domenica 26 febbraio 2006

Plotone di esecuzione

"Hanno pronunciato una sentenza in nome del popolo italiano, ma siamo proprio sicuri che sia questo quello che il popolo italiano vuole e pensa? A me non risulta. Questo è quello che vuole la magistratura. Perciò non ho più fiducia in loro. E tantomeno ho fiducia di quelli che stanno in Cassazione. E' stato un plotone di esecuzione. Ma io ormai resto davanti a loro, mi accendo una sigaretta e dico: fate di me quello che volete".
(Bruno Contrada, 25 febbraio 2006)

Forse qualcuno aveva ancora dei dubbi sullo stato pietoso in cui versa l'amministrazione della giustizia in Italia. Ebbene, la scandalosa sentenza di condanna emessa ieri contro Bruno Contrada dalla prima sezione della corte d'appello del Tribunale di Palermo rappresenta un "punto di non ritorno" che fa precipitare l'Italia negli abissi dell'inciviltà giuridica. Da giovani cronisti, negli anni tra il 1993 e il 1996, avevamo seguito con attenzione le prime schermaglie processuali di questa vicenda, guidati nei meandri di questa incredibile storia dalla mano affettuosa e paziente dell'avvocato Piero Milio, difensore di Contrada fin dai giorni del suo infame arresto, avvenuto alla vigilia del Natale 1992. Avete capito bene: dopo 36 anni di carriera al servizio dello Stato, Contrada fu strappato alla sua famiglia alla vigilia di Natale, per essere rinchiuso nel carcere militare di Forte Boccea, a Roma, dove restò 31 mesi e 9 giorni. Nei 36 anni precedenti, Contrada era stato un uomo di punta della Polizia di Stato e dei reparti dei servizi segreti preposti alla lotta contro la mafia, ricevendo 65 diversi riconoscimenti, tra cui un attestato di merito speciale, 14 encomi e 7 elogi da parte della magistratura. Ma tutto questo non impedì alla procura di Palermo di indagarlo per concorso esterno in associazione mafiosa, unicamente sulla base delle dichiarazioni di criminali che lui stesso aveva contribuito ad arrestare.

Dell'iter processuale che ha coinvolto Contrada negli ultimi 14 anni non abbiamo intenzione di parlare. Perché di serio non c'è niente, non c'è mai stato niente. A parte la volontà pervicace di uno spezzone deviato della magistratura di dimostrare un teorema non dimostrabile, per preparare il background investigativo e mediatico che avrebbe portato al grande bluff del processo Andreotti. La prima condanna del 1996, l'assoluzione in appello nel 2001 (annullata in Cassazione l'anno dopo), quest'ultima vergognosa condanna: Contrada continua a vedere il suo nome infangato da un manipolo di golpisti in toga che non pagheranno mai per i propri errori, protetti da un'omertà di casta che ha condotto la giustizia italiana allo sfascio. "Questa non è una tragedia per Contrada, ma per le istituzioni", ha dichiarato ieri Milio al Corriere della Sera, "non si può dopo 14 anni non avere ancora giustizia e tornare a dare ancora credito alle calunnie dei pentiti. La verità è che la questione è politica: bisogna introdurre la mobilità dei magistrati. Non possono stare sempre nella stessa città, a fare sempre gli stessi processi. Devono girare in altre sedi, come avviene per gli altri funzionari dello Stato".

Si tratta di una battaglia fondamentale che, insieme alla separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, dovrebbe rappresentare un vessillo irrinunciabile per la campagna elettorale della Casa delle Libertà (e non solo). Perché il rischio è quello di consegnare il paese, senza combattere, ad un esercito di magistrati spietati, irresponsabili e politicizzati che tengono praticamente in ostaggio la metà abbondante del sistema politico italiano. Questo è diventato un paese in cui si processano e si condannano i poliziotti che reagiscono per legittima difesa. E in cui i criminali che attentano alla vita dei servitori dello Stato vengono accolti con tutti gli onori in Parlamento. Questo è un paese in cui il pm palermitano Antonino Ingroia, come ha svelato recentemente Il Foglio, diventa il "consulente giuridico" di Nanni Moretti per un film anti-Berlusconi che uscirà nelle sale a due settimane dalle elezioni. Lo stesso pm con il quale Giancarlo Caselli ha istruito il processo per mafia contro Marcello Dell’Utri. Lo stesso pm che interrogò Contrada a Forte Boccea, il 26 dicembre 1992. E che invece di credere a Contrada, credette alle menzogne dei criminali che Contrada aveva arrestato.

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