatore palestinese per la televisione France 2, fanno il giro del mondo scatenando un’ondata di commozione e sdegno. Dovranno passare due anni prima di scoprire che si era trattato di una “montatura” orchestrata ad uso e consumo dei media e delle organizzazioni non governative filo-palestinesi.
Nell’aprile del 2002, nel corso dell’operazione “Defensive Shield” condotta durante la “seconda intifada”, le Israel Defense Forces “bonificano” il campo profughi di Jenin, utilizzato dai terroristi come avamposto per gli attacchi condotti contro le città e i villaggi israeliani della West Bank. Immediatamente, nel mondo arabo (e nei media occidentali) si inizia a parlare del “Massacro di Jenin” e di centinaia di morti palestinesi, quasi tutti donne e bambini, macellati dalle brutali forze d’occupazione. La Cnn parla di 500 morti. Ed è una delle stime più basse tra quelle che circolano, come impazzite, negli organi internazionali d’informazione. In realtà i morti palestinesi sono una cinquantina (numeri confermati in seguito anche da Fatah), di cui 5 civili, contro le 23 vittime tra i soldati israeliani. Il “massacro” più equilibrato della storia.
La campagna di disinformazione contro Israele raggiunge il suo culmine, nel 2006, durante la seconda guerra in Libano. Le condanne per gli «attacchi indiscriminati» e i «crimini di guerra» si succedono quotidianamente. Alcune agenzie di stampa - Reuters in prima linea - vengono colte con le mani nel sacco a “ritoccare” fotografie in senso anti-israeliano (un fotografo, autore di almeno una decina di “falsi”, viene licenziato). Dopo un attacco aereo ordinato dal primo ministro Olmert, i giganteschi titoli dei giornali che parlano di «migliaia di morti civili» spingono addirittura gli israeliani a sospendere per 48 ore qualsiasi operazione militare dall’aria, permettendo a Hezbollah di riorganizzarsi ed estendere il conflitto. Pochi giorni più tardi, Human Rights Watch smentisce la strage. Ma ormai il danno è fatto.
Sono solo alcuni tra le decine di casi in cui Israele, pur conseguendo risultati importanti sul fronte militare, va incontro ad una sconfitta disastrosa sul fronte mediatico. Secondo uno schema di triangolazione, ormai consolidato, che coinvolge l’estremismo islamico, i mezzi d’informazione internazionali, la maggior parte delle organizzazioni “umanitarie” (finanziate spesso dai governi europei) e - naturalmente - le Nazioni Unite. Questa volta, però, gli israeliani hanno deciso di combattere anche su questo fronte. Con tutte le armi a loro disposizione.
La parte più “visibile” di questa offensiva è rappresentata dalla decisione dell’Idf di aprire un “canale” su YouTube per mettere a disposizione di tutti le riprese dei bombardamenti di precisione effettuati a Gaza durante l’operazione “Cast Lead”. Un modo per dimostrare, con i fatti, che l’aeronautica israeliana non colpisce indiscriminatamente. Seguendo una politica a dir poco ambigua (che permette agli utenti di “segnalare” il contenuto sgradito), YouTube ha in realtà cancellato molti dei video dopo poche ore. Ma si è trattato di un tempo sufficiente per permettere l’inizio di una diffusione “virale” che ha contagiato estese porzioni del cyberspazio.
«La blogosfera e i new media rappresentano una vera e propria zona di guerra. Una zona di guerra in cui dobbiamo diventare competitivi», ha dichiarato il maggiore Avital Leibovich, responsabile dell’esercito per i rapporti con la stampa internazionale. «La cosa più importante - ha aggiunto - è riuscire a diffondere la verità». E alcuni alti ufficiali sono già pronti a dare vita a “video-blog” personali - anche in inglese e in arabo - per comunicare direttamente con l’opinione pubblica, scavalcando l’intermediazione dei media tradizionali. E quella su YouTube non è un’iniziativa isolata.
Il consolato israeliano di New York ha organizzato una conferenza stampa su Twitter (un servizio di “microblogging” molto diffuso) per rispondere alle domande dei media sulla situazione a Gaza. La scorsa settimana, migliaia di abitanti palestinesi della Striscia hanno ricevuto un messaggio, sui loro telefoni cellulari, con cui l’esercito israeliano li invitava ad allontanarsi in fretta dalla case dove i militanti di Hamas avevano accumulato armi (e che dunque potevano essere obiettivi militari). Il governo e l’esercito hanno messo in piedi una serie di siti Internet - molto curati e aggiornati - in cui chiunque può consultare documenti e statistiche relative al lancio di missili da parte di Hamas sulle città meridionali del Paese.
Si tratta solo di un primo passo, naturalmente, perché per recuperare lo svantaggio mediatico accumulato negli ultimi anni ci vorrà più di qualche sito Internet e di una decina di video. Ma si tratta di un passo importante che, almeno dentro i confini israeliani, qualche risultato sembra averlo prodotto: l’81% dei cittadini israeliani appoggia l’intervento militare a Gaza. Adesso è arrivato il momento di convincere anche il resto dell’Occidente.
(domani in edicola su Liberal Quotidiano)
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