RightNation
martedì 28 settembre 2010
Fifty States Strategy
Buone notizie - per il Senato - da Wisconsin e (addirittura) West Virginia. Mentre Dino Rossi risale leggermente a Washington State e Linda McMahon, in Connecticut (!), recupera in due settimane il 4% per Rasmussen e il 3% per Quinnipiac (ora, secondo la media RCP è a -4% da Blumenthal).
lunedì 27 settembre 2010
sabato 25 settembre 2010
giovedì 23 settembre 2010
martedì 21 settembre 2010
Ugly Nations
Il dubbio, ormai, è diventato un semplice esercizio accademico: l’Onu è soltanto inutile o, con il passare degli anni, è diventata addirittura dannosa? L’ultima sfilata dei leader mondiali al Palazzo di Vetro, per certificare lo stato dell’arte (traduzione: il fallimento) degli Obiettivi del Millennio non ci aiuta a dirimere la questione. La sede delle Nazioni Unite sembra ormai essersi trasformata in una versione, mediaticamente più sofisticata, dello Speakers’ Corner di Hyde Park. Ognuno sale sul palco, dice quello che vuole dire, saluta e se ne va. Con una sola, significativa differenza: nel parco londinese, i dittatori (se riconosciuti) non sono in genere accolti a braccia aperte.
Se però scorriamo brevemente il primo e il secondo articolo dello Statuto delle Nazioni Unite, che ne definiscono «obiettivi e principi», il senso strisciante di pessimismo cresce. «Mantenere la pace e la sicurezza internazionale»? «Promuovere la soluzione pacifica delle controversie»? «Sviluppare le relazioni amichevoli tra le nazioni»? Fallimento su tutta la linea. «Promuovere il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali degli individui»? Niente di più semplice, per un’organizzazione che ha piazzato l’Iran nella Commissione per i diritti delle donne; la Libia nel Consiglio per i diritti umani; Sudan, Cuba, Cina e Pakistan nel Comitato per il controllo delle organizzazioni non governative; Cuba, Egitto e Zimbabwe nella Commissione per lo sviluppo economico e sociale; Angola e Arabia Saudita nella Commissione per lo sviluppo sostenibile. Si tratta di scelte che riescono, contemporaneamente, a tradire lo spirito che ha portato alla creazione di commissioni o comitati e a prolungare la sofferenza delle persone che, in teoria, si volevano proteggere. Ecco allora che il pendolo che oscilla tra inutilità e dannosità inizia inesorabilmente a spostarsi verso quest’ultima. Ma non è finita.
«Promuovere la cooperazione economica e sociale», si legge nello Statuto. Che poi, in concreto, è uno dei motivi per cui - otto anni fa - erano stati approvati gli otto punti degli Obiettivi per il 2015 che spaziano dal «ridurre la mortalità infantile» al «dimezzare il numero delle persone che vive con meno di un dollaro al giorno», passando per la «parità dei sessi» e la «garanzia di un’istruzione primaria universale». Naturalmente, nel gergo Onu e in quello dei regimi che ne controllano di fatto gli organi, l’intero costo dell’operazione dovrebbe ricadere sui Paesi “ricchi”. Lunedì il segretario generale Ban Ki-moon ha detto che dei 145 miliardi di dollari promessi alle Nazioni Unite dal G8 di Gleneagles, in Scozia, mancano ancora 26 miliardi. Il degno successore di Kofi Annan si è dimenticato di ricordare che senza una decisiva espansione delle libertà economiche e dei diritti umani - ancora sconosciuti alla maggior parte dei Paesi membri - il raggiungimento di questi obiettivi (o in generale di quelli previsti dallo Statuto Onu) resta una beffarda utopia.
Le Nazioni Unite, al contrario, sembrano spingere con tutte le loro forze nella direzione opposta. Assecondano la poltica estera e la repressione interna dei dittatori; danno vita a giganteschi sforzi economici basati su truffe mediatiche (global warming, anyone?); inseguono un terzomondismo d’accatto sconfitto dalla storia e dal buon senso. Il pendolo, a questo punto, si ferma di schianto. E il responso è drastico: oggi le Nazioni Unite sono dannose per lo sviluppo dell’umanità. Meglio, molto meglio, tornare a parlare di una Lega delle democrazie.
