Tra tutte le “scuse” che potevano escogitare per opporsi al progetto di “cancelleria unica”, i magistrati hanno decisamente scelto la più tortuosa. Il protocollo siglato a fine novembre tra i ministri Alfano e Brunetta - e rilanciato con alte grida di sdegno da Repubblica nei giorni scorsi - prevede la messa a punto di un «mega cervellone informatico» (parole del quotidiano fondato da Eugenio Scalfari) in grado di contenere i dati di tutte le inchieste giudiziare italiane. Apriti cielo. L’Anm si è subito lamentata per non essere stata interpellata. Il Csm è in fibrillazione, ma non può ancora intervenire ufficialmente, visto che si tratta soltanto di un protocollo e non di un decreto o un disegno di legge. Sulla questione di metodo, si può anche comprendere l’irritazione togata. Ma è quando intervengono nel merito della vicenda che i magistrati non sembrano avere paura di sfidare il senso del ridicolo.
Il presidente dell’Anm, Luca Palamara, si dice «favorevole all’informatizzazione», che effettivamente è sempre stato un cavallo di battaglia della sua associazione, ma è preoccupato per «la segretezza degli atti di indagine, soprattutto nei momenti più cruciali dell’attività investigativa, a partire dalle sue prime battute». E il procuratore aggiunto di Milano, Armando Spataro, in una lunga intervista (concessa sempre a Repubblica), rincara la dose. «Ben venga lo sforzo di automatizzazione del sistema - dice - ma non possiamo ignorare l’esistenza di una soglia invalicabile tra ciò che non è coperto da segreto, e può essere messo a disposizione delle forze di polizia e degli attori del processo, e ciò che è segreto e deve rimanere nella disponibilità esclusiva del pubblico ministero, come impone la legge».
Parole sacrosante, se non fosse che per un piccolo, insignificante, particolare. In Italia, il “segreto” che dovrebbe proteggere gli atti giudiziari è il più classico dei “segreti di Pulcinella”. Tribunali, procure, cancellerie: tutto, nel nostro Paese, sembra riuscire a sfuggire a quasiasi tentativo di secretazione, che si tratti di atti sensibili ai fini delle indagini o di intercettazioni telefoniche buone soltanto a riempire le pagine dei giornali di gossip. E non si ha traccia, nella storia recente della Repubblica, di un solo pubblico ministero che si sia mai scomodato nel portare a termine un’inchiesta sulle fughe di notizie che affliggono quotidianamente il sistema-giustizia. Non un magistrato, un poliziotto, un avvocato, un usciere, neppure un semplice capro espiatorio è mai stato condannato per aver contribuito a violare «la libertà e la privacy dei cittadini». Eppure adesso, come d’incanto, quello che una volta veniva chiamato “segreto istruttorio” diventa, per la casta dei magistrati, un valore da difendere ad ogni costo. Dopo essere stato allegramente ignorato per decenni.
«La fuga di notizie, come l’intrusione telematica, è sempre possibile - aggiunge Spataro - ma nel sistema bilaterale di oggi i possibili responsabili della violazione del segreto sono di numero circoscritto. Nell’altro caso, no. Nessun sistema informatico è sicuro, mentre può esserlo l’organizzazione degli uomini che lo gestiscono». Dice bene, il procuratore milanese: il problema non sono tanto i sistemi tecnici di protezione dei dati, quanto il comportamento degli uomini che questi dati sarebbero chiamati a proteggere. Perché, allora, prendersela tanto con la “cancelleria virtuale” ideata da Alfano e Brunetta (efficiente o meno che sia), quando non si è fatto mai nulla contro chi - scientificamente e sistematicamente - viola i segreti delle “cancellerie reali”?
(domani in edicola su Liberal quotidiano)
Nessun commento:
Posta un commento