RightNation
mercoledì 31 maggio 2006
I numeri dietro la propaganda
Scottati dal caso-Milano, dunque, abbiamo deciso di comparare i risultati delle politiche 2006 con alcuni dati (omogenei geograficamente) di quest'ultima tornata amministrativa. Questa operazione è stata possibile soltanto per le elezioni regionali in Sicilia e per quelle provinciali che si sono svolte a Campobasso, Imperia, Lucca, Mantova, Pavia, Ravenna, Reggio Calabria e Treviso (sul sito del Viminale i dati delle politiche non sono disaggregati per comune, ma per provincia). Abbiamo semplicemente fatto la somma aritmetica dei voti ottenuti dai partiti della CdL e dell'Unione, disinteressandoci del risultato ottenuto dai candidati alla presidenza delle province. Quello che ci interessava, infatti, era cercare di capire i movimenti dell'elettorato dal 9-10 aprile ad oggi. Vale la pena di ricordare che, in ogni provincia, l'affluenza è stata sensibilmente inferiore a quella registrata alle elezioni politiche (il dato nazionale è inferiore al 60%, rispetto all'85% di aprile): circostanza che - di fatto - penalizza fortemente la performance del centrodestra. Ci aspettavamo un massacro, con la CdL in rotta in tutte le province esaminate e in forte arretramento anche in Sicilia. Ma è andata davvero come ci hanno raccontato?
Sicilia
Il forte calo della CdL alle regionali siciliane è una truffa mediatica. Più o meno come il "testa a testa" di Milano. Alle politiche di aprile il centrodestra (compreso l'esule di AN, Nello Musumeci), aveva raccolto il 59,1% dei voti. Alle regionali (compreso Musumeci), la CdL è arrivata al 58,2%. La grande offensiva dei professionisti dell'antimafia contro Cuffaro e il macabro utilizzo di un cognome eccellente come quello di Borsellino a fini elettorali, ha scalfito la maggioranza strutturale del centrodestra in Sicilia di un misero 0,9%. Davvero un bel risultato... UPDATE. Da StarSailor (che è meglio del sito del Viminale), scopriamo che la somma dei voti di lista della CdL arriva al 61,5% (+1,4% rispetto alle politiche), mentre l'Unione si ferma al 36,0% (-4,5%). Trend: CdL +5,9%.
Campobasso
Sommando i voti dei partiti alleati alle ultime elezioni politiche, il centrosinistra ha raggiunto il 52,4% (contro il 53,4% di aprile), mentre il centrodestra si è fermato al 45,6% (contro il 46,5% di aprile). Il vantaggio del centrosinistra è dunque sostanzialmente stabile, ed è passato dal 6,9% al 6,8%.
Trend: CdL +0,1%.
Imperia
Alle politiche, il centrodestra aveva raggiunto il 61,5% dei voti contro il 38,4% della sinistra. Alle provinciali, la CdL è salita al 63,7% mentre l'Unione è scesa al 36,3%. Il vantaggio per il centrodestra è dunque passato dal 23,1% al 27,4%.
Trend: CdL +4,3%.
Lucca
A Lucca la CdL, che alle politiche aveva raccolto un sorprendente 48,8%, crolla al 40,1% (complice anche la corsa in solitario della Lega e la candidatura di un esterno che supera il 6%). In ogni caso, il vantaggio dell'Unione cresce dal 2,1% al 13,4%.
Trend: Unione +11,3%.
Pavia
La CdL, che alle politiche aveva superato il 55%, non va oltre il 53,7% (ed evita per un soffio il ballottaggio per la presidenza della provincia). Cresce lievemente la sinistra, che passa dal 44,2% al 45,5%. Il vantaggio della CdL scende dall'11,5% all'8,2%.
Trend: Unione +3,2%.
Ravenna
Le percentuali bulgare raggiunte dall'Unione alle politiche (64,0% contro 35,9%) crescono addirittura alle politiche (66,5% contro 33,2%). Il vantaggio della sinistra sale dal 28,1% al 33,3%.
Trend: Unione +5,2%.
Reggio Calabria
La CdL crolla anche a Reggio Calabria (l'unica provincia che ha cambiato "colore" rispetto al 2001). Il 3,1% che separava le due coalizioni alle politiche (51,3% contro 48,2%) è cresciuto fino al 16,8% (57,3% contro 40,5%). La Calabria è sempre più rossa. Come un peperoncino.
Trend: Unione +13,7%.
Treviso
Se il Triveneto non ci fosse, il Berluska lo avrebbe già inventato. La CdL, che già godeva di un ampio margine (+22,4%) a Treviso nelle elezioni politiche (58,3% contro 35,9%), aumenta il vantaggio fino al 31,1% (60,0% contro 28,9%). Senza contare la decina di punti percentuali raccolti dall'ex leghista Panto che corre da solo.
Trend: CdL +8,7%.
Mantova
Centrosinistra in (lieve) crescita anche a Mantova, dove passa dal 51,1% delle politiche al 52,1% delle provinciali. Questo dato, insieme al calo della CdL dal 48,8% al 47,2%, porta il vantaggio dell'Unione dal 2,3% al 4,9%.
Trend: Unione +2,6%.
Conclusioni
Rispetto alle politiche, la CdL mantiene le proprie posizioni a Campobasso, cresce in Sicilia, a Imperia e Treviso, perde qualcosa a Pavia e Mantova, perde molto a Lucca, Ravenna e Reggio Calabria. Ferme restando tutte le critiche possibili e immaginabili (e anche qualcosa di più) all'organizzazione sul territorio dei partiti del centrodestra e al bizzarro metodo di selezione della sua classe dirigente, i numeri ci dicono che in una tornata amministrativa (come quella delle provinciali) in cui l'affluenza è stata inferiore del 25% rispetto alle politiche, la CdL ha sfoderato una performance niente affatto malvagia, che certifica uno stato di salute più che discreto a livello nazionale. Cercheremo, nelle prossime settimane, di esaminare in dettaglio l'andamento delle elezioni comunali, dove l'affluenza è stata maggiore, concentrandoci soprattutto sui comuni minori, in cui il centrodestra ottiene risultati molto più lusinghieri di quelli raggiunti nelle grandi città. Aspettatevi sorprese.
sabato 27 maggio 2006
Daddy Break
giovedì 25 maggio 2006
Abolire il liberalismo. Una provocazione
(ma non solo)
Abolire il liberalismo
di Marco Respinti
Le qualificazioni distinguono; ma se tutto distingue, nulla più qualifica. Prendi il “liberalismo”, per esempio. Se tutti sono “liberali” (come sembra di arguire dagli attuali scenari politico-culturali italiani), finisce che nessuno lo è davvero. Come potrebbe infatti esserlo Caio che dice cuori tanto quanto Tizio che dice picche? Indi per cui, con buona dose di consapevole follia, ci punge vaghezza di dire qui che, forse forse, è meglio eliminarla del tutto questa parola che non sa più di alcunché.
In questo ci confortano autorevoli padri. Il “liberalismo” fa problemi sin dalla definizione: «difficile», dice il Dizionario di politica UTET diretto da Norberto Bobbio, Nicola Matteucci e Gianfranco Pasquino alla voce Liberalismo compilata dallo stesso Matteucci. Addirittura irta di «particolari difficoltà». Anzi, persino «pericolosa», con una «storia guazzabuglio» in cui «abbiamo tanti liberali fra loro diversi, ma non il Liberalismo» e questi che, «ieri come oggi», «hanno occupato negli schieramenti parlamentari posizioni assai diverse: conservatrici, centriste, moderate, progressiste». Per di più, «ancor oggi la parola liberale ha significati diversi a seconda delle diverse nazioni». Una cosa di non poco conto.
Stante infatti che il linguaggio serve a comunicare – cioè a traslare da un contesto a un altro la permanenza di una sostanza, decifrando e tramandando –, un vocabolo afasico è un vocabolo inutile. Dite cioè a un americano che siete liberal per significare che v’ispirate a Ludwig von Mises, e quello vi toglierà il saluto per sempre. Per di più “liberale” è ambiguo come lo è “laico”, oggi gettonato secondo termine di un’(ab)usata endiadi. In origine, latina, significa infatti “generoso”, “munifico”.
Ora, questo importerebbe poco se non fosse però che per tutto il Settecento e porzioni significative dell’Ottocento inglese, britannico e nordamericano (quella, cioè, che s’indica come la koinè eziologica del “liberalismo”) il termine avesse mantenuto solo quel significato prepolitico.
L’origine della specie
Contenuto coscientemente politico, il termine “liberale” lo assume solo con Napoleone, il quale riformula l’intera eredità illuministico-giacobina del Settecento francese che a propria volta aveva con il tempo metabolizzato e per tempo rilanciato le lezioni semiclandestine di ciò che, prima, in Gran Bretagna, era definito free-thinking e che in Francia aveva cominciato a farsi adulto come libertinisme.
Il “grande còrso” lo usò nel Proclama del 18 Brumaio dell’anno VIII della repubblica francese, ovvero il “programma” politico con cui il 9 novembre 1799 attuò il colpo di Stato che lo impose primo console fino a quando, il 18 maggio 1804, si creò “Imperatore dei francesi”. Va detto, a lato, che questo è il periodo d’incubazione dell’idéologie, espressione con cui s’intese una “scienza delle idee” funzionale al potere politico e capace di rieducare la nazione alla verità di Stato onde fabbricare e mantenere il consenso popolare.
Il termine “liberale” fu poi definitivamente consacrato quando venne adoperato nelle Cortes (il parlamento) di Cadice, in Spagna, del 1812, a designare il partito culturalmente filofrancese. Nacque, cioè, “francese”, il “liberalismo” politico, pescando a piene mani nei contenuti ideologici della rivoluzione dell’Ottantanove e solo a posteriori, in virtù di una improvvida e mal calcolata analogia, fu applicato alla tradizione culturale anglosassone dove “liberale” valeva “munifico”.
Da qui fu poi nobiltà e miseria. In un aureo saggetto tradotto sul “Dom” del 29 maggio 2004 con il titolo Liberali, “liberal” e “libertarian”: tutta la storia di un’idea prettamente occidentale, il grande liberale (?) austriaco (e asburgico) Erik von Kühnelt-Leddihn distingue infatti almeno quattro diversi liberalismi, l’un contro l’altro armati. Nel secolo XX – ricorda Matteucci – si sono profusi grandi sforzi per la riconciliazione, anzitutto nel 1924 a Ginevra con “L’Entente internationale des partis radicaux et des partis democratiques similaires”, poi creando, a Oxford, nel 1947, l’Internazionale liberale. Ma sono rimasti dei nulla di fatto. Nel primo simposio è evidente l’ambiguità irrisolta (partis radicaux, partis similaires); nel secondo la debolezza concettuale, schiavo com’è del nominalismo marxista.
Il monte verità
Eppure ben altro ha prodotto il mondo “liberale”. All’indomani del disastro della Seconda guerra mondiale, cuore della tragedia del Novecento, chiedendosi se si fosse oramai giunti al capolinea della storia o se si potesse rifondare tutto bene e ancora meglio di prima, interrogandosi sull’incapacità delle istituzioni di diritto a fermare per tempo il totalitarismo ma senza buttare il bambino assieme all’acqua calda, la crème dell’intellettualità “liberale” – non della politica – creò la Mont Pelerin Society. La data fu il 1° aprile 1947, il luogo una omonima località delle Alpi svizzere. Iniziò tutto con una convention di dieci giorni, poi quel milieu si trasformò in un direttorio permanente di quella cultura che era ed è convinta che al “liberalismo” autentico non sia mai stata data una vera chance. Ossia che tutto quanto si è in passato paludato di quel nome è spurio, persino falso.
C’erano tutti: Milton Friedman, Luigi Einaudi, Walter Lippmann, Henry Hazlitt, Ludwig von Mises, Bertrand de Jouvenel, Michael Polanyi, Karl R. Popper, Wilhelm Röpke, per non citare che i più noti.
Anfitrione fu Friedrich A. von Hayek, il campione più famoso della “liberista” Scuola austriaca di economia, Premio Nobel 1974, che sul “liberalismo” ne avrebbe dette di belle. Nel discorso inaugurale affermò: «Sono convinto che, se la frattura fra il vero liberalismo e le convinzioni religiose non sarà sanata, non ci sarà alcuna speranza per la rinascita delle forze liberali». Von Hayek spiegò così al variopinto mondo “liberale” il perché una sessione dell’elvetico simposio fosse specificamente dedicata alla questione liberali/cristiani. L’eco più consona sembra a questo punto il Discorso ai rappresentanti del mondo della cultura, delle Chiese non cristiane e agli studenti, pronunciato a Praga, il 21 aprile 1990, da Papa Giovanni Paolo II: «se la memoria storica dell’Europa non si spingerà oltre gli ideali dell’illuminismo, la sua nuova unità avrà fondamenti superficiali e instabili». Perché? Perché la questione illuminista, come visto, è alla base del “liberalismo” che dovrebbe fondare l’Europa democratica.
Ora, le parole pronunciate da Von Hayek nel 1947 aprono la relazione presentata da Marcello Pera al convegno Liberalismo, cristianesimo e laicità (Fondazione Magna Carta, Roma, 11 dicembre 2004). Lì l’allora presidente “liberale” del Senato afferma di averle ignorate finché, molto di recente, ne è stato folgorato come a Damasco. In fila con ciò che nel libro Cattolici, pacifisti, teocon (Mondadori, Milano 2006) Gaetano Quagliariello (presidente della Fondazione Magna Carta e legittimo interprete del Pera-pensiero) dice essere il nerbo della sfida culturale lanciata, fra laici e cattolici, dall’ex seconda carica dello Stato italiano in dialogo con Papa Benedetto XVI – «ricucire lo scisma provocato dalle conseguenze del 1789» – fa un bel botto.
Il liberalismo statalista
È infatti Pera, in quella stessa relazione a convegno, a sostenere che ciò che fa problema «è la nostra storia, il nostro passato» («nostra, nostro» stanno per liberale); e che «per comprenderlo bisogna ritornare alla classica distinzione di Von Hayek circa i due liberalismi, quello “vero” anglosassone, e quello “falso”, continentale, che solo per carità di ricostruzione storica e non senza ambiguità si può chiamare ancora “liberalismo”».
Di Von Hayek è chiarificatore peraltro "Perché non sono un conservatore" (trad. it. Ideazione, Roma 1997), celeberrimo poscritto del libro The Constitution of Liberty, del 1960, da noi pubblicato come "La società libera" (Seam, Roma 1998). Temendo la morta gora dello status quo, Von Hayek proclama di considerarsi un “old whig” all’inglese, cultura che divenne “liberalismo” solo dopo essere stata alterata – dice – dal razionalismo rozzo e militante della rivoluzione francese. Ma il bello della faccenda è che l’“Old Whiggism” – progresso conservativo e conservazione innovativa – non esisterebbe se non fosse per l’angloirlandese Edmund Burke. Il quale, primo critico della rivoluzione francese e fiero avversario dell’illuminismo, è il padre riconosciuto sia del conservatorismo in cui Von Hayek dice di non riconoscersi, sia di quel “liberalismo” che, vonhayekianamente, ce l’ha con il costruttivismo illuministico-giacobino e in cui si riconosce il popperiano Pera oggi, preceduto ieri da Lord Emerich Edward Dalberg Acton.
Acton, appunto. Lo si usa dire un “cattolico-liberale”, ma fu – la differenza è enorme – un eminente storico cattolico e liberale. Cioè liberale perché cattolico (lo mostra a chiare lettere là dove descrive la storia della libertà che in tratti salienti si sovrappone alla storia della salvezza), cosa, questa, che riporta alla questione primaria: che cosa è il “liberalismo”?
Acton, un burkeano, è colui dal quale Von Hayek apprende a definire san Tommaso d’Aquino il primo (old?) whig della storia e uno che, guardando all’Italia unificata dal Risorgimento, distingueva così: «La dottrina della libertà insiste sull’indipendenza della Chiesa; la dottrina del liberalismo insiste sull’onnipotenza dello Stato quale organo della volontà popolare» (nell’articolo Cavour, pubblicato su The Rambler del luglio 1861). Visto cosa ne è stato del “liberalismo”, oggi Acton – è questo l’autorevole pensiero di Robert A. Sirico, che di Acton s’intende essendo il cofondatore e il direttore dell’Acton Institute for the Study of Religion and Liberty – sarebbe un conservatore, cioè un difensore della libertà ordinata.
L’era dell’ircocervo
Ed ecco allora la nostra proposta. Anzitutto occorre tornare a separare lucidamente ciò che oggi è confusamente unito, il liberalismo “vero”, anglosassone, da quello “falso”, continentale. Il primo – con Von Hayek e, prima, Burke – è quello che dà una lettura evolutiva (“liberalismo storicista” lo chiama Quagliariello) della cultura e dello spirito, e che poggia sull’idea dei limitati poteri della ragione umana, rispettando la tradizione su cui si basano la conoscenza e le civiltà. L’altro è quello fondato sul desiderio di rifare continuamente il mondo conformemente a uno schema ideologico (pre)determinato. È Von Hayek che ricorda, a mo’ di specimen, Voltaire: «Se volete buone leggi, bruciate quelle che avete e datevene di nuove». Più o meno l’idea di Valerio Zanone in Il liberalismo moderno (nel sesto volume della Storia delle idee politiche, economiche e sociali, diretta da Luigi Firpo per la UTET): una libertà staccata dalla verità e assunta come una religione, e una ragione che, opponendosi alla metafisica, inaugura il relativismo.
Fatto questo, occorre poi abolire, e subito, il “liberalismo”. Utile allo scopo è l’intellettuale Biagio De Giovanni, che su il Riformista del 4 marzo spera nel prossimo avvento dell’ircocervo, le nozze tra liberalismo e socialismo impossibili per Benedetto Croce, ma che invece è oramai tempo di celebrare. De Giovanni lo dice almeno dal 1989. “Spalla” di Achille Occhetto nella trasformazione del PCI nella “Cosa” che generò il PDS, poi i DS e domani forse il Partito Democratico, al tempo suggellò la necessità di sostituire, nell’immaginario militante della Sinistra, il mito del 1917, la rivoluzione bolscevica, con l’Ottantanove. Indietro per avanzare.
L’endorsement politico di Occhetto officiò l’esperimento: «Siamo voluti tornare alle fonti. Alle fonti della modernità politica. Alla fonte comune che ha dato alimento ideale, per due secoli, a tutti i movimenti democratici e di sinistra in Occidente». La Sinistra postmarxista che occupa l’intero spazio del liberalismo, richiamandosi coscientemente alle origini del razional-relativismo che lo connota, l’Ottantanove.
E gli altri “liberali”, quelli della tradizione della libertà ordinata”? Serve un altro nome. Un tempo ne fu usato uno, bruttino, che – a partire dal “Dom” del 22 novembre 2003 – abbiamo riscoperto, il “fusionismo”. Non solo l’alleanza strategica di quelli che hanno in comune degli avversari per superare sbarramenti elettorali e lucrare sdoganamenti culturali. Non certo un “partito unico”. Ma la cerca – cito dall’introduzione di Piero Cantoni a Il tascabile dell’apologetica cristiana di Peter Kreeft e Ronald K. Tacelli (trad. it. Ares, Milano 2006), parole adattissime anche se di altro contesto – di «Che cosa pensavamo quando eravamo ancora uniti? Prima di quel drammatico momento in cui abbiamo imboccato sentieri diversi, le cui conseguenze rendono ora tanto più difficilmente credibile il nostro annuncio?». L’irruzione dei Marcello Pera, Giuliano Ferrara, Gaetano Quagliariello, Oriana Fallaci, Eugenia Roccella, Giorgio Israel, senza scordare i teocon e i libertarian USA e italiani, gli Alain Finkielkraut, e nemmeno i Raimondo Cubeddu, i Marco Taradash, i Giovanni Orsina, lo permette, anzi lo impone.
Di là il liberalismo; di qua Von Hayek, che – ricorda Matteucci nel Dizionario di politica – «ha proposto di rinunciare all’uso di una parola così equivoca». Modesta proposta? Bella proposta. Noi raccogliamo firme.
Sogno di un complotto di fine estate
p.s. Sappiate che negli Stati Uniti, la patria delle teorie cospiratorie più bizzarre, i sostenitori di una "verità" alternativa sull'11 settembre sono presi a calci in culo con regolarità svizzera anche dalla sinistra più estrema ed anti-Bush.
Demolizione controllata
UPDATE. Riassunto della trasmissione. Giulietto Chiesa dice che le Twin Towers sono state abbattute di proposito dagli americani (naturalmente pure l'attentato al Pentagono è una bufala). Marco Taradash, sulle prime, è sbigottito. Poi, giustamente, s'incazza. E cita tre volte TocqueVille (si vede che era incazzato davvero). In mezzo ai due, neutrale, scivola Enrico Mentana. Esattamente a metà strada tra Bush/Blair/(Marco) e Saddam/Osama/(Giulietto), attento a non inclinarsi neppure di un micron verso uno dei due avversari. Se questo è il giornalismo di oggi, la libertà di espressione ha conosciuto tempi migliori.
mercoledì 24 maggio 2006
A volte ritornano
martedì 23 maggio 2006
Baghdad, Midway
Ralph Peters, sul New York Post, ci racconta come l'Occidente sta vincendo la guerra contro il terrorismo, nel disinteresse assoluto dei mainstream media (tutti impegnati a dimostrare l'esatto contrario). Intanto Peter Wehner (direttore dell'ufficio per le iniziative strategiche della Casa Bianca), nella pagina dei commenti del Wall Street Journal, distrugge qualcuno dei miti diffusi sull'Iraq dalla vulgata pacifista.
UPDATE: Ainpospiò pubblica la traduzione integrale dell'articolo di Peters. Must-read.
Round-Up: The Strata-Sphere, QandO, California Conservative, Power Line, Media Blog (NRO), Wizbang, PrestoPundit, Blue Crab Boulevard, Fraters Libertas.
Retrocedere, retrocedere, retrocedere!
lunedì 22 maggio 2006
Perché la sinistra non ha vinto
"10 maggio 2006. Giorgio Napolitano diventa Presidente della Repubblica. In quello stesso momento il centro sinistra è venuto meno sia al proprio programma elettorale che alla linea politica fin lì enunciata. In quel programma, difatti, c’era scritto che si voleva alzare il quorum per l’elezione del Capo dello Stato, anzi, si affermava che sarebbe stata la prima cosa da farsi, e, questo, perché era bene che al Quirinale non si arrivasse con i soli voti della maggioranza di governo. Poi, dopo le elezioni, tale concetto è stato ripetuto, senza più riferimento al quorum, ma nei fatti violato. Ed ecco i fatti.
Al momento della partenza ai blocchi della sinistra si è presentato un solo uomo: Massimo D’Alema. Chiedeva di essere eletto presidente della Camera, per poi, da lì, andare al Quirinale. La sua coalizione gli ha detto di no. Sfumata questa ipotesi ha puntato dritto al colle più alto, ma sembrava che ad eleggerlo dovesse essere il centro destra, non il centro sinistra, tant’è che il segretario dei ds, Fassino, lanciava richieste di convergenza all’opposizione, nel mentre divergeva la maggioranza.
La Casa delle Libertà aveva, invece, iniziato con un diverso passo: eleggiamo nuovamente Ciampi. E’ noto che il Presidente uscente aveva già parlato della fine del suo mandato e non voleva trovarsi nella spiacevole condizione di dovere negoziare una ricandidatura. Proprio per questo non si trattava certo di andare contro il suo volere, ma di rivolgergli un appello unitario affinché continuasse nel lavoro avviato (tanto più che una sentenza della Corte Costituzionale era giunta a dargli ragione in un conflitto di poteri da lui sollevato nei confronti del governo, e relativo al potere di grazia). La risposta di Prodi e della sinistra fu gelida: saremmo felici di confermare Ciampi, ma deve chiedercelo lui (questo era il significato del volerne l’esplicita disponibilità). In questo modo hanno bruciato l’ipotesi del secondo settennato e la risposta di Ciampi non si è fatta attendere.
Dato lo stallo, il centro destra ha allora proposto quattro nomi, tutti del centro sinistra, ma considerati di garanzia. Manco li hanno presi in considerazione. Il centro sinistra, invece, ha proposto un solo nome, quello di Giorgio Napolitano, ma non lo ha mai votato (nel timore che i franchi tiratori lo massacrassero nei primi tre scrutini). Se questo è dialogo non sappiamo cosa sia l’incomunicabilità.
E veniamo a Napolitano. Oramai è sufficiente invecchiare per essere iscritti d’ufficio all’albo dei padri della patria. Una volta contava l’intelligenza ed il coraggio, ora si punta tutto sul gerovital. Il piede di Giorgio Napolitano non ha varcato la soglia del Quirinale che già si spandono vagonate di conformismo e quintalate di sciocchezze. Adesso vi presento Napolitano.
E’ stato per lunghi anni responsabile della politica internazionale e della politica industriale del partito comunista italiano (senza offesa, si chiamava così). In quella funzione era direttamente dentro quei flussi di denaro che al pci arrivavano quali tangenti pagate dalle imprese che volevano commerciare con l’Unione Sovietica, dai petrolieri agli industriali. Si dirà: ma questa è roba d’altri tempi. Certo, però, intanto quei tempi lontani sono finiti (forse) ieri, nel 1991, a questo s’aggiunga che il signor Napolitano non ha mai voluto dire una sola parola, neanche per la storia. Di recente ha pubblicato un libro autobiografico (“Dal Pci al socialismo europeo”, Laterza), che è un manuale d’omertà e falsa memoria.
Si dice che sia un grande europeista. No, guardate, l’onorevole Napolitano è quello stesso parlamentare che tenne il discorso con cui i comunisti spiegarono perché non si dovesse entrare nel Sistema Monetario Europeo. Niente Sme, niente Banca Centale, niente euro, niente Unione Europea. Alla faccia dell’europeismo. A quell’epoca marciavano per il disarmo degli occidentali, a favore dei missili nucleari sovietici e per l’eurocomunismo. Non risultano proteste di Napolitano.
Si dice sia un coraggioso socialdemocratico. Nella seconda metà degli anni settanta Napolitano disse di avere “riletto” la Nota Aggiuntiva al Bilancio dello Stato del 1962, e di averci trovato molti spunti interessanti. Ugo La Malfa, autore di quella nota, commentò: non l’ha riletta, l’ha letta per la prima volta. Napolitano era in ritardo di una quindicina d’anni, ma passava per anticipatore dato che i suoi compagni se ne stavano assai più indietro.
Si dice che abbia guardato a Craxi senza odio. Ma a parte il fatto che l’idea di un partito unico della sinistra era di Giorgio Amendola, e risaliva al 1964, degli apprezzamenti di Napolitano non c’è traccia nella battaglia referendaria (persa dai comunisti) contro la scala mobile, né ricordo parole interessanti quando era presidente della Camera ed il giustizialismo mieteva vittime in Aula. Fu lui a ricevere la lettera dell’onorevole Moroni, e non ricordo alcun coraggio, alcuna fierezza, alcun senso delle istituzioni.
E’ un mite, certo non è un estremista. Ha doti di equilibrio, che spesso esercita restando del tutto fermo. Di davvero significativo, nella sua biografia, non ha trovato molto neppure lui stesso. Ma basta essere vecchi, non avere avuto momenti significativi, di altezza, di rottura, aver seguito la corrente, non rappresentare, nel presente, né un pericolo né un’opportunità, che l’accademia degli inutili ti chiama alla presidenza.
Prima dell’elezione di Napolitano la sinistra aveva già eletto la seconda e la terza carica dello Stato, i presidenti delle Camere, piazzando al Senato Marini ed alla Camera Bertinotti. Quest’ultimo dice di essere comunista, è stato eletto essendo segretario del Partito della Rifondazione Comunista, giuriamo di non essere noi ad avere le allucinazione, giuriamo che lo scriviamo senza volere offendere, ma, insomma, la sostanza è questa: i comunisti occupano la prima e la terza carica dello Stato. Il resto son chiacchiere.
Con Marini e Bertinotti, inoltre, sono giunti al potere i sindacati, roba che se i laburisti ci avessero provato, in Inghilterra, se ne sarebbero rimasti minoranza per il resto dei loro giorni. Il primo fu sindacalista nella cisl, il secondo nella cgil, tutti e due nati nel professionismo politico. Basta questo per capire che la distribuzione degli incarichi istituzionali non è una foto dell’Italia d’oggi, ma un dagherrotipo di quella del secolo scorso. Dunque, nell’Italia dove i sindacati rappresentano sempre meno i lavoratori e sempre più una minoranza di pensionati, nel mentre i sindacati stessi sono strutturati per negoziare contratti che riguardano una minoranza decrescente di lavoratori, nel mentre le sfide che ci attendono riguardano la dimensione globale del mercato, si prendono due sindacalisti e li si promuove a statisti. In quelle condizioni può finalmente nascere il governo di Romano Prodi, vale a dire del più longevo esponente dell’industria di Stato, che ha lungamente e ripetutamente diretto, sempre in rappresentanza della democrazia cristiana. Due figli del mondo sindacale si muoveranno per tutelare l’ascesa di un figlio dello statalismo, il tutto sotto la supervisione del ministro egli affari esteri comunisti. Qualcuno, per cortesia, svegli l’Italia, brutta addormentata, da quest’incubo del passato che non passa mai.
Qualcuno scrive che anche il centro destra, quando fu maggioranza, non divise le cariche istituzionali con l’opposizione. Lo si scrive a vanvera. Il centro destra votò, quale Presidente della repubblica, Carlo Azelio Ciampi, che era, in quel momento, ministro del tesoro nel governo di Massimo D’Alema. E Ciampi ha accompagnato tutta intera la legislatura a maggioranza di centro destra, facendosi sia sentire che valere. Quindi non c’è stata mai, neanche per un solo istante, quell’occupazione dello Stato, quella appropriazione di tutte le cariche di cui oggi la sinistra si rende protagonista.
Non bastasse questo, sarà bene ricordare che per la scelta (legittima ieri come oggi) di assegnare la presidenza delle Camere ad esponenti della maggioranza, la sinistra attaccò duramente il centro destra, ricordando la diversa condotta che aveva portato, in passato, prima Pietro Ingrao e poi Nilde Jotti ad essere presidenti della Camera dei Deputati, senza che vi fosse una maggioranza comunista (erano comunisti, senza offesa).
Di più, fin dalla nascita della Repubblica il governo è stato retto da una coalizione di diseguali, ruotante attorno alla Democrazia Cristiana, il che ecludeva potesse esserci una uniformità d’interessi politici fra le prime tre cariche dello Stato, e non è un caso, del resto, che il Quirinale sia toccato anche alle minoranze politiche. Dal che deriva che il 10 maggio 2006 si è imboccata una strada sconosciuta, si è realizzata un’inedita concentrazione di potere, si è adottata una condotta che non potrà essere modificata.
Il risultato elettorale è stato un pareggio, a seguito del quale una parte ha preso tutto per sé. Tutto si è irrigidito, ed il guaio delle cose rigide è che, sotto pressione, si spezzano".
da "Perché la sinistra non ha vinto. Dal pareggio elettorale all’occupazione delle istituzioni", a cura di Vittorio Feltri e Renato Brunetta
Repetita iuvant
E' vero. Quello che ha scritto ieri Christian Rocca su Camillo è più che "noto" a chi si interessa (anche distrattamente) di politica americana. Ma ripeterlo una volta in più, a beneficio di tutti gli altri, non può che fare bene.
Sweet Balkanization
La corona nel pugno
sabato 20 maggio 2006
Weekend (Open) Must-Read List
Michael Barone, RealClear Politics
► Out of Touch: Bush & "Da Vinci Code"
Peggy Noonan, Wall Street Journal
► Feeding the hand that bites them
Mark Steyn, Macleans.ca
► Cruisin' (Cruisin', Part II)
Jay Nordlinger, National Review
► The Real Iraq
Amir Taheri, Commentary
► Anti-Anti-Americanism
Victor Davis Hanson, National Review
► The Parent Trap
Glenn H. Reynolds, Tech Central Station
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Nequidnimis - Il calcio (nel didietro) dell'Ilaria
The Uncooperative Blogger - D-Day Storm the Capitol Campaign!
123beta - Ignoring The ACLU
Mark My Words - Because the ladies asked...
Freedomland - America, Mercato, Individuo. E Friuli
Mark My Words - For Sunday
Woman Honor Thyself - ThE PoweR of WordS
Blue Star Chronicles - Not Worthy of Respect
Planck's Constant - Islamic Hierarchy: Men are from Mars
Blue Star Chronicles - Progressive Hypocrisy
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venerdì 19 maggio 2006
Prodi dà i numeri
giovedì 18 maggio 2006
Benvenuti sulla Terra/13
"Destano perplessità alcune dichiarazioni passate e presenti del neoministro che rischiano di tramutare la capacità di mediazione in un intendere la giustizia all'acqua di rose, e il rispetto per la magistratura solo in un fatto di bon ton istituzionale che poi si ferma davanti alle sentenze non condivise. (...) Proprio sul tipo di cultura che viene fuori dalle antiche parole del neoministro si fonda infatti la mentalità italiana (e tutta la deriva che ne consegue) della legge interpretata per l'amico e applicata per il nemico, delle leggi draconiane temperate dalla generale inosservanza e delle conseguenti mafie e clientele di ogni grado e colore. (...) Meno male che Mastella è un politico, ma che sia troppo politico per assicurarci il rispetto generale della legalità e una giustizia giusta e uguale per tutti?". (Rita Guma, Osservatorio sulla Legalità, 18 maggio)
mercoledì 17 maggio 2006
Quote rosa (shocking)
Déjà Vu
martedì 16 maggio 2006
Spassionato (ed ingenuo)
domenica 14 maggio 2006
Sunday (Open) Must-Read List
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venerdì 12 maggio 2006
Benvenuti sulla Terra/12
(Paola Binetti, Margherita, 11 aprile)
"C'è da rimanere stupefatti da un elemento quasi di spietatezza, di assenza di carità, nelle dichiarazioni rese ancora oggi da Joseph Ratzinger in materia di sessualità, omosessualità e famiglia. A questo punto, diventa indifferibile per la Rosa nel pugno rilanciare gli impegni presi in campagna elettorale su pacs e coppie di fatto".
(Daniele Capezzone, Rosa nel Pugno, 11 maggio)
giovedì 11 maggio 2006
Ferrara e la Right Nation
mercoledì 10 maggio 2006
Altro che Gramsci, ci vuole South Park
martedì 9 maggio 2006
In edicola Ideazione di maggio-giugno
domenica 7 maggio 2006
Doppio passo (indietro)
UPDATE. Le prime reazioni della CdL
Lorenzo Cesa, segretario Udc: «La candidatura di Napolitano richiede una riflessione molto seria. Ho convocato su questo per le 12 di domani (lunmedì, ndr) l'ufficio politico dell'Udc per parlarne nel mio partito e con gli alleati».
Fabrizio Cicchitto, vice coordinatore nazionale di Forza Italia: «Non credo possa essere una candidatura condivisibile. Ma sia chiaro che questa è una mia valutazione personale in quanto non mi sono confrontato con il Presidente Silvio Berlusconi».
Ignazio La Russa, presidente dei deputati di Alleanza nazionale: «Non ho titolo per dire sì o no a Napolitano, ma non è ininfluente il fatto che Napolitano non faccia parte della rosa dei quattro nomi...».
giovedì 4 maggio 2006
Jean-François Revel (1924-2006)
"Clearly, a civilization that feels guilty for everything it is and does will lack the energy and conviction to defend itself".
(Jean-François Revel, 1924-2006)