[domani in edicola su Liberal]
Se però scorriamo brevemente il primo e il secondo articolo dello Statuto delle Nazioni Unite, che ne definiscono «obiettivi e principi», il senso strisciante di pessimismo cresce. «Mantenere la pace e la sicurezza internazionale»? «Promuovere la soluzione pacifica delle controversie»? «Sviluppare le relazioni amichevoli tra le nazioni»? Fallimento su tutta la linea. «Promuovere il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali degli individui»? Niente di più semplice, per un’organizzazione che ha piazzato l’Iran nella Commissione per i diritti delle donne; la Libia nel Consiglio per i diritti umani; Sudan, Cuba, Cina e Pakistan nel Comitato per il controllo delle organizzazioni non governative; Cuba, Egitto e Zimbabwe nella Commissione per lo sviluppo economico e sociale; Angola e Arabia Saudita nella Commissione per lo sviluppo sostenibile. Si tratta di scelte che riescono, contemporaneamente, a tradire lo spirito che ha portato alla creazione di commissioni o comitati e a prolungare la sofferenza delle persone che, in teoria, si volevano proteggere. Ecco allora che il pendolo che oscilla tra inutilità e dannosità inizia inesorabilmente a spostarsi verso quest’ultima. Ma non è finita.
«Promuovere la cooperazione economica e sociale», si legge nello Statuto. Che poi, in concreto, è uno dei motivi per cui - otto anni fa - erano stati approvati gli otto punti degli Obiettivi per il 2015 che spaziano dal «ridurre la mortalità infantile» al «dimezzare il numero delle persone che vive con meno di un dollaro al giorno», passando per la «parità dei sessi» e la «garanzia di un’istruzione primaria universale». Naturalmente, nel gergo Onu e in quello dei regimi che ne controllano di fatto gli organi, l’intero costo dell’operazione dovrebbe ricadere sui Paesi “ricchi”. Lunedì il segretario generale Ban Ki-moon ha detto che dei 145 miliardi di dollari promessi alle Nazioni Unite dal G8 di Gleneagles, in Scozia, mancano ancora 26 miliardi. Il degno successore di Kofi Annan si è dimenticato di ricordare che senza una decisiva espansione delle libertà economiche e dei diritti umani - ancora sconosciuti alla maggior parte dei Paesi membri - il raggiungimento di questi obiettivi (o in generale di quelli previsti dallo Statuto Onu) resta una beffarda utopia.
Le Nazioni Unite, al contrario, sembrano spingere con tutte le loro forze nella direzione opposta. Assecondano la poltica estera e la repressione interna dei dittatori; danno vita a giganteschi sforzi economici basati su truffe mediatiche (global warming, anyone?); inseguono un terzomondismo d’accatto sconfitto dalla storia e dal buon senso. Il pendolo, a questo punto, si ferma di schianto. E il responso è drastico: oggi le Nazioni Unite sono dannose per lo sviluppo dell’umanità. Meglio, molto meglio, tornare a parlare di una Lega delle democrazie.
[domani in edicola su Liberal]
venerdì 17 settembre 2010
Dead Fight
Durante la trasmissione “60 Minutes” della CBS, Jimmy Carter accusa Ted Kennedy di aver «deliberatamente» ritardato per 30 anni la riforma sanitaria con il suo «comprtamento offensivo e irresponsabile». Ancora nessuna reazione da parte di Ted Kennedy.
Down Under
Intervistato dal più grande quotidiano del paese, il “portavoce” dei neonati Tea Party Australia - David Goodridge - ha chiesto al giornalista di essere identificato soltanto come il «website editor». Se si reputano più importanti le proprie idee della propria visibilità personale, sarebbe saggio prendere esempio da Goodridge.
giovedì 16 settembre 2010
Tea Party & Pizza
Mentre Karl Rove è convinto che (con la vittoria di Christine O'Donnell alle primarie) il GOP abbia perso ogni speranza di conquistare il Delaware (e forse il controllo del Senato), Jeri Thompson sull'American Spectator azzarda una tesi contraria. Gli ultimi sondaggi dalla Florida, che vedono in grande vantaggio un altro “protetto” dei Tea Party dato prematuramente per sconfitto dopo le primarie, sembrano dare (almeno parzialmente) credito alla teoria della Thompson. Ma l'ottimismo, per i repubblicani, arriva come sempre dallo stato comatoso degli avversari. Ormai anche a sinistra si sono resi conto che il Partito democratico è una pizza.
mercoledì 15 settembre 2010
Wrong Continent
Clamoroso: secondo un sondaggio di Transatlantic Trends, il 78% degli intervistati approva la politica estera di Obama. Peccato che si tratti di europei. Viene alla mente l'amara constatazione di Adlai Stevenson dopo la seconda sconfitta alle presidenziali contro Dwight D. Eisenhower: «The trouble with me is, I always run on the wrong continent».
martedì 14 settembre 2010
Aridatece la CdL
PdL in calo nella media dei sondaggi nazionali calcolata da Notapolitica.it. Il partito di maggioranza relativa galleggia appena al di sopra del 30%, con una sensibile emorragia di consensi nei confronti della Lega Nord (12%) e di Futuro&Libertà (5,5%). Stabile il fronte centrista (Udc al 6,1% e Api all'1%). Ed encefalogramma piatto anche a sinistra, con Vendola oltre il 4%, Rifondazione e Comunisti sotto al 2%, Partito democratico appena sopra al 26% (7 punti in meno rispetto al 2008, esattamente come il PdL) e Idv (6,5%) frenata da Grillo (2%). Vale la pena sottolineare come il centrodestra “allargato”, che più o meno corrisponde alla Casa delle Libertà del 2006, oggi - secondo i sondaggi - raccoglierebbe circa il 56% dei voti.
lunedì 13 settembre 2010
Perpetual Minority Status
Negli ultimi giorni, lo sport preferito dai conservatori Usa - e dai simpatizzanti repubblicani in genere - sembra essere diventato quello di dividersi (in modo anche sgradevole) sulle primarie del GOP in Delaware previste per domani. Meglio la “pura” (e con ogni probabilità ineleggibile) Christine O'Donnell, beniamina dei Tea Party, o il “liberal” (e con ogni probabilità destinato alla vittoria) Mike Castle? I sondaggi prevedono un testa a testa. E i pundits di destra si scambiano insulti in ogni angolo del cyberspazio, per la gioia dei soliti noti. Noi, come scrive Paul Mirengoff di Powerline (che appoggia Castle) in una replica a Mark Levin (che appoggia O'Donnell), restiamo fedeli al celebre motto di William F. Buckley Jr.: «I conservatori dovrebbero appoggiare il più conservatore, o il meno liberal, dei candidati che hanno una chance di vincere». Fare altrimenti, come scrive John H. Hinderaker (uno dei co-blogger di Powerline), «è un biglietto di sola andata per uno status di eterna minoranza». E questo dovrebbe dispiacere a tutti i conservatori. Anche quelli più “puri”.
UPDATE. La contro-replica di Mark Levin.
UPDATE/2. La contro-contro-replica di Mirengoff.
UPDATE/3. «Everyone get a grip. Take a deep breath. Fight your best fight. Make your best arguments. Wait for the votes to be counted. Then march on and move forward». Un invito alla calma di Michelle Malkin (che sostiene O'Donnell).
UPDATE. La contro-replica di Mark Levin.
UPDATE/2. La contro-contro-replica di Mirengoff.
UPDATE/3. «Everyone get a grip. Take a deep breath. Fight your best fight. Make your best arguments. Wait for the votes to be counted. Then march on and move forward». Un invito alla calma di Michelle Malkin (che sostiene O'Donnell).
mercoledì 8 settembre 2010
Free Chicago
Il sindaco democratico di Chicago, Richard M. Daley, in carica da 21 anni (un record inferiore soltanto a quello del padre Richard J. Daley), ha deciso che nel 2011 non proverà ad essere rieletto per la settima volta. «It's time for Chicago to move on», ha dichiarato Daley. Ma una cosa è certa: se anche la “dinastia” scappa dalla windy city si annuncia maltempo (per i Dems) nei prossimi cicli elettorali.
lunedì 6 settembre 2010
FareFantascienza
«Barack Obama sembrava sull’orlo del baratro. Le lobbies lo contrastavano per la paventata riforma sanitaria, le grandi multinazionali e gli ambientalisti per il disastro nel golfo del Messico, i sindacati per la recessione, i pacifisti per i conflitti in Iraq, illustri politologi per la situazione in Medio Oriente. Ma lui, noncurante della pioggia di parole e sferzanti analisi, ha tirato dritto per la sua strada. Non una strada di sfavillanti premesse, o di retoriche enunciazioni. Non di giustificazioni con l’opinione pubblica per la congiuntura economica o per la concomitanza di un evento ambientale unico nella storia. Non una parola polemica su questo o quell’avversario, non una sola ricerca affannosa di giustificazioni, o una sola lamentela affidata ad un comunicato stampa o pronunciata vis-à- vis nello splendido giardino delle rose. Ma lavoro, lavoro e solo lavoro. (...) Senza perdersi dietro presunte strategie di persecuzione o di tradimenti, o dietro gli stucchevoli poteri forti che impediscono la rivoluzione immaginata».
Non sappiamo proprio se metterci a ridere o a piangere. L'ultimo articolo pubblicato da FareFuturo Web Magazine nella sezione esteri, scritto da Francesco De Palo e brillantemente intitolato “Rivoluzione Obama: la vera politica del fare”, è un concentrato di luoghi comuni paleo-progressisti a cui non vale neppure la pena ribattere, visto che si tratta di un cocktail di banalità e di talking-point democratici che perfino Lady Michelle si imbarazzerebbe a ripetere o Daily Kos a scrivere.
Nel giorno in cui Time (non la National Review) ci racconta “Come Obama è diventato Mister Impopolarità”, insomma, FareFuturo ci spiega che Obama è lo statista del secolo. Proprio mentre la destra americana inizia a sognare in grande per le elezioni di mid-term, FareFuturo tesse le sperticate lodi del presidente più “sinistro” degli ultimi quarant'anni (soltanto per sparare qualche pallottola spuntata contro il Cavaliere). Niente male per gli alfieri della nuova destra liberale italiana che vorrebbe organizzarsi sul modello dei Tea Party.
Se Google non c'inganna, Francesco De Palo (sul cui blog convivono, senza imbarazzo, i link a Tocqueville, Libertiamo e... Gad Lerner) è un giornalista pubblicista pugliese che - almeno fino al 2006 - si è occupato soprattutto di Grecia (paese di cui si è innamorato «al termine di un viaggio a Mykonos»). Sarebbe stato meglio, molto meglio, che si fosse continuato ad occupare delle meraviglie dell'Ellade, visti i disastri che combina scrivendo di America (non solo recentemente).
UPDATE. Ooops. (h/t 1972)
Non sappiamo proprio se metterci a ridere o a piangere. L'ultimo articolo pubblicato da FareFuturo Web Magazine nella sezione esteri, scritto da Francesco De Palo e brillantemente intitolato “Rivoluzione Obama: la vera politica del fare”, è un concentrato di luoghi comuni paleo-progressisti a cui non vale neppure la pena ribattere, visto che si tratta di un cocktail di banalità e di talking-point democratici che perfino Lady Michelle si imbarazzerebbe a ripetere o Daily Kos a scrivere.
Nel giorno in cui Time (non la National Review) ci racconta “Come Obama è diventato Mister Impopolarità”, insomma, FareFuturo ci spiega che Obama è lo statista del secolo. Proprio mentre la destra americana inizia a sognare in grande per le elezioni di mid-term, FareFuturo tesse le sperticate lodi del presidente più “sinistro” degli ultimi quarant'anni (soltanto per sparare qualche pallottola spuntata contro il Cavaliere). Niente male per gli alfieri della nuova destra liberale italiana che vorrebbe organizzarsi sul modello dei Tea Party.
Se Google non c'inganna, Francesco De Palo (sul cui blog convivono, senza imbarazzo, i link a Tocqueville, Libertiamo e... Gad Lerner) è un giornalista pubblicista pugliese che - almeno fino al 2006 - si è occupato soprattutto di Grecia (paese di cui si è innamorato «al termine di un viaggio a Mykonos»). Sarebbe stato meglio, molto meglio, che si fosse continuato ad occupare delle meraviglie dell'Ellade, visti i disastri che combina scrivendo di America (non solo recentemente).
UPDATE. Ooops. (h/t 1972)
sabato 4 settembre 2010
venerdì 3 settembre 2010
Cavalcare l'onda
A questo punto, per il GOP, il vero problema potrebbero essere le aspettative troppo alte che stanno montando in vista delle elezioni di mid-term. A forza di parlare di “wave” e di replica del 1994 (o del 1946), il rischio è che una semplice vittoria possa essere scambiata per un risultato deludente. Anche il simpatizzante repubblicano più restio ad abbandonarsi all'euforia, però, non può non ammettere che i segnali che lasciano pensare a un ciclo elettorale disastroso per i democratici si stiano accumulando in modo sempre più evidente.
Job approval di Obama a parte, i repubblicani sono ormai in netto vantaggio (+4.8%, con un picco di +10% nell'ultima rilevazione Gallup) anche nel generic congressional ballot, misura che li vede storicamente svantaggiati. L'ultima “Crystal Ball” di Larry J. Sabato, sempre molto prudente, assegna al GOP 8-9 pick-up al Senato (un risultato che porterebbe il partito a 49-50 seggi) e 47 pick-up alla Camera (con relativa maggioranza repubblicana). Senza contare il +8 previsto nelle corse per governatore, che trasformerebbe il balance of power da 26-24 per i democratici a 32-18 per i repubblicani. La potenziale mappa dei governatori, in pratica, ridurrebbe il partito democratico ad una forza locale confinata nel nord-est.
Se a questo aggiungiamo l'attuale (e senza precedenti) vantaggio repubblicano nei parametri che prevedono il turn-out elettorale per novembre - quello che Tom Jensen di PPP (un sondaggista democratico) chiama “enthusiasm gap” - e la progressiva perdita di consensi democratica tra le nuove generazioni, ce ne sarebbe abbastanza per abbastanza per darsi alle danze più sfrenate; e per spiegare perché a New Orleans già stanno mandando in onda spot per Hillary 2012. Ma novembre è ancora lontano e i repubblicani non possono permettersi distrazioni, se vogliono cogliere l'occasione di riconquistare il controllo della Camera e - magari - portare al pareggio i democratici al Senato, trasformando la seconda metà del (primo?) mandato di Obama in un'anatra zoppa. E pensare che, meno di due anni fa, tutti erano pronti a giurare sulla definitiva scomparsa del GOP e sulla necessità, per il movimento conservatore americano, di trasformarsi in una pallida copia di un partito democristiano europeo. Le idee, però, soprattutto le buone idee, sono dure a morire.
Job approval di Obama a parte, i repubblicani sono ormai in netto vantaggio (+4.8%, con un picco di +10% nell'ultima rilevazione Gallup) anche nel generic congressional ballot, misura che li vede storicamente svantaggiati. L'ultima “Crystal Ball” di Larry J. Sabato, sempre molto prudente, assegna al GOP 8-9 pick-up al Senato (un risultato che porterebbe il partito a 49-50 seggi) e 47 pick-up alla Camera (con relativa maggioranza repubblicana). Senza contare il +8 previsto nelle corse per governatore, che trasformerebbe il balance of power da 26-24 per i democratici a 32-18 per i repubblicani. La potenziale mappa dei governatori, in pratica, ridurrebbe il partito democratico ad una forza locale confinata nel nord-est.
Se a questo aggiungiamo l'attuale (e senza precedenti) vantaggio repubblicano nei parametri che prevedono il turn-out elettorale per novembre - quello che Tom Jensen di PPP (un sondaggista democratico) chiama “enthusiasm gap” - e la progressiva perdita di consensi democratica tra le nuove generazioni, ce ne sarebbe abbastanza per abbastanza per darsi alle danze più sfrenate; e per spiegare perché a New Orleans già stanno mandando in onda spot per Hillary 2012. Ma novembre è ancora lontano e i repubblicani non possono permettersi distrazioni, se vogliono cogliere l'occasione di riconquistare il controllo della Camera e - magari - portare al pareggio i democratici al Senato, trasformando la seconda metà del (primo?) mandato di Obama in un'anatra zoppa. E pensare che, meno di due anni fa, tutti erano pronti a giurare sulla definitiva scomparsa del GOP e sulla necessità, per il movimento conservatore americano, di trasformarsi in una pallida copia di un partito democristiano europeo. Le idee, però, soprattutto le buone idee, sono dure a morire.
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