sabato 28 giugno 2008

USA 2008 - 14. Indiana



UPDATE 22/09
da GOP Solid a GOP Leaning

UPDATE 15/09
da GOP Leaning a GOP Solid

INDIANA (11)

Popolazione: 6.313,520 (15°)
Capitale: Indianapolis (781.870)
Governatore: Mitch Daniels, Jr. (R)
Senato: Richard Lugar (R); Evan Bayh (D)
Camera: DEM 5 GOP 4. Peter Visclosky (D); Joe Donnelly (D); Mark Souder (R); Stephen Buyer (R); Dan Burton (R); Mike Pence (R); Andre Carson (D); Brad Ellsworth (D); Baron Hill (D)

L'Indiana è il 12° stato più conservatore degli Stati Uniti. Nel 2004, il voto per il candidato repubblicano è stato del 18,2% superiore alla media nazionale. E il trend degli ultimi anni è favorevole al Partito Repubblicano. Anche se nell'ultimo secolo la metà dei governatori dell'Indiana è stata democratica, a livello di elezioni presidenziali lo stato può essere considerato una roccaforte repubblicana. Dal 1900 ad oggi, gli unici candidati democratici ad aver vinto nell'Hoosier State sono stati Wilson (1912), F.D. Roosevelt (1932 e 1936; ma FDR è stato sconfitto sia nel 1940 che nel 1944) e Johnson (1964). In tutte le altre elezioni è stato il candidato del GOP a prevalere, con percentuali - a volte - molto significative: Hoover nel 1928 (59%); Eisenhower nel 1952 e nel 1956 (58% e 59%); Nixon nel 1972 (66%); Reagan nel 1984 (61%); Bush Sr. nel 1988 (59%); Bush Jr. nel 2004 (60%).

Avremmo potuto tranquillamente considerare l'Indiana uno stato GOP Solid (e non è escluso che, più avanti, possa essere così), se non fosse che nelle elezioni di mid-term del 2006 la crescita del Partito Democratico è stata particolarmente significativa. Basti pensare che alla Camera i repubblicani sono passati da un 7-2 a un 4-5. E anche nel 2008 le cose non sembrano particolarmente agevoli per il GOP. Gli ultimi sondaggi sono piuttosto contradditori: Survey USA e Downs Center registrano addirittura un lievissimo vantaggio per Obama (+1%), mentre Research 2000 e Indiana Insight (che stranamente non compare nella media di Real Clear Politics) vedono davanti McCain, rispettivamente di 8 e 9 punti percentuali. Potrebbe essere più scomoda del previsto anche la rielezione del governatore repubblicano Daniels che finora, nei sondaggi, non è riuscito a staccare il rivale democratico Long-Thompson più di 4-5 punti.


Storicamente, i repubblicani sono sempre stati più forti nella zona centrale e orientale dello stato, oltre che nei sobborghi delle città più popolose. I democratici, invece, vanno meglio nelle aree urbane (Indianapolis, soprattutto) e al confine nord-occidentale con l'Illinois (a poche miglia da Chicago). E' interessante notare, però, come i candidati democratici che riescono a vincere in Indiana siano mediamente più "conservatori" che nel resto del Paese. Non siamo ai livelli dei Dixiecrats del Sud - soprattutto perché la composizione demografica è nettamente diversa - ma si tratta di un indicatore importante dello "spostamento a destra" dell'Hoosier State rispetto agli standard del Midwest.

Abbiamo esitato a lungo prima di assegnare all'Indiana lo status (temporaneo) di GOP Leaning. Sondaggi a parte, ci sembra davvero improbabile che Obama riesca a recuperare il distacco di oltre 500mila voti (su 2 milioni e mezzo totali) accumulato da Kerry nei confronti di Bush nel 2004, portandosi a casa gli 11 electoral votes in palio. La forte componente white collar dello stato, poi, dovrebbe in teoria favorire McCain anche tra gli Indipendenti. Per perdere in Indiana, insomma, il GOP dovrebbe collassare - a livello nazionale - verso percentuali simili a quelle del 1964. E' possibile, naturalmente, ma a nostro avviso estremamente improbabile. Per quieto vivere, però, ci limitiamo per ora a formalizzare quel margine di dubbio statistico che molti istituti di ricerca hanno registrato nelle scorse settimane. In attesa che, con l'avvicinarsi di novembre, l'Indiana restituisca al GOP certezze più solide.

sabato 21 giugno 2008

Boom!

Secondo Newsweek, Obama è cresciuto di 4 punti percentuali in un mese (da 46 a 51), mentre McCain è crollato di 10 (da 46 a 36). Se ci credete, accomodatevi. Per i tracking quotidiani di Gallup e Rasmussen, invece, il vantaggio di Obama è rispettivamente di 2 e 4 punti.

USA 2008 - 13. Illinois


ILLINOIS (21)
Popolazione: 12.831.970 (5°)
Capitale: Springfield (116,482)
Città più grande: Chicago (2.896.016)
Governatore: Rod Blagojevich (D)
Senato: Richard Durbin (D); Barack Obama (D)
Camera: DEM 11 GOP 8. Bobby Rush (D); Jesse Jackson Jr. (D); Daniel Lipinski (D); Luis Gutierrez (D); Rahm Emanuel (D); Peter Roskam (R); Danny Davis (D); Melissa Bean (D); Jan Schakowsky (D); Mark Steven Kirk (R); Jerry Weller (R); Jerry Costello (D); Judy Biggert (R); Bill Foster (D); Tim Johnson (R); Donald Manzullo (R); Phil Hare (D); Ray Lahood (R); John Shimkus (R)

L'Illinois è il 7° stato meno conservatore degli Stati Uniti. Nel 2004, il voto per il candidato repubblicano è stato del 12,8% inferiore alla media nazionale. E il trend degli ultimi anni è favorevole al Partito Democratico. Fino all'era Clinton, l'Illinois del dopoguerra era sempre stato un battleground state con una spiccata predilezione per i repubblicani, tanto che dal 1948 al 1988 gli unici democratici a conquistare lo stato alle presidenziali sono stati Kennedy nel 1960 (per soli 9.000, contestatissimi, voti) e Johnson nel 1964. Perfino il governatore dello stato, Adlai Stevenson, perse sia nel 1952 che nel 1956 contro Eisenhower. Dal 1992, però, l'Illinois si è comportato elettoralmente in modo sempre più simile alla sua città più popolosa - Chicago - che ormai da più di un secolo è una delle roccaforti più impenetrabili del Partito Democratico. Oggi l'Illinois è lo stato più "blu" di tutto il Midwest.

Dominata dai democratici già nella seconda metà del 19° secolo, la politica di Chicago ha sempre rappresentato una deviazione progressive rispetto al mood generale degli Stati Uniti (ma anche del resto dell'Illinois), con l'ultimo sindaco repubblicano eletto addirittura nel 1927. E nessun uomo politico ha rappresentato - anche nei suoi lati oscuri - il predominio democratico sulla città quanto il sindaco Richard J. Daley (autore, tra l'altro, del "furto" ai danni di Nixon che costò 27 electoral votes al GOP nel 1960), in carica dal 1955 al 1976 e padre dell'attuale sindaco Richard M. Daley.

Nel ciclo elettorale del 2008, con il senatore junior dello stato (Barack Obama) candidato alla presidenza, i 21 electoral votes dell'Illinois sono ormai proprietà esclusiva del Partito Democratico. Gli unici due sondaggi condotti quest'anno (a gennaio e febbraio) vedevano Obama in vantaggio di 21 e 29 punti. Sondaggi più recenti, con ogni probabilità, sarebbero ancora più sfavorevoli al GOP. Nella corsa per il Senato, anche il seggio di Richard Durbin (D) è al riparo da ogni sorpresa, mentre sono molto a rischio quelli dei repubblicani Jerry Weller (11° distretto) e Mark Steven Kirk (10°). L'unico deputato democratico a soffrire, ma neppure troppo, potrebbe essere Melissa Bean nell'8° distretto.


Geograficamente, come abbiamo già detto, il controllo democratico dello stato è dovuto soprattutto al dominio totale esercitato nella Cook County di Chicago, dove vota quasi un terzo degli elettori totali (nel 2004, Kerry a Cook County ha battuto Bush 70,2 a 29,1, con più di 800mila voti di vantaggio). Nel resto dell'Illinois - a parte qualche contea del nord-ovest al confine con l'Iowa (Rock Island, Whiteside) e nel sud-ovest al confine col Missouri (Madison, St. Clair) - il GOP è sempre davanti, con punte particolarmente significative al confine orientale con l'Indiana e, in genere, in tutte le zone rurali dello stato. Si tratta di contee, però, che non hanno un numero di elettori sufficiente a colmare il vantaggio accumulato dai democratici a Chicago e nelle aree metropolitane delle Quad Cities e di East St. Louis.

Se ci fosse una colonna "blu notte", probabilmente saremmo costretti a catalogare l'Illinois in questa categoria. I simpatizzanti democratici, però, dovranno accontentarsi di un verdetto DEM Solid particolarmente solido. Altri 21 electoral votes per Obama.

venerdì 13 giugno 2008

USA 2008 - 12. Idaho


IDAHO (4)
Popolazione: 1.293.953 (39°)

Capitale: Boise (211.473 - metro area 635.450)
Governatore: C.L. "Butch" Otter (R)
Senato: Larry Craig (R); Michael Crapo (R)
Camera: Bill Sali (R); Michael Simpson (R)

L'Idaho è il 3° stato più conservatore degli Stati Uniti. Nel 2004, il voto per il candidato repubblicano è stato del 35,7% superiore alla media nazionale. E il trend degli ultimi anni è favorevole al GOP. Nel dopoguerra, gli unici due democratici a conquistare il Gem State sono stati Truman nel 1948 (+2,7 contro Dewey) e Johnson nel 1964 (+1,9 contro Goldwater). In tutte le altre le elezioni il GOP ha stravinto, con vantaggi spesso imbarazzanti: Eisenhower '52 (+31,0); Eisenhower '56 (+22,4); Nixon '60 (+7,5); Nixon '68 (+26,1); Nixon '72 (+38,2); Ford '76 (+22,7); Reagan '80 (+31,3); Reagan '84 (+46,0); Bush '88 (+26,0); Bush '92 (+13,6); Dole '96 (+19,5); Bush '00 (+39,5); Bush '04 (+38,1).

Storicamente, dopo la Guerra Civile molti democratici del Sud si trasferirono nel Territorio dell'Idaho (non ancora riconosciuto come Stato): questo portò al controllo democratico di molte legislature locali, anche se i governatori eletti erano di solito repubblicani. Dal 1880 in poi, però, il GOP diede inizio a una lunga epoca di predominio che, con qualche interruzione (il Populist Party a cavallo tra la fine dell'800 e l'inizio del '900, i democratici durante la Grande Depressione), prosegue ancora oggi.

Nell'unico sondaggio Obama-McCain condotto quest'anno (a febbraio da Survey USA), il candidato repubblicano aveva 13 punti di vantaggio su quello democratico (52-38), ma si tratta di numeri vecchi che non hanno troppa rilevanza. La realtà è che i 4 electoral votes dell'Idaho non sono in pericolo per il GOP. E questo spiega anche l'assoluta mancanza di interesse degli istituti di ricerca per lo stato. L'unico fattore di incertezza potrebbe essere la corsa per il seggio del Senato lasciato vacante da Larry Craig (sorpreso in un bagno pubblico in atteggiamenti, per così dire, inconsueti). Ma sembra proprio che il "successore designato" dai repubblicani (il vicegovernatore Jim Risch) non avrà problemi a battere lo sfidante democratico, l'ex congressman Larry LaRocco. Anche in caso di sorprese al Senato, però, non si tratta di qualcosa in grado di incidere significativamente sulla dinamica della sfida per le presidenziali.


Geograficamente, il dominio repubblicano degli ultimi anni è esteso a tutto il territorio dell'Idaho. Nel 2004, Bush Jr. ha vinto in 43 contee su 44, lasciando a Kerry soltanto Blaine County (sede della stazione sciistica di Sun Valley, dove il senatore del Massachussetts possiede uno splendido chalet). La forza del GOP tende a crescere esponenzialmente spostandosi verso i confini sudorientali dello stato con Utah e Wyoming, dove si trovano alcune contee (Cassia, Oneida, Franklin, Bear Lake) in cui i repubblicani viaggiano abbondantemente oltre l'80% dei voti. A Madison County, a poche miglia dal confine con Montana e Wyoming, nel 2004 Bush ha conquistato il 92% dei consensi (oltre 10mila voti) contro il 7,1% di Kerry (poco più di 800 voti). Si tratta di un caso limite, naturalmente, ma le contee dell'Idaho dove il GOP non riesce a sfondare il muro del 60% sono davvero pochissime.

In assenza di una categoria ancora più "rossa", l'Idaho vola, di diritto, nella colonna GOP Solid. Sono 4 electoral votes per il partito repubblicano che neppure un cataclisma potrebbe far scivolare verso i democratici.

lunedì 9 giugno 2008

USA 2008 - 11. Hawaii


HAWAII (4)
Popolazione: 1.211.537 (42°)
Capitale: Honolulu (371.657)
Governatore: Linda Lingle (R)
Senato: Daniel Inouye (D); Daniel Akaka (D)
Camera: Neil Abercrombie (D); Mazie Hirono (D)

Le Hawaii sono il 10° stato meno conservatore degli Stati Uniti. Nel 2004, il voto per il candidato repubblicano è stato del 11,2% inferiore alla media nazionale, ma il trend degli ultimi anni è favorevole al GOP, con il vantaggio di Kerry nei confronti di Bush (+8,8%) praticamente dimezzato rispetto a quello di Gore nel 2000 (+18,3%). Da quando partecipano alle presidenziali (dal 1960, visto che lo stato ha aderito all'Unione il 21 agosto 1959), gli unici repubblicani a vincere nelle Hawaii sono stati Reagan nel 1984 e Nixon nel 1972. Lo stesso Nixon, alle elezioni del 1960 contro Kennedy, perse lo stato per soli 115 voti (-0,06%).

L'unico sondaggio recente (per così dire) condotto quest'anno nelle Hawaii è stato quello di Survey USA a fine febbraio, che registrava un vantaggio di Obama nei confronti di McCain intorno ai 30 punti percentuali (61-31). E il fatto che il senatore junior dell'Illinois sia nato proprio a Honolulu (anche se poi è cresciuto a Los Angeles, New York e Chicago) mette senz'altro al riparo i democratici da qualsiasi tipo di sorpresa. Fino a pochi giorni dalle elezioni del 2004, i repubblicani - confortati da una serie di sondaggi positivi - avevano sperato di poter interrompere il dominio democratico sullo stato. E l'elezione a governatore di Linda Lingle nel 2002 contribuiva ad accrescere le aspettative del GOP di poter trasformare le Hawaii almeno in un purple state. Nel 2004, pur con una performance superiore al 2000, queste aspettative vennero deluse. Nel 2008, complici anche le due sfide per la Camera (con la rielezione scontata dei candidati democratici), la prospettiva di una vittoria dei repubblicani è semplicemente fantapolitica.


Geograficamente, l'arcipelago è diviso in quattro contee. Da Nord a Sud: Kawai, Honolulu, Maui e Hawaii (con la Honolulu County che, da sola, ha il doppio degli elettori delle altre tre contee messe insieme). I democratici sono abitualmente molto più forti degli avversari nelle tre contee minori, mentre soffrono un po' a Honolulu. In ogni caso, chi vince nello stato in genere vince in tutte e quattro le contee. Con due sole eccezioni dal 1960 ad oggi: Reagan nel 1980 (vittoria a Honolulu County ma sconfitta nello stato); Nixon nel 1960 (vittoria nelle tre contee minori ma sconfitta nello stato).

Nel ciclo elettorale 2008, le Hawaii appartengono di diritto alla colonna DEM Solid, in barba a qualsiasi considerazione sui trend politici o demografici. L'Aloha State è terra di Obama. C'è poco da discutere e ancora meno da analizzare. Altri 4 electoral votes al partito democratico.

venerdì 6 giugno 2008

Le tribù Obamiste italiane

Domani su Liberal quotidiano

Walter Veltroni, a sorpresa, non c’è. Eppure l’elenco di “leader politici esteri” che hanno fatto un endorsement a favore di Barack Obama, pubblicato da Wikipedia, è piuttosto corposo. C’è Ségolène Royal, candidata sconfitta all’Eliseo, ma anche l’ex primo ministro francese Laurent Fabius. E poi il sindaco di Parigi, Bertrand Delanoë; il primo ministro svedese Fredrik Reinfeldt; il (discusso) membro del parlamento britannico, George Galloway; il vice primo ministro (e ministro delle Finanze) olandese Wouter Bos; il leader del Liberal Party canadese, Michael Ignatieff. Di italiani, neppure l’ombra. Strano, perché è proprio nel nostro Paese che le agguerrite tribù dell’Obamismo hanno trovato il terreno più fertile per la propria espansione.

Veltronian-kennediani
In cima alla lista, naturalmente, ci sono quelli che - sulla scia dell’ex sindaco di Roma (e candidato, sconfitto anche lui, alla presidenza del Consiglio) - vedono in Obama la reincarnazione di quella mistica kennediana che ha nutrito, per decenni, le anime di una gran parte delle sinistre “moderate” europee. Quelli, per intenderci, a cui non interessa troppo che il senatore dell’Illinois possa diventare il primo presidente “nero” degli Stati Uniti, ma che restano affascinati soprattutto dalla sua potenza retorica, dalla sua capacità di ammaliare le folle, dal fatto che è giovane, bello e gonfio di carisma. Sono gli stessi che hanno creduto ciecamente nella “favoletta” kennediana che ci è stata propinata per anni, secondo la quale John Fitzgerald Kennedy non aveva vinto le elezioni del 1960 soltanto grazie ai brogli del sindaco di Chicago, non aveva nessun rapporto con la mafia, non aveva rischiato di scatenare un conflitto nucleare con l’Urss durante la crisi missilistica cubana, non aveva aumentato il numero di soldati americani in Vietnam da 800 a 16.300. Per la tribù veltronian-kennediana, insomma, Obama - proprio come JFK - è una sorta di erede di Madre Teresa di Calcutta, solo un pizzico più sexy. Ai margini di questa tribù, in una capanna un po’ isolata dal centro del villaggio, vive Furio Colombo. Anche lui considera Barack l’erede di un Kennedy, ma non John F. - per gli amici Jack - bensì Ted, l’esponente più imbarazzante di questa imbarazzante dinastia a stelle e strisce.

Black Panthers
C’è poi una tribù - che abita soprattutto dalle parti di Liberazione, del Manifesto e di quella che fu la Sinistra arcobaleno - che vede in Obama l’erede spirituale di Angela Davis, la leader comunista delle Black Panthers che all’inizio degli Anni Settanta fu arrestata per l’omicidio del giudice Harold Haley (poi prosciolta per insufficienza di prove, malgrado fosse la proprietaria dell’arma del delitto) e oggi insegna “Storia della coscienza” all’Università della California e si batte per l’abolizione dei carceri. Obama, secondo questi nostalgici delle rivolte nei ghetti, darà voce all’Altra America, quella dei neri e dei diseredati, che il gigantesco complotto del “complesso militare e capitalistico” (probabilmente manovrato dalla finanza giudea) ha sempre schiacchiato senza pietà. Quell’America, insomma, che potrebbe finalmente ripresentarsi all’appuntamento con la Storia. Per essere, con ogni probabilità, travolta dall’elettorato come è sempre accaduto in passato. I rapporti tra la moglie di Barack, Michelle, con personaggi del calibro di Farrakhan, “ministro supremo” della Nation of Islam, regalano alla tribù delle Pantere Nere qualche prova a sostegno della loro distorta utopia.

MLK Nostalgia
Una versione “light” delle Pantere Nere, è rappresentata da chi vede in Obama una parafrasi moderna del “sogno” di Martin Luther King. Condita da quella massiccia dose di pacifismo che tanto va di moda tra gli anti-americani che si professano filo-americani. Le scivolate (vere o presunte) di Obama verso l’appeasement nei confronti delle dittature nemiche degli Usa, la sua opposizione nei confronti della guerra in Iraq, la sua “visione” di riconciliazione nazionale, la sua promessa di cambiare drasticamente l’approccio unilateralista (vero o presunto) seguito dall’amministrazione Bush: sono questi i sogni che, con Obama insediato alla Casa Bianca, potrebbero presto trasformarsi in incubi.

Obamisti generici
L’ultima tribù degli Obamisti italiani (ed europei) è quella, più generica, degli anti-repubblicani ad ogni costo. Per loro fa poca differenza se a sfidare John McCain - o qualsiasi altro candidato del Grand Old Party - sia Obama, Hillary, Edwards o Paperinik. L’importante è mettere un freno alla minaccia (guerrafondaia, bigotta e un po’ fascista) rappresentata dai repubblicani. In nome della superiorità morale dell’America democratica. Questi reduci della sconfitta di Kerry nel 2004 continuano la loro battaglia di retroguardia anche nel 2008. Secondo i sondaggi, in Europa sono la maggioranza schiacciante della popolazione. A decidere il prossimo inquilino della Casa Bianca, però, per fortuna saranno gli americani.

mercoledì 4 giugno 2008

USA 2008 - 10. Georgia


GEORGIA (15)
Popolazione: 8.186.453 (9°)
Capitale: Atlanta (486.411 - metro area 5.138.223)
Governatore: Sonny Perdue (R)
Senato: Saxby Chambliss (R); Johnny Isakson (R)
Camera: GOP 7 DEM 6 - Jack Kingston (R); Sanford Bishop (D); Lynn Westmoreland (R); Hank Johnson (D); John Lewis (D); Thomas Price (R); John Linder (R); Jim Marshall (D); Nathan Deal (R); Paul Broun, Jr. (R); Phil Gingrey (R); John Barrow (D); David Scott (D).

La Georgia è il 17° stato più conservatore degli Stati Uniti. Nel 2004, il voto per il candidato repubblicano è stato del 14,1% superiore alla media nazionale e il trend degli ultimi anni è favorevole al GOP. L'ultimo democratico a vincere nel Peach State è stato Bill Clinton nel 1992 contro Bush Sr, per poche migliaia di voti (43,4 contro 42,8), anche se Clinton fu sconfitto da Bob Dole nel 1996 (47,0 contro 45,8). Fino alle elezioni del 1964, la Georgia è stata una delle roccaforti più impenetrabili del partito democratico. Alle presidenziali, il candidato democratico ha vinto 24 elezioni consecutive dal 1868 al 1960. E un governatore democratico è sempre stato eletto negli anni tra il 1872 e il 2002. Si tratta del record di dominio incontrastato di un singolo partito nella storia di tutti gli stati dell'Unione.

Questo dominio, centrato su candidati democratici molto conservatori (i cosiddetti dixiecrats) - almeno secondo gli standard nazionali - ha monopolizzato la vita politica della Georgia dalla Reconstruction agli Anni Sessanta. Fino alla rivoluzione di Goldwater alle presidenziali (Jimmy Carter escluso). E fino alla vittoria di Sonny Perdue alle elezioni per il governatore. Qualche esempio, in ordine sparso, nel XX secolo, per capire la portata di questo fenomeno storico: Kennedy-Nixon (62-37); Stevenson-Eisenhower (66-32); Truman-Dewey (60-18); Roosevelt-Landon (87-12); Roosevelt-Hoover (91-7). Perfino Alfred Smith, nel 1928, riuscì a battere Herbert Hoover (56-43), malgrado la vittoria landslide dei repubblicani a livello nazionale.

Quella degli ultimi decenni, invece, è la storia di uno stato sempre più "rosso". E dai sondaggi condotti negli ultimi mesi non emerge alcun segnale che potrebbe mettere in pericolo i 15 electoral votes conquistati dal GOP nel 2004. Strategic Vision, Survey USA e Rasmussen Reports registrano un vantaggio di McCain nei confronti di Obama intorno ai 13-14 punti percentuali. Lo stesso ordine di grandezza con cui Bush Jr. ha sconfitto Kerry. E nessuna delle sfide per la Camera o il Senato in programma sembra in grado di alterare significativamente la dinamica della sfida. Con Hillary, peraltro, le cose non sarebbero cambiate più di tanto.


Nell'era post-Goldwater (a parte qualche eccezione), il dominio democratico si è ridotto - sotto il profilo geografico - a qualche enclave sparsa sul territorio. La zona intorno alla capitale Atlanta (Fulton, DeKalb e Clayton), prima di tutto, poi un grumo di contee rurali al confine sud-occidentale con Alabama e Florida, l'area urbana di Augusta al confine orientale con la South Carolina, la città di Savannah. Il GOP, invece, ormai prevale in tutto il resto dello stato che fu il cuore pulsante della Confederazione, con punte al Nord (Forsyth County), al Centro (Paulding County) e al Sud (Colquitt County) che sfiorano - e a volte superano - l'80%. Un ruolo importante nelle dinamiche politiche interne allo stato, naturalmente, è stato giocato dalla Great Migration della popolazione afro-americana che è passata dal 50% al 28% del totale.

A meno di cataclismi politici ad oggi imprevedibili, la Georgia è GOP Solid ed è destinata a restarlo anche nei prossimi mesi. La candidatura di Obama porterà probabilmente ad un turn-out afro-americano molto più elevato del solito, ma servirebbe un miracolo per sovvertire i rapporti di forze. Con un candidato più conservatore (o presunto tale, come Mike Huckabee), il GOP avrebbe perfino potuto puntare a un vantaggio superiore a quello del 2004. Con McCain, in ogni caso, questo margine è destinato a restare in doppia cifra.

martedì 3 giugno 2008

Countdown

Domani in edicola su Liberal quotidiano.

Comunque vada (e comunque siano andate le primarie in programma ieri notte, ora italiana, in Montana e South Dakota), è oggi il giorno decisivo per la nomination democratica alla Casa Bianca. Proprio oggi, infatti, Barack Obama potrebbe tentare il colpo di reni definitivo verso quota 2.118 delegati, il “numero magico” che gli consentirebbe di affrontare senza rischi la convention di agosto a Denver (Colorado). Con il compromesso raggiunto dai notabili democratici sulla sorte dei delegati di Florida (dimezzati) e Michigan (neutralizzati), qualsiasi risultato esca dalle urne di Montana e South Dakota non è in grado di incidere più di tanto sull’esito della sfida. I delegati in palio nei due stati sono appena 31 e l’ipotesi più probabile è che, dopo il voto, vengano ripartiti quasi equamente tra i due candidati. Il nodo della questione, dunque, sono ancora una volta i “superdelegati” che non vengono eletti dal voto popolare - o dai caucus - ma sono espressione diretta del partito.

Barack Obama sta lavorando disperatamente per raggiungere quota 2.118 nelle ore immediatamente successive alla chiusura delle urne in Montana e South Dakota. O almeno entro la fine di questa settimana. Nel conteggio di Real Clear Politics (uno dei più affidabili), attualmente al senatore junior dell’Illinois mancano 42 delegati. Anche considerandone 17-18 conquistati con le ultime elezioni primarie in programma (nella migliore delle ipotesi), ne mancherebbero circa 25 per chiudere definitivamente la partita. Perché, come scrive Tom Bevan proprio su Rcp, «una volta fatto uscire il genio fuori dalla bottiglia, per Hillary sarebbe praticamente impossibile ricacciarlo dentro». Al ritmo di 2-3 endorsement di “superdelegati” al giorno (ieri è stato il turno di Maria Chappelle-Nadal del Missouri e di Joyce Lalonde del Michigan), Obama rischia però di sprecare tempo prezioso. Mentre adesso, oggettivamente, si è creata una “window of opportunity” che sarebbe importante non lasciarsi scappare.

Lo sa benissimo Obama, che sta muovendo mari e monti per assicurarsi, nel giro di 24-48 ore, il numero di deputati, senatori, governatori e burocrati che ancora gli mancano. E lo sa benissimo la Clinton Attack Machine che, seppure acciaccata, non sembra intenzionata a rinunciare di sparare le sue ultime cartucce. Ieri, per esempio, il mondo dei blog vicini al partito democratico è stato scosso da due voci incontrollate e contrastanti. La prima, proveniente dall’Obama Camp, parlava di una e-mail fatta circolare negli ambienti vicini a Hillary secondo la quale l’ex First Lady era sul punto di mollare la presa, convocando un discorso di “commiato” a New York. La seconda, diffusa da un prestigioso blogger pro-Hillary, fantasticava dell’esistenza di un video in cui la moglie di Obama, Michelle, si lasciava andare a sproloqui razzisti contro i “bianchi”. Alla fine della giornata, entrambe le voci erano state ridimensionate. Hillary terrà effettivamente un discorso a New York, ma non c’è nessuna prova certa che in quella sede venga annunciato il suo ritiro dalla contesa. E del fantomatico video di Michelle Obama ancora non c’è traccia, tanto che la tesi della “bufala” è ormai la più accreditata.

Tanto rumore per nulla, insomma, come è accaduto molto di frequente in questa lunga ed estenuante rincorsa alla nomination democratica. Ma soprattutto la dimostrazione che, tra i due sfidanti, il clima è ancora tesissimo, malgrado gli inviti sempre più frequenti alla necessità di formare un “dream ticket” in grado di neutralizzare John McCain a novembre e assicurare una vittoria landslide ai democratici. Secondo la Cnn, che cita una «fonte anonima molto vicina a Hillary», la senatrice di New York nel suo discorso di ieri notte avrebbe dichiarato di «essere pronta a fare tutto il necessario a lavorare per la vittoria dei Democratici».

Una presa di posizione, seppure indiretta, che alcuni hanno interpretato come un’apertura nei confronti dell’avversario, al prezzo - piuttosto salato, per la verità - della vicepresidenza.
Dal canto suo, negli ultimi comizi Obama ha espresso ripetutamente parole di apprezzamento per Hillary, sottolineandone le capacità di combattente ed esprimendo ammirazione e rispetto. Oggi, con ogni probabilità, scopriremo se si tratta soltanto di schermaglie tattiche ad uso e consumo dei media o se i due, effettivamente, sono vicini a raggiungere un accordo che sarebbe forse in grado di alterare la dinamica elettorale. In caso contrario - e a nostro giudizio si tratta ancora del caso più probabile - la strada democratica verso la Casa Bianca potrebbe essere più in salita di quanto molti prevedevano appena qualche mese fa.

In un contesto politico totalmente sfavorevole al Grand Old Party, che rischia di perdere parecchi seggi sia alla Camera che al Senato, infatti, la candidatura di McCain (e il prolungato scontro fratricida in campo democratico) rende “non impossibile” la terza presidenza repubblicana consecutiva. Analizzando le medie dei sondaggi nazionali, il vantaggio di Obama nei confronti del senatore dell’Arizona è inferiore al margine d’errore statistico, con i tracking quotidiani di Gallup e Rasmussen Reports che oscillano, ormai da qualche giorno, tra un leggero vantaggio di McCain e la perfetta parità.

La situazione è ancora più complicata nel calcolo degli electoral votes, stato per stato, con Obama forse in grado di strappare ai repubblicani (rispetto al 2004) Colorado e New Mexico, ma in grave sofferenza in alcuni stati industriali del Nord, come Michigan e Wisconsin. Senza contare che il senatore dell’Illinois è molto più debole di Hillary nello stato-chiave della Florida. La mappa provvisoria del collegio elettorale di Real Clear Politics, ad oggi, assegna a Obama 228 voti (di cui soltanto 60 “solid”) e a McCain 198 (di cui 96 “solid”). Gli altri 120 electoral votes sono ancora nella colonna “toss-up”.

Si tratta degli undici stati (Nevada, Colorado, New Mexico, Missouri, Wisconsin, Michigan, Indiana, Ohio, Virginia, New Hampshire e North Carolina) in cui Obama e McCain si giocheranno le loro chance di vittoria. A dare retta esclusivamente ai sondaggi delle ultime settimane, necessariamente poco significativi a cinque mesi dal voto, Obama riuscirebbe a superare - a stento - la quota di 270 necessaria per vincere le elezioni. Ma McCain lo incalza a brevissima distanza. E basterebbe una vittoria in Ohio, tanto per fare un esempio, per regalare ai repubblicani la Casa Bianca. In un anno in cui neppure il più fedele dei sostenitori del Gop avrebbe scommesso un dollaro sul proprio partito.

UPDATE. Prima questo, poi questo. Sarà tutto vero, per carità, ma il giorno che inizierò a credere ai lanci di Associated Press sulla politica americana siete autorizzati a spararmi un colpo alla nuca. UPDATE/2. Appunto.