mercoledì 16 gennaio 2008

Michigan (and Beyond)

Alla redazione di Liberal stiamo lavorando per preparare i "numeri zero" del nuovo quotidiano che sarà in edicola il prossimo 23 gennaio. Questo sarebbe l'articolo sulle primarie in Michigan (firmato dal sottoscritto) che avreste potuto leggere nell'edizione di domani, se i "numeri zero" dei giornali fossero distribuiti nelle edicole.

Il Michigan salva la candidatura di Mitt Romney. E’ questo il dato più importante che emerge dalle primarie del Wolverine State che si sono svolte martedì. L’ex governatore del Massachussets ha conquistato il 38,9 per cento dei voti nell’elettorato repubblicano, fermando – almeno per adesso – il momentum che sembrava poter spingere John McCain, dopo la vittoria in New Hampshire, verso lo status di solitario front-runner in campo repubblicano. Il senatore “ribelle” del GOP non è riuscito ad andare oltre il 28,7 per cento, in uno stato che pure aveva vinto sette anni fa nella sua sfida contro George W. Bush. Terzo arrivato, con una performance discreta ma non esaltante (16,1 per cento), Mike Huckabee, che ha fatto il pieno dei voti tra i social conservatives in uno stato tradizionalmente refrattario alla sua piattaforma politico-religiosa. Alle spalle di questo terzetto di testa, le delusioni della giornata: Ron Paul, Fred Thompson e Rudolph Giuliani. Negli ultimi due casi si trattava di sconfitte annunciate, anche se pochi si aspettavano un distacco tanto marcato dal vincitore. Mentre Paul, che sembrava in rimonta negli ultimi sondaggi (e che primi exit-poll vedevano intorno al 10 per cento), non è riuscito a superare un 6,3 per cento che gli impedisce, forse definitivamente, di fare il salto di qualità necessario per smettere di essere un candidato di “seconda fila”.

Nella prime dichiarazioni rilasciate dopo il voto, McCain ha cercato di minimizzare la portata della sconfitta, ricordando ai media che Romney aveva vinto proprio dove il padre (George Wilken Romney) era stato un popolarissimo governatore dal ‘63 al ‘69. Si tratta di un ragionamento che trova una qualche conferma nell’analisi degli exit-poll, visto che McCain è stato nettamente battuto, con una proporzione di quattro a uno, in quel segmento di elettori (il 42 per cento) che hanno dichiarato di essere “molto influenzati” dal legame particolare tra Romney e il Michigan. Ma questa spiegazione può soltanto essere parziale. In realtà, un ruolo importante nella vittoria del candidato preferito dall’establishment repubblicano (dalla National Review a Hugh Hewitt, passando per il Republican National Committee) lo hanno avuto le sue promesse agli elettori del Michigan in tema di economia e salvaguardia dei posti di lavoro. In uno stato duramente colpito dalla crisi dell’industria automobilistica, le sue ricette semi-protezioniste hanno rassicurato ampi settori dell’elettorato. A concorrere alla definizione del risultato finale, poi, è stata anche la crescente insoddisfazione manifestata, nei riguardi di una possibile candidatura di McCain, da parte di alcuni opinion-leader molto influenti della destra americana. Un nome su tutti: il conduttore radiofonico Rush Limbaugh, ascoltato ogni giorno da decine di milioni di simpatizzanti conservatori, da costa a costa, che proprio ieri, a poche ore dalla chiusura dei seggi, ha preconizzato “la distruzione del partito repubblicano” in caso di vittoria alle primarie di Huckabee o McCain.

In ogni caso, la vittoria di Romney non contribuisce a semplificare la corsa repubblicana. Fino ad ora, nelle tre sfide più significative (Iowa, New Hampshire e Michigan) hanno vinto tre candidati diversi (Huckabee, McCain e Romney). Nel caso di una vittoria di Fred Thompson in South Carolina – possibilità non remota – si materializzerebbe, alla vigilia della Florida (29 gennaio), lo scenario preferito da Rudy Giuliani. L’ex sindaco di New York, che pure fino ad oggi ha ottenuto soltanto risultati imbarazzanti, ha scommesso su una “strategia nazionale” molto rischiosa, che prevede di utilizzare proprio il Sunshine State come trampolino di lancio per il Super Tuesday del 5 febbraio, in cui entreranno in gioco alcuni grandi stati (ricchi di delegati) come New York, California, Illinois e New Jersey. Se neanche il Super Tuesday riuscisse a sciogliere i nodi in casa repubblicana, l’ipotesi di una brokered convention, con nessun candidato in grado di contare sulla maggioranza assoluta dei delegati, diventerebbe sempre più concreta.

Martedì in Michigan, nel silenzio più assoluto, si sono svolte anche le primarie democratiche, anticipate a gennaio - per ottenere maggiore visibilità mediatica - in violazione delle regole imposte dal Democratic National Committee, che infatti ha “spogliato” lo stato di tutti i suoi delegati, che sarebbero stati più di 150. Vista l’inutilità pratica delle elezioni, Barack Obama e John Edwards si sono ritirati dalla gara, lasciando sulle schede soltanto i nomi di Hillary Rodham Clinton e di qualche candidato minore. Ebbene, malgrado l’assenza di concorrenti, Hillary non è andata oltre il 55.4 per cento dei voti, lasciando a Mr. Uncommitted (la scelta di voto neutrale) quasi il 40 per cento. In più, secondo gli exit-poll, la Clinton ha conquistato appena il 38 per cento (contro il 60) dei voti afro-americani. E questo è un bruttissimo segnale, per la Clinton Attack Machine, in vista delle primarie in South Carolina.

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