RightNation
venerdì 29 gennaio 2010
Il cerchio si chiude
TERRORISMO: NUOVO MESSAGGIO BIN LADEN,
ATTACCA USA SU CAMBIAMENTI CLIMA
(Adnkronos/Aki) - «I paesi industrializzati e in particolare quelli più grandi sono responsabili dei cambiamenti climatici - afferma Bin Laden - Il cambiamento climatico del pianeta non è solo un'idea, ma una realtà. Loro sono responsabili perché hanno invocato gli accordi di Kyoto accordandosi sulla riduzione delle emissioni dei gas, salvo poi, per decisione di George Bush junior e prima ancora del Congresso americano, respingere gli accordi per accontentare le grosse multinazionali». «Ci sono loro dietro l'aumento generalizzato dei prezzi di prima necessità - dice il leader di al-Qaeda - e dietro la cattiva situazione economica nella quale ci troviamo». «Ha ragione Noam Chomsky quando sostiene che c'è un legame tra la politica americana e quella delle bande mafiose». È quanto afferma nella seconda parte del suo messaggio audio il leader di al-Qaeda, Osama Bin Laden. In quest'ultima registrazione, trasmessa dalla tv araba al-Jazeera, Bin Laden parla anche della crisi economica e cita il noto intellettuale americano e le sue tesi. «Sono loro i veri terroristi - afferma - Dobbiamo impedire l'uso del dollaro e liberarcene al più presto. È questa la via per liberare l'umanità dall'America e dalle sue multinazional». Bin Laden propone quindi il boicottaggio dei prodotti, delle societa' e della moneta statunitense come soluzione alla crisi economica mondiale.
Bin Laden, Al Gore, Noam Chomsky: tutto, ora, ha perfettamente senso.
ATTACCA USA SU CAMBIAMENTI CLIMA
(Adnkronos/Aki) - «I paesi industrializzati e in particolare quelli più grandi sono responsabili dei cambiamenti climatici - afferma Bin Laden - Il cambiamento climatico del pianeta non è solo un'idea, ma una realtà. Loro sono responsabili perché hanno invocato gli accordi di Kyoto accordandosi sulla riduzione delle emissioni dei gas, salvo poi, per decisione di George Bush junior e prima ancora del Congresso americano, respingere gli accordi per accontentare le grosse multinazionali». «Ci sono loro dