mercoledì 29 aprile 2009

I Mastella d’America

Ne manca uno. Un solo senatore perché il partito democratico raggiunga la fatidica “quota 60” conquistando, di fatto, il controllo totale del Congresso. Con 60 senatori, infatti, i democratici avrebbero una maggioranza a prova di ostruzionismo, negando qualsiasi margine di manovra politica ai repubblicani. E il “senatore mancante” dotrebbe arrivare presto, se - come sembra - sarà confermata (a cinque mesi dal voto) la contestatissima vittoria di Al Franken su Norm Coleman in Minnesota. Arlen Specter, dal 1980 senatore della Pennsylvania, ha scelto infatti di abbandonare il partito repubblicano per correre, come democratico, alle prossime elezioni di mid-term.

Nella conferenza stampa con cui ha annunciato il “ribaltone”, Specter ha parlato di un Gop scivolato troppo a destra per un moderato come lui. La realtà, invece, è più prosaica. Specter è sempre stato considerato un “rino” (republican in name only) dalla base del partito. Già sfidato - e quasi battuto - alle primarie nel 2004, nel 2010 Specter avrebbe dovuto nuovamente raccogliere la sfida di Pat Toomey, presidente del Club for Growth (un influente think tank dell’ala “liberista” del partito). Con una significativa differenza rispetto al passato: nei sondaggi Toomey viaggiava con più di 20 punti percentuali di vantaggio rispetto a Specter. Odiato dalla base, mal sopportato dalla leadership del Gop (soprattutto dopo il voto favorevole allo stimulus di Obama) e indietro nei sondaggi, Specter ha deciso che i suoi giorni nella “big tent” reaganiana erano terminati, scegliendo il cambio di casacca per evitare la fine di una lunga carriera politica. A meno che, naturalmente, qualche democratico non si metta di traverso nelle primarie.

La reazione del partito repubblicano all’abbandono di Specter è stata piuttosto dura, con l’eccezione di qualche altro esponente dell’ala moderata, soprattutto alla luce di un precedente che risale al 2001. Quando Jim Jeffords, repubblicano moderato del Vermont, abbandonò il partito regalando la maggioranza del Senato ai democratici, Specter propose «una regola per impedire ogni futuro cambio di partito ai senatori in carica». Una regola che, se applicata, gli avrebbe oggi impedito il party-switch. Ripercorrendo la storia recente degli Stati Uniti non si trovano molti episodi del genere.

Partiamo dal Senato. Il caso più recente è quello di Joe Lieberman (Connecticut): eletto al senato nel 1988 come democratico; rieletto nel 1994 e nel 2000; candidato (sconfitto) alla vicepresidenza nel 2000 in ticket con Al Gore; dopo la sconfitta alle primarie democratiche nel 2006 decide di correre come indipendente e vince le elezioni. Oggi resta “indipendente” anche se è associato al caucus democratico, malgrado il sostegno a McCain alle ultime presidenziali.

Il caso di James Jeffords (Vermont) è senza dubbio quello più eclatante. Repubblicano dal 1989 al 2001, il suo cambio di casacca porta i democratici a controllare il Senato - che in quel momento è diviso 50-50 con il voto decisivo del vicepresidente Dick Cheney - fino alla vittoria del Gop alle elezioni di mid-term del 2002. Uno switch rilevante, al contrario di quello brevissimo (dal 13 luglio al 1 novembre del 1999) che coinvolge Robert Smith (New Hampshire), passato dai repubblicani agli indipendenti per poi tornare quasi immediatamente al Gop, in cambio della succulenta presidenza della commissione ambiente, lasciata libera dalla morte del senatore repubblicano del Rhode Island, John Chafee.

Tornando indietro nel tempo, dal 1995 al 1964 troviamo soltanto qualche democratico passato ai repubblicani. Nel 1995, Ben Nighthorse Campbell (eletto appena due anni prima), rimasto in carica fino al 2005. Nel 1994, Richard Shelby (Alabama), eletto con i democratici nel 1987 e ancora oggi esponente di rilievo del Gop. Entrambi erano classici prototipi di Reagan Democrats, tornati a casa dopo la “rivoluzione conservatrice” del 1994. Poi niente, fino al caso di Harry F. Byrd, Jr. (Virginia), che nel 1971 abbandona il partito democratico che lo aveva fatto eleggere nel 1965, in polemica con la leadership del partito in Virginia. Byrd, figlio d’arte, non entra nel Gop ma resta indipendente fino al 1983 e continua a votare - più o meno - in linea con in resto dei democratici.

Più clamoroso fu l’addio di J. Strom Thurmond (South Carolina), democratico dal 1954 al 1964 e poi repubblicano fino al 2003. Thurmond è stato il terzo senatore statunitense a superare i cent’anni d’età e l’unico a festeggiare il secolo di vita ancora in carica. Spirito irrequieto fin dagli esordi, Thurmond (eletto governatore della South Carolina nel 1946), partecipa alle presidenziali del 1948 - fondando di fatto i Dixiecrat sudisti - in polemica con la decisione di Harry Truman di abolire la segregazione razziale nell’esercito. Supera il milione di voti, ottiene il 2,4% dei consensi e conquista 39 grandi elettori, tutti negli stati del Sud. Nel 1950 si candida al Senato ma viene sconfitto dal democratico Olin D. Johnston. È la sua unica sconfitta in un’elezione locale. Alle presidenziali del 1952 appoggia il repubblicano Dwight D. Eisenhower. Due anni dopo viene eletto al Senato con il 63% dei voti, battendo un altro record: è il primo candidato write-in (non presente nella scheda elettorale, ma il cui nome deve essere scritto manualmente dall’elettore) a vincere una consultazione elettorale negli Usa. Con l’inizio della “southern strategy” repubblicana, Thurmond decide di abbandonare il partito d’origine e il 16 settembre del 1964 entra nel partito repubblicano di Barry Goldwater, in cui resta fino alla morte. Trovando il tempo di sconfessare gran parte delle politiche segregazioniste che aveva appoggiato negli anni precedenti.

Per trovare altri “Mastella d’America” al Senato bisogna spingersi ancora più in là. Wayne Morse (Oregon) parte repubblicano (1945-1953), diventa indipendente (1953-1955) e finisce democratico (1955-1969). Henrik Shipstead (Minnesota) inizia la sua carriera nel Farmer-Labor (1923-1941) e la prosegue nel partito democratico (1941-1947). All’inizio del ’900, infine, fa storia la dinastia La Follette in Wisconsin, Robert M. e il figlio Robert Jr., che lasciano il partito repubblicano - rispettivamente nel 1925 e nel 1935 - per correre sotto le insegne Progressive.

Ripercorrere la storia della Camera è molto meno interessante, soprattutto perché mai il passaggio di un congressman da un partito all’altro ha provocato cambi di maggioranza o scossoni politici. Ricordiamo, per amor di cronaca, il caso di Nathan Deal (Georgia), passato ai repubblicani nel 1996 e diventato uno dei membri più conservatori del partito. E quello di Bill Tauzin (Louisiana), co-fondatore dei Blue Dog Democrats (il caucus dei democratici moderati), approdato al Gop nel 1995. Più recente, infine, il “ribaltone” di Rodney McKinnie Alexander (Lousiana), che aderisce al partito repubblicano appena prima della deadline elettorale del 2004, in polemica con la vittoria di Kerry alle primarie. Uno switch che fa infuriare i democratici e provoca la reazione entusiasta del Gop e del presidente Bush. Sembra trascorso un secolo.

(domani in edicola su Liberal quotidiano)

100 di questi giorni

1) Durante la campagna elettorale Obama criticava le spese folli del Congresso fatte con gli "earmarks". Poi ha firmato un budget che ne contiene più di 9.000.

2) «Non c'è dubbio che stiamo vivendo al di sopra dei nostri mezzi e che dovremo fare qualche aggiustamento». Obama durante la campagna.

3) Il deficit di quest'anno: 1.5 trilioni di dollari.

4) Ha chiesto al suo governo di tagliare i costi dei ministeri di 100 milioni di dollari: uno strabiliante 0,0027%!

5) «La Casa Bianca dice che il presidente non è a conoscenza di alcun tea party». Abc News, 15 aprile.

6) «Mr. Obama è un eccellente oratore, ma sta diventando famoso in America come il "presidente teleprompt". Sky News, 18 marzo.

7) All'inizio di febbraio, ha tolto al dipartimento del commercio la responsabilità del censimento previsto nel 2010, politicizzando in un colpo solo sia la distribuzione degli aiuti federali che la definizione dei collegi elettorali.

8) Obama ha scelto Nancy Killefer come First Chief Performance Officer, per controllare le spese governative. Ma si è dovuta ritirare per problemi con il fisco.

9) La Turchia tenta di bloccare la nomina del danese Anders Fogh Rasmussen a segretario generale della Nato (per la polemica relativa alle vignette su Maometto). Sarkozy e la Merkel si indignano. Obama raddoppia il suo appoggio all'entrata della Turchia nella Ue.

10) ... senza mai menzionare il genocidio degli armeni.

11) L'immagine di Obama che stringe la mano a Hugo Chávez.

12) Hugo Chávez gli regala il pamphlet anti-americano Le vene aperte dell'America Latina. Obama non si lamenta. Almeno non sono dvd.

13) Il presidente del Nicaragua, Daniel Ortega, si lancia in una invettiva di 50 minuti contro gli Stati Uniti chiamandolo «presidente di un impero». Obama resta ad ascoltare in silenzio.

14) I manager di Aig ricevono 165 milioni di dollari in bonus, malgrado i 173 miliardi di bailout a spese dei contribuenti.

15) «Per mesi, l'amministrazione Obama e i membri del Congresso sono stati a conoscenza dei bonus Aig, ma nessuno ha protestato prima che la notizia diventasse pubblica». Associated Press, 18 marzo.

16) «Dopo aver fatto pressioni sul Congresso per approvare in fretta lo stimulus da 787 miliardi di dollari, Obama si è preso una vacanza di tre giorni». NewYork Post, 15 febbraio.

17) La sua promessa di inaugurare una nuova era bipartisan si è rivelata clamorosamente falsa.

18) «Negli anni '90 una piccola percentuale di militari ha aderito a formazioni estremiste perché disillusi o colpiti dagli effetti psicologici della guerra. Oggi si sta assistendo allo stesso fenomeno». Rapporto di intelligence del dipartimento della homeland security.

19) Infila una disposizione "buy american"nello stimulus.

20) «Il Canada non è il Messico, ma i problemi alla frontiera ci sono, tanto che i terroristi che sono entrati nel nostro Paese arrivavano proprio da lì». Janet Napolitano, segretario della homeland security (gli attentatori dell'11 settembre non arrivavano dal Canada).

21) «Obama sostiene un aumento della pressione fiscale per pagare la riforma del sistema sanitario. Ma si tratta proprio della stessa idea da lui bollata, in campagna elettorale, come "il più grande aumento delle tasse a sfavore della classe media della storia"». New York Times, 14 marzo.

22) «Obama nel suo discorso d'inaugurazione invocava la "politica della speranza" contro la "politica della paura". Poi ha dichiarato che l'economia americana sarebbe stata distrutta per sempre, se il Congresso non avesse approvato lo stimulus». Joe Scarborough, nel libro The Last Best Hope.

23) Sanjay Gupta doveva diventare surgeon general, ma si è ritirato quando è stato sottolineato il suo inesistente curriculum politico.

24) Secondo il 58% degli americani, la pubblicazione dei memorandum Cia mette a rischio la sicurezza nazionale. Rasmussen Reports.

25) Solo il 28% (sempre secondo Rasmussen) è favorevole a ulteriori inchieste sul trattamento dei sospetti terroristi da parte dell'amministrazione Bush.

26) «Obama ha ringraziato i funzionari della Cia per il loro lavoro, ha spiegato la sua decisione di rendere pubblici i memo e poi li ha invitati a non sentirsi in colpa per i loro errori passati. "È così che si impara", ha detto Obama, trattandoli come bambini delle scuole elementari». The Oklahoman, 23 aprile.

27) Rendendo pubblici i memo della Cia, Obama ha aperto le porte alle azioni dei tribunali internazionali contro cittadini americani.

28) I 25 dvd (non funzionanti in Europa) regalati a Gordon Brown.

29) «L'errore nella scelta di Bill Richardson è stato il primo ed è stato emblematico della sua visione egocentrica del governo». Washington Examiner.

30) La nomina di Timothy Geithner al Tesoro è stata quasi silurata dopo la scoperta dei suoi problemi con il fisco.

31) ...Annette Nazareth (scelta come vice di Geithner) non è stata altrettanto fortunata. E sempre per lo stesso motivo.

32) ...o Caroline Atkinson, costretta a ritirarsi dalla carica di sottosegretario. Sempre al Tesoro, sempre per lo stesso motivo.

33) «La scelta come ambasciatore a Londra di Louis Susman, avvocato e banchiere della sua Chicago, al posto di un diplomatico esperto, mette in dubbio l'impegno di Obama a mantenere la special relationship con la Gran Bretagna». Daily Telegraph, 22 febbraio.

34) I commenti allarmisti di Obama sul budget sono riusciti a trascinare il Dow Jones al di sotto di quota 7.000.

35) «Come si fa a ridere quando si parla della crisi economica? Bisogna essere ubriachi». Steve Kroft, 60 Minutes, 22 marzo.

36) «Stiamo dando fondi agli stati che aiutano i cittadini a proteggere le case dal freddo. Questo farà risparmiare alle famiglie circa 350 dollari all'anno. È come un taglio fiscale di 350 dollari». Obama, parlando di qualcosa che non è affatto un taglio fiscale.

37) «L'amministrazione Obama ha fatto firmare ai suoi funzionari un documento che li obbliga a non condividere i dati del budget 2010 con persone esterne all'amministrazione ». Defense News, 19 febbraio.

38) «Non riesco a capire perché non vuole firmare una legge per cui si è battuto quando era senatore. Ha tradito le promesse fatte agli agricoltori neri». John Boyd, capo della National Black Farmers Association.

39) «Mi sono allenato con il bowling. Ho fatto 129 punti, una volta. Una roba da special olympics...». Obama al Tonight Show di Jay Leno.

40) Obama alleggerisce le restrizioni sui viaggi e le rimesse a Cuba.

41) Obama pensa di sospendere l'embargo per Cuba.

42) Dopo i segnali positivi da parte di Raul Castro, Fidel dice che Obama ha «male interpretato» le parole di suo fratello e che Cuba non ha alcuna intenzione di negoziare sui diritti umani.

43) Obama sta considerando l'opzione di far proseguire il programma nucleare all'Iran durante i negoziati.

44) In una lettera a Medvedev, Obama si offre di lasciar perdere lo scudo missilistico europeo in cambio dell'aiuto russo a risolvere il "problema nucleare"iraniano.

45) Medvedev dichiara che non accetterà "contrattazioni" sullo scudo missilistico e l'Iran.

46) Obama chiede al Congresso un aumento di 83,4 miliardi di dollari per le spese militari in Iraq e Afghanistan. Una misura a cui si era opposto da senatore e che aveva contrastato in campagna elettorale.

47) Dopo aver corteggiato l'Europa come "anti-Bush",Obama implora più truppe per l'Afghanistan. Quasi tutti rifiutano.

48) Per fare domande alla prima "conferenza stampa online"sceglie soltanto attivisti del partito democratico.

49) Obama si inchina davanti al re saudita Abdullah al meeting del G20 di Londra.

50) «Non era un inchino. È che è più alto di re Abdullah». Un assistente di Obama.

51)«Sono passati solo 100 giorni? Sembrano molti, molti di più». Dana Perino, capo dell'ufficio stampa nell'amministrazione Bush.

52) «Non ci posiamo permettere di rendere la "perfezione" nemica del "necessario"». Obama, parlando dello stimulus.

53) Tre candidati a diventare ambasciatori presso la Santa Sede respinti dal Vaticano perché favorevoli all'aborto.

54) Dopo aver promesso l'assenza totale di lobbisti nella sua amministrazione, Obama fa 17 eccezioni nelle prime due settimane di governo.

55) ...compreso Tom Daschle, prima di essere costretto a rinunciare per guai con il fisco.

56) Per un discorso del 14 aprile a Georgetown, l'amministrazione chiede aall'università di coprire tutti i simboli religiosi.

57) Samantha Power, che si era dimessa dalla campagna di Obama dopo aver definito Hillary Clinton «un mostro», viene assunta al National Security Council.

58) «Chicago deve ancora recuperare gli 1,74 milioni di dollari della festa per la vittoria di Obama, malgrado un deficit di oltre 50 milioni». Chicago Sun- Times, 20 febbraio.

59) Ha licenziato Rick Wagoner dalla General Motors.

60) Minaccia di licenziare Vikram Pandit da Citigroup.

61) Minaccia di licenziare chiunque non piaccia alla sua amministrazione.

62) Non ha adottato il cucciolo in un canile.

63) «Uno studio afferma che i funzionari della maggior parte degli Stati sono preoccupati dalla totale assenza di responsabilità e controlli nel Recovery Act». Abc News, 23 aprile.

64) «Obama è stato nominato "newsmaker of the year" dall'associazione degli editori americani e sarà premiato questo pomeriggio. Alla cerimonia non è ammessa la stampa». Los Angeles Times, 20 marzo.

65) «Sulla razza siamo sempre stati - e continueremo ad essere - una nazione di vigliacchi». Eric Holder, attorney general.

66) «Non voglio fare sedute spiritiche come Nancy Reagan». Obama, parlando delle consultazioni con presidenti "viventi".

67) Obama ha annunciato che non farà pressioni per nuove regole ambientali e sindacali nel Nafta, malgrado abbia promesso il contrario durante la campagna elettorale.

68) «Lo stimulus era una possibilità che capita una sola volta in una generazione. E invece ha solo peggiorato la situazione». Nicole Gelinas, City Journal.

69) «Il dipartimento della giustizia ha chiesto alla Corte Suprema di capovolgere la sua decisione sul caso Michigan v. Jackson del 1986. Non è la prima volta che l'amministrazione Obama cerca di limitare il diritto alla difesa».TalkLeft, blog di sinistra.

70) «La mia amministrazione ha ereditato un disastro fiscale». Obama.

71) «Non posso finire venendo a salutarvi e a stringervi la mano, se ogni volta mi fate domande scomode ».Obama durante una conferenza stampa alla Casa Bianca.

72) Il giorno dell'Earth Day, Obama ha volato due volte con l'Air Force One e quattro volte sul Marine One, bruciando 9.000 galloni di carburante.

73) Il suo piano per privatizzare le assicurazioni sanitarie per i veterani di guerra.

74) «Io credo che la nazione che ha inventato l'automobile non possa abbandonarne la produzione ».Obama durante il primo State of the Union (l'automobile è stata inventata da un tedesco).

75) «La ricetta di Obama per il Pakistan? Dare più soldi a un governo di ladri che fa sembrare la Nigeria una riunione di Quaccheri». Ralph Peters, New York Post.

76) «Obama ha ragione quando dice che l'Afghanistan non è l'Iraq. Ma non è neanche il Vietnam». Ralph Peters, New York Post.

77) La sua mancanza di comunicazione con il Congresso prima della firma dell'omnibus spending bill.

78) La scelta di Adolfo Carrion come direttore dell'ufficio per l'urbanistica, malgrado Carrion avesse accettato migliaia di dollari dai costruttori a cui aveva approvato i progetti.

79) La tattica "un nome, un verbo e Rush Limbaugh".

80) Ha costretto le banche che non volevano i soldi del Tarp (Troubled Asset Rescue Plan) a prenderli. Ha costretto Bank of America ha comprare Merrill Lynch. E poi si è lamentato per il prezzo.

81) «Più del 90% delle armi messicane arriva dagli Stati Uniti». Obama (dicendo il falso).

82) Obama: «Jim Owens (ceo della Caterpillar) mi ha detto che, se passa lo stimulus, la sua compagnia potrà assumere di nuovo». Owens: «No, in realtà saremo costretti a licenziare ancora».

83) «Ci sono stati momenti in cui l'America ha dimostrato di essere arrogante». Obama a Strasburgo.

84) Joe Biden: «Se facciamo tutto nella maniera giusta, se ne siamo assolutamente certi, se abbiamo il coraggio di prendere decisioni scomode, c'è sempre il 30% di possibilità che ci sbaglieremo».

85) Joe Biden: «Avete lavorato tutti per il cambiamento, volevate vedere un cambiamento. E questo non è stato difficile da comunicare agli americani. Naturalmente, avevamo bisogno di un cambiamento, chiunque fosse il candidato alla presidenza».

86) Joe Biden: «Sono imbarazzato, non mi ricordo più il numero del sito web».

87) «Ci sono 6,5 milioni di camion negli Usa. E il Congresso ha deciso di impedire a 97 camion messicani di aggirarsi tra di loro. Uno schiaffo al Nafta per 97 camion!». Charles Krauthammer, 20 marzo.

88) «Malgrado il suo enorme capitale politico, il presidente è schiavo del Congresso. Si tratta di un segno di debolezza inquietante, per i tempi in cui viviamo». David M. Drucker, Roll Call.

89) Judd Gregg: «È diventato chiaro che su argomenti come lo stimulus e il census il mio conflitto con l'amministrazione è ormai diventato irrisolvibile.

90) Nella prima frase del suo primo discorso da presidente, Obama ha detto: «44 americani hanno pronunciato questo giuramento ». Il numero corretto è 43, visto che Grover Cleveland ha governato per due mandati (non consecutivi).

91) La sua inaugurazione è costata 49 milioni di dollari (il triplo della prima di Bush).

92) Ha regalato alla Regina d'Inghilterra un iPod con i suoi discorsi.

93) Tre discorsi televisivi in prime-time nei primi 100 giorni. Stile American Idol.

94) «Gli Stati Uniti non hanno interesse ad amministrare General Motors (...) e da oggi il governo sarà la vostra garanzia per le azioni Gm». Obama.

95) Il governo presta a Gm 15,4 miliardi di dollari.

96) L'amministrazione sta cercando di affondare la causa intentata all'Iran dagli ex ostaggi dell'ambasciata a Teheran. Nella causa, veniva ipotizzato che Ahmadinejad fosse uno dei sequestratori ».

97) «Dieci giorni prima dell'inaugurazione, il capo dei consiglieri economici di Obama, Christina Rohmer, ha detto che il tasso di disoccupazione non sarebbe mai andato oltre l'8%, almeno prima del 2014. Oggi è all'8,5%». Glenn Beck, Fox News.

98) Il segretario all'Educazione, Anne Duncan, ha deciso di non ammettere nuovi studenti al programma di "buono scuola" di Washington.

99) Obama ha iscritto le sue due figlie in una scuola privata di Washington.

100) «Non pensare che ce lo scorderemo, fratello». Obama al deputato democratico Peter DeFazio, dopo il suo voto contrario allo stimulus.

(liberamente tradotto da “100 Days, 100 Mistakes for Barack Obama”, New York Post)

martedì 28 aprile 2009

The Tide is Turning

Secondo Rasmussen Reports, il 77% dei cittadini americani preferisce il libero mercato all'economia pianificata (11%). Si tratta di una crescita di sette punti percentuali rispetto a dicembre, trainata da una quasi unanimità tra i repubblicani (94%) e gli indipendenti (78%) ma anche dal discreto risultato tra i democratici (64%).

lunedì 27 aprile 2009

La gabbia di Barack

Per Peter Marshall, corrispondente dagli StatiUniti del programma Newsnight della Bbc, «Obama si trova in grande imbarazzo, dopo essersi infilato da solo in una gabbia come quelle costruite dalla Cia per Abu Zubaydah». La “gabbia” in cui è rinchiuso il presidente, per uscire dalla metafora di Marshall, sono le polemiche divampate in seguito alla decisione di pubblicare quattro memorandum sulle tecniche di interrogatorio utilizzate dalla Cia sui sospetti terroristi dopo l’11 settembre. Polemiche che sono tornate, ancora più violente, quando l’amministrazione democratica ha deciso di non opporsi alla pubblicazione di alcune fotografie relative ad abusi commessi dagli agenti speciali americani contro prigionieri detenuti nelle carceri irachene e afghane. A chiedere la diffusione delle immagini in questione - che dovrebbero essere 44 ed essere rese pubbliche entro il 28 maggio - è stata la Aclu (American Civil Liberties Union) già nel 2003. Ma l’amministrazione Bush si era sempre opposta per motivi di sicurezza nazionale.

Dopo l’ultima decisione di un tribunale federale a favore all’Aclu, invece, Obama ha deciso di non ricorrere alla Corte Suprema, dando di fatto il via libera alla pubblicazione di foto che - secondo il suo stesso Dipartimento della Difesa - sono destinate a «provocare una forte reazione negativa in Medio Oriente». In attesa del backlash arabo, intanto, Obama si trova ad affontare una “sollevazione” interna. A sparare il primo colpo è stato l’ex direttore della Cia (e presidente della commissione permanente della Camera sull’intelligence dal 1997 al 2004), Porter J. Goss, sulla pagina degli editoriali del Washington Post.

«Sono rimasto in silenzio da quando ho lasciato il mio posto alla Cia circa tre anni fa - scrive Goss nelle prime righe del suo articolo - ma adesso sono costretto a rompere questo silenzio, perché credo che il nostro governo abbia oltrepassato la “linea rossa” che divide una corretta protezione della sicurezza nazionale dallo scorretto tentativo di guadagnare un vantaggio politico per il suo partito. Non possiamo avere servizi segreti se continuiamo a non rispettare il segreto. Gli americani devono decidere ora».

E gli americani, almeno a fidarsi degli ultimi sondaggi, su questo argomento sembrano stare dalla parte di Goss. Secondo Rasmussen Reports, infatti, il 58% dei cittadini statunitensi si oppone a «nuove inchieste sul trattamento dei sospetti terroristi da parte di Bush», mentre solo il 28% è favorevole (gli incerti sono il 13%). Questa opinione della maggioranza, almeno in teoria, sarebbe quella dello stesso Obama, che però si trova di fronte a un partito democratico spaccato. Mentre il leader del Senato, Harry Reid, è contrario alla formazione di una commissione d’inchiesta, la sua alter ego della Camera, Nancy Pelosi, continua a spingere in quella direzione. Esponendosi alle critiche di chi, come un nutrito gruppo di parlamentari repubblicani e lo stesso Goss, sottolinea che l’attuale Speaker democratica, conosceva alla perfezione le tecniche utilizzate dalla Cia già nel 2002 e non ha mai sollevato obiezioni, pubbliche o private.

«Sono sbigottito - scrive Goss - nel leggere che alcuni miei colleghi del Congresso non “avessero capito” quali fossero queste tecniche, come il waterboarding. Fatemi essere chiaro su questo punto: sapevamo cosa stava facendo la Cia; abbiamo dato alla Cia il nostro sostegno bipartisan; abbiamo dato alla Cia i fondi necessari per proseguire; abbiamo chiesto alla Cia se avesse bisogno di ulteriore sostegno nella sua missione contro al Qaeda». Il riferimento, esplicito, è alla Pelosi e alla “gang of four” (i due repubblicani e i due democratici più alti in carica nelle commissioni sull’intelligence di Camera e Senato).

Al momento Nancy Pelosi è costretta a giocare in difesa - anche perché coinvolta nello “scandaletto” dei suoi rapporti con Jane Harman - ma le pressioni per fare definitivamente i conti con l’eredità post 9/11 dell’amministrazione Bush si moltiplicano sul fronte sinistro dell’alleanza che ha portato Obama alla Casa Bianca. E il presidente si trova con le spalle al muro, di fronte a un dilemma: pagare le sue “cambiali elettorali” (rischiando di mettere a repentaglio la sicurezza nazionale) o mantenere la promessa di “guardare avanti” (mettendosi contro una fetta non marginale del suo partito). Alla vigilia del centesimo giorno di presidenza, per Barack è già arrivato il momento di una scelta dolorosa.

(domani in edicola su Liberal quotidiano)

venerdì 24 aprile 2009

Torture Wars

Ieri l’onore della ribalta - nel dibattito sulla tortura che sta infuocando da giorni la scena politica statunitense - è toccato a Condoleezza Rice, Dick Cheney e John Ashcroft. Insieme a Donald Rumsfeld, si tratta delle colonne della politica di difesa (nazionale e internazionale) dell’amministrazione Bush. Ed è chiaro che, sullo sfondo delle polemiche in corso, aleggi proprio la figura dell’ex presidente, obiettivo dichiarato della sinistra americana che ha “costretto” Barack Obama a fare dietro-front sulla possibilità di processare chi autorizzò, dopo l’11 settembre 2001, tecniche d’interrogatorio come il waterboarding e il wall slamming.

Il coinvolgimento della Rice emerge dai nuovi documenti resi pubblici dalla commissione sull’intelligence del Senato che sono stati recentemente declassificati dall’attuale ministro della Giustizia, Eric Holder. Secondo queste carte, nell’estate del 2002 Condoleezza Rice (che allora ricopriva la carica di consigliere per la Sicurezza nazionale di Bush), diede il suo assenso - anche se soltanto “verbale”- all’utilizzo del waterboarding, la tecnica di annegamento simulato adottata dalla Cia durante l’interrogatorio di alcuni sospetti terroristi.

L’ex segretario di Stato diede “luce verde” all’utilizzo di questi metodi all’allora direttore della Cia, George Tenet, per l’interrogatorio di Abu Zubaydah, terrorista catturato in Pakistan nel marzo del 2002 e sottoposto al waterboarding più di 80 volte. Dai documenti risulta che anche l’allora ministro della Giustizia, John Ashcroft, partecipò insieme alla Rice (già nel maggio 2002) a un briefing su «metodi alternativi» di interrogatorio. Un anno dopo, esattamente nel luglio del 2003, a un briefing con la Cia sui «metodi duri di interrogatorio» partecipò anche il vice presidente Dick Cheney, insieme alla Rice ed Ashcroft. Al tavolo erano seduti anche Alberto Gonzales, allora consigliere della Casa Bianca e autore dei principali pareri legali sul ricorso alla tortura - e John Bellinger III, esperto del Consiglio di sicurezza nazionale.

I nuovi documenti, naturalmente, sono destinati a far crescere le pressioni per l’avvio di un’inchiesta parlamentare sull’utilizzo di tecniche di tortura da parte dell’amministrazione Bush. In prima fila, come sempre, c’è il “braccio armato” della sinistra liberal nei tribunali: l’Aclu (American Civil Liberties Union). «Non siamo di fronte a discussioni astratte, ma a conversazioni molto dettagliate e specifiche - dice Jameel Jaffer, direttore del National Security Project dell’Aclu - Ora abbiamo prove ancora maggiori del ruolo svolto dai vertici dell’amministrazione Bush».

La questione, però, rischia sempre di più di trasformarsi in una brutta “gatta da pelare”per Obama. Come ha scritto ieri il Washington Post , il presidente sperava - con la pubblicazione dei memorandum e l’assicurazione dell’immunità agli agenti della Cia - chiudere definitivamente un doloroso scontro politico che va avanti fin dai giorni immediatamente successivi agli attacchi terroristici dell’11 settembre. Ricordando che la decisione era stata presa dopo un lungo e animato dibattito all’interno dell’amministrazione (e con il parere contrario dell’appena nominato direttore della Cia, Leon Panetta), il quotidiano statunitense spiega come «la sua principale preoccupazione» fosse quella di «chiudere questa storia». La sua tesi, dice uno degli uomini di Obama che vuole mantenere l’anonimato, era: «Ho vietato le torture, il capitolo è chiuso, ma ora non abbiamo bisogno di tornare indietro e rivivere tutto questo».

Nessun presidente, naturalmente, può impedire al Congresso di indagare, ma Obama sperava almeno di non essere costretto a dare il suo imprimatur a una commissione d’inchiesta sul modello di quella (contestatissima) sull’ 11 settembre. Soprattutto in un momento in cui ritiene che ma massima priorità per l’amministrazione sia quella di aiutare il Paese a uscire dalla crisi economica. Alla fine, invece, Obama si è ritrovato sotto attacco, da sinistra (da chi non ha apprezzato il suo invito a «guardare avanti»), ma soprattutto da destra.

L’ex vice presidente Dick Cheney lo accusa di aver messo a repentaglio la sicurezza nazionale rivelando i metodi della Cia. E ha chiesto la declassificazione di alcuni documenti che proverebbero come l’utilizzo del waterboarding negli interrogatori di Khalid Sheik Mohammed (considerato la “mente” dietro alle stragi dell’11 settembre) abbia permesso agli Stati Uniti di sventare la “second wave” terroristica, in programma a Los Angeles. Ancora prima dell’autorizzazione, il memo a cui si riferiva Cheney (o uno sorprendentemente simile) è stato pubblicato dal quotidiano online CnsNews e ripreso dal New York Times. Secondo questo documento, prima del waterboarding Mohammed era «totalmente refrattario a collaborare », anzi minacciava gli agenti sull’imminenza di un secondo attacco. Dopo, invece, l’esponente di al Qaeda iniziò a collaborare, fornendo intelligence che avrebbe portato alla cattura di alcuni uomini-chiave del netwoek terroristico e alla cattura della cellula incaricata di replicare l’11 settembre in California.

Anche il direttore della National Intelligence di Obama, Dennis Blair, in un memorandum interno ha scritto qualche giorno fa che «i metodi utilizzati hanno fornito informazioni di altissimo valore e ci hanno dato una più profonda conoscenza degli attacchi pianificati da al Qaeda al nostro Paese». Una frase, incidentalmente, che è scomparsa dalla versione del documento fornita dall’amministrazione Obama ai mezzi d’informazione. Ieri, poi, sulle colonne del Wall Street Journal, il senatore repubblicano del Michigan, Peter Hoekstra (componente della commissione sull’intelligence), ha ricordato che molti membri del Congresso - sia repubblicani che democratici - erano a conoscenza dei metodi d’interrogatorio utilizzati dalla Cia. Invitando un’eventuale commissione d’inchiesta a indagare anche su di loro.

E la tensione cresce, minuto dopo minuto, proprio a Capitol Hill. Il leader della maggioranza al Senato, Harry Reid, ha scelto di non intervenire nel dibattito. Ma la Speaker della Camera, Nancy Pelosi, non ha esitato ad appoggiare l’idea di una commissione d’inchiesta, affermando anche che ai testimoni non dovrà essere garantita alcuna immunità. La guerra è appena iniziata.

(oggi su Liberal quotidiano)

domenica 19 aprile 2009

At Least He Didn't Bow



Barack Hussein Obama fa passi da gigante in politica estera. Questa volta, di fronte a Chavez, non ha neppure accennato a un inchino. (Il titolo del post è spudoratamente copiato da Michelle Malkin)

sabato 18 aprile 2009

Sondaggio Europee 2009

Il mitico Cap_Forever ci regala l'ultimo sondaggio riservato commissionato dal PdL sulle prossime elezioni europee. Il metodo di rilevazione è CATI, le interviste sono state 3500 e l'affluenza prevista è stimata tra il 66% e il 73,5%. Come ci avverte Cap, il sondaggio è stato realizzato nella settimana precedente al terremoto abruzzese e la percentuale di indecisi sembra molto bassa, anche se "maggiormente presente lungo l'asse che porta dal Pd all'Idv rispetto a quella tra PdL e Lega dove i voti paiono maggiormente cristallizati". Bando alle ciance, ecco i numeri (tra parentesi la differenza con le Politiche 2008).

PdL 41,4% (+4,0%)
Lega 9,1% (+0,8%)
Mpa, La Destra 1,9% (-1,6%)
Udc 5,8% (+0,2%)
Pd 25,2% (-8,0%)
Idv 7,6 (+3,2%)
Prc/Pdci 2,5% (+0,5%)
Sinistra e Libertà 3,0% (+1,0%)
Indecisi 3,5 %

Nota: Prc/Pdci e Sinistra&Libertà erano unite nella Sinistra arcobaleno alle Politiche 2008. Abbiamo diviso in due parti uguali il risultato della coalizione + il dato dei socialisti (totale: 4.1%) per calcolare la differenza.

giovedì 16 aprile 2009

Tea Party Round-Up & Open Trackback



Pajamas Media, Fox News, Michelle Malkin, Instapundit, The Washington Independent, Wizbang, The Corner, Weekly Standard, Founding Bloggers, The Foundry, Power Line, Scared Monkeys, Sister Toldjah, Face the State, Neptunus Lex, Daily Pundit, RomeNews, Hot Air, Politics and Critical Thinking, TigerHawk, No Quarter, The Other McCain, Sound Politics, TVNewser, American Spectator, Chicago Breaking News, Gateway Pundit, Tax Day Tea Party, Blue Crab Boulevard, Wizbang, Right Wing Nut House, The Politico, The Sundries Shack, Protein Wisdom, Riehl World View, Donklephant, American Spectator, Patterico's Pontifications, Neo-neocon, NewsBusters.org

UPDATE (via Blue Star Chronicles): Gateway Pundit, Michelle Malkin, Founding Bloggers, Wizbang, Protein Wisdom, Big Hollywood

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domenica 12 aprile 2009

Easter Bunny

Pasqua amara per Barack H. Obama, che nell'ultimo presidential approval index di Rasmussen Reports scivola al +2%, punto più basso della sua ancora giovane presidenza. Intanto, negli Stati Uniti, soltanto il 53% della popolazione dichiara di preferire il "capitalismo" al "socialismo". Ne avevo scritto venerdì scorso per Liberal in uno "speciale" che ospitava anche due bei commenti di Carlo Lottieri e Carlo Stagnaro dell'IBL (i pdf dello speciale sono online qui, qui, qui e qui).

giovedì 9 aprile 2009

L'inchino top secret

La notizia, di per sé, sarebbe clamorosa: il presidente degli Stati Uniti d’America, leader riconosciuto dell’Occidente e del mondo libero, colto dai fotografi e dai cameramen mentre - durante il G20 di Londra - regala un lungo e ossequioso inchino al chiacchierato re saudita, Abdullah. In violazione a qualsiasi protocollo diplomatico, scritto e non, in vigore alla Casa Bianca. Eppure, mentre i mass media di tutto il mondo si sollazzavano con le “gaffe” di Berlusconi, su quella di Obama è piombato un muro impenetrabile di silenzio. Almeno sui media tradizionali, perché su Internet il video e le foto dell’inchino continuavano a circolare vorticosamente, scatenando un uragano di discussioni e di polemiche.

Fino a ieri, l’unico quotidiano statunitense a dedicare qualche riga all’accaduto era stato il conservatore Washington Times. Poi è arrivato, a sorpresa, un articolo del giornale arabo Asharq Al-Awsat. Sotto l’esplicito titolo «Il segreto dietro l’inchino di Obama al Re», Muhammad Diyab scrive fa che «il gesto del presidente americano ha sollevato nuovamente negli Usa il problema della sua identità religiosa». «Obama - scrive il giornalista arabo - ha vissuto una parte della sua infanzia in Indonesia ed inchinarsi, nella cultura indonesiana e asiatica in generale, è un segno di rispetto e di apprezzamento».

Apriti cielo. La Casa Bianca, dopo essere riuscita - con la complicità dei media (non solo americani) - a “occultare” l’inchino per una lunghissima settimana, è stata costretta ad una smentita, che finora è soltanto servita a gettare benzina (o petrolio?) sul fuoco di polemiche che si stavano lentamente spegnendo. «Non si è trattato di un inchino - ha dichiarato al quotidiano online The Politico un consigliere (rigorosamente anonimo) di Obama - il presidente voleva stringere al re entrambe le mani, ma essendo molto più alto...». Quando il “rimedio” è peggiore del male. In realtà, il vero “scandalo” non sta tanto nell’inchino (oggettivamente imbarazzante) di Obama, quanto nel silenzio assordante dei mezzi d’informazione. Gli stessi che, quando George W. Bush aveva osato stringere (un po’ troppo teneramente, per la verità) la mano allo stesso sovrano saudita, non avevano esistato un attimo nel “massacrare” l’ex presidente.

Ma facciamo un passo indietro allo scorso 2 aprile. A pubblicare per primo la foto incriminata (e poi il relativo video, che si può vedere online su YouTube) era stato il blog conservatore The American Thinker. E la notizia si era diffusa rapidamente come un virus sulla “riva destra” del cyberspazio. Per Jihad Watch si trattava di una aperta «violazione del protocollo», che non prevede inchini del presidente americano nei confronti di «monarchi stranieri», in quanto “atto esplicito di sottomissione ». Scott Johnson di Powerline (uno dei blog che aveva fatto esplodere lo scandalo del “Rathergate” nel 2004) era arrivato a paragonare il gesto al celebre bacio tra Jimmy Carter e Leonid Breznhev nel 1979. E la pasionaria conservatrice Michelle Malkin era entrata prepotentemente nella discussione, scatenando la reazione di centinaia di blog, a destra e a sinistra dello schieramento politico. Poi, lentamente, la notizia era passata in secondo piano, scavalcata dalla cronaca quotidiana. Fino al coraggioso editoriale del Washington Times e all’articolo di Asharq al-Awsat che hanno costretto la Casa Bianca alla sua anonima e goffa smentita.

Adesso, però, il “vaso di Pandora” sembra essere stato finalmente scoperchiato. E, mentre scriviamo, le edizioni online di moltissimi quotidiani internazionali stanno dando notizia della “smentita” senza aver mai dato spazio alla notizia originale. Hanno aperto le danze il Pittsburgh Tribune-Review, l’Examiner, la Jewish Telegraphic Agency, il Weekly Standard, il Daily Telegraph, il Chicago Sun-Times e il Guardian. Ma si può essere ragionevolmente certi che la notizia (insieme alle foto e al video) continueranno a diffondersi nei prossimi giorni. Come amava ripetere Abraham Lincoln, "si può ingannare tutti per qualche tempo e alcuni per tutto il tempo, ma non potete ingannare tutti per tutto il tempo". Soprattutto nell’era di Internet.

(in edicola domani su Liberal quotidiano)

martedì 7 aprile 2009

L'Europa che non c'è

Quando alla Casa Bianca abitava quel “terrorista” di George W. Bush - e la politica estera degli Stati Uniti (dopo l’11 settembre) era caratterizzata da un confronto “duro e puro” con il fondamentalismo islamico - l’Europa non c’era. O meglio, c’erano due o tre strategie europee in contraddizione tra loro: quella esplicitamente anti-yankee di Chirac e Zapatero; quella più atlantica degli ex Paesi comunisti; quella ondivaga e camaleontica di tutti gli altri (Italia compresa).

Oggi, alla Casa Bianca ci abita Barack Hussein Obama, che in omaggio al proprio middle-name ha scelto di «fare pace con l’Islam» - offrendo negoziati-a-costo-zero a Iran ed Hezbollah, spingendo per l’entrata della Turchia nella Ue e promettendo diplomazia globale a prezzi da bailout - e l’Europa ancora non c’è. O meglio, come sempre non c’è una linea strategica condivisa tra i Paesi che compongono l’Unione europea. Ognuno procede in ordine sparso. Qualcuno risponde all’appello di Obama sulla necessità di una surge in Afghanistan inviando migliaia di soldati; qualcun altro si limita a promettere sei fanti leggeri, un sergente e tre cani-poliziotto prima dell’offensiva talebana di primavera.

Sulla Turchia nella Ue, poi... Sarkozy e la Merkel dicono (bruscamente) a Obama di farsi gli affari propri, perché di Istanbul non vogliono neppure sentir parlare. Tutti gli altri, chi più e chi meno, iniziano a cucire bandiere europee con 27 stelle e una mezzaluna. Posizioni condivise? Nessuna. Visioni strategiche compatibili? Neppure l’ombra. La triste, tristissima, verità è che il problema degli ultimi decenni non è stato - come molti hanno tentato di farci credere - la politica estera americana. Hardcore bushiano o softcore obamista, la strategia degli Stati Uniti è solida, coerente e comprensibile. Quella europea, invece, non è soltanto incoerente e incomprensibile. Semplicemente non esiste. Forse perché l’Europa non è mai esistita.

(domani su Liberal quotidiano)

Surprise!

Se la visita di oggi del presidente Obama alle truppe americane in Iraq è, come scrive il Washington Post, una «sorpresa», perché stamattina (ora italiana) già lo sapevano tutti i giornali?

mercoledì 1 aprile 2009

L'ultimatum di Bibi

«Obama deve impedire all’Iran di arrivare all’atomica. Oppure a farlo ci penserà Israele». Non si perde in giri di parole, Benjamin Netanyahu, in una lunga intervista concessa al mensile americano The Atlantic poche ore prima di insediarsi ufficialmente a capo del 32° governo della storia israeliana. E non è un caso che Bibi abbia scelto proprio il magazine di riferimento della sinistra “clintoniana” per lanciare il suo “avvertimento” alla Casa Bianca.

Il presidente statunitense – dice in sostanza Netanyahu – deve fermare il tentativo iraniano di entrare in possesso di armi nucleari. E lo deve fare rapidamente. Altrimenti Israele potrebbe essere costretta ad attaccare direttamente le strutture nucleari iraniane. «L’amministrazione Obama – spiega il primo ministro israeliano – si trova di fronte ad un bivio storico. Il mondo intero dovrebbe preoccuparsi dell’eventualità che un culto messianico-apocalittico possa entrare in controllo di ordigni atomici. Eppure è esattamente quello che sta accadendo in Iran. Questa è una minaccia all’esistenza stessa di Israele, ma sarebbe anche un colpo durissimo per gli interessi americani, specialmente sul fronte dell’energia. Chi controllerà il petrolio in Medio Oriente: Washington o Teheran?».

Netanyahu punta direttamente al cuore del problema, ma non esclude a priori soluzioni diverse da quella militare. «Come si raggiunge l’obiettivo – dice – è molto meno importante del raggiungerlo», aggiungendo però di essere molto scettico sulla possibilità che l’Iran possa rispondere positivamente all’appello lanciato da Obama una decina di giorni fa. E le ragioni di questo scetticismo sono in gran parte dovute alla natura “integralista” della leadership di Teheran: «Fin dall’alba dell’era nucleare, non è mai esistito un regime fondamentalista che abbia messo il proprio fanatismo prima del proprio interesse. C’è chi dice che l’Iran si comporterebbe come qualsiasi altra potenza nucleare. Siamo disposti a rischiare?». Il premier israeliano cita la lunga guerra con Iraq come prova del comportamento “irrazionale” di Teheran. «L’Iran ha sprecato più di un milione di vite umane senza battere ciglio – dice – e senza che questo ne abbia scosso la coscienza nazionale. Dopo la prima guerra mondiale, la Gran Bretagna è precipitata nel pacifismo proprio a causa della grande tragedia di aver perso una generazione. In Iran non si è visto niente di tutto questo. Anzi, si è vista una nazione che esalta il sangue, la morte e l’auto-distruzione».

Anche se gli analisti americani e quelli israeliani hanno opinioni diverse sullo stato di avanzamento del programma nucleare iraniano, Netanyahu avverte di non essere disposto ad aspettare «anni» per verificare la bontà dell’approccio “diplomatico” cercato da Obama. «Il problema - dice a Jeffrey Goldberg (il giornalista di The Atlantic autore dell’intervista) uno dei consiglieri strategici del premier israeliano - non sono le capacità militari. Il problema è verificare se si ha lo stomaco e la volontà politica di agire». Un altro problema, secondo Netanyahu, è anche quello di voler “legare” ad ogni costo il caso-Iran e il processo di pace con i palestinesi: «Noi intendiamo affrontare separatamente le due questioni; spero che gli Stati Uniti vogliano fare lo stesso. L’amministrazione Obama ha detto recentemente che Hamas deve per prima cosa riconoscere Israele e interrompere qualsiasi sostegno ad attività terroristiche. Siamo d’accordo, perché questo significa semplicemente che Hamas deve smettere di essere Hamas».

Moshe Ya’alon, ex chief of staff delle forze armate israeliane e oggi consigliere strategico del premier, è categorico: «L’errore del disimpegno da Gaza è stato che noi, da occidentali, abbiamo pensato che il compromesso avrebbe attenuato i problemi, mentre invece ha soltanto contribuito a farlo crescere a dismisura. I jihadisti hanno visto il ritiro delle truppe come una sconfitta dell’occidente. Che segnale sarebbe, per costoro, essere pronti a dividere Gerusalemme ritornare ai confini del 1967? In questo tipo di conflitto, la determinazione è più importante della potenza di fuoco». E sulla determinazione che muove il neonato governo di Benjamin Netanyahu sembrano esserci pochi dubbi. Anche perché, spiega il primo ministro israeliano, basterebbe un solo errore (permettere all’Iran di entrare in possesso di armi atomiche) per provocare conseguenze catastrofiche: «Primo, i terroristi amici di Teheran potrebbero agire sotto la protezione di un ombrello nucleare, e questo aumenterebbe la possibilità di un confronto diretto con Israele. Secondo, questo sviluppo incoraggerebbe i militanti islamici di tutti i continenti, che vedrebbero un segno divino capace di portarli alla vittoria definitiva. Terzo, si creerebbe un danno enorme agli approvvigionamenti mondiali di petrolio. Quarto, l’Iran potrebbe usare direttamente gli ordigni nucleari oppure renderli disponibili ai vari proxy terroristici della regione. Infine, gli stessi equilibri geostrategici della regione sarebbero alterati permanentemente, distruggendo di fatto l’alleanza tra gli Stati Uniti e i Paesi arabi “moderati”». Obama è avvertito: Israele non permetterà che questo scenario da incubo si trasformi in realtà.

(domani in edicola su Liberal quotidiano)

Five Things To Watch in NY-20

Prova del nove per Michael Steele o referendum su Obama? Chris Cilizza, The Fix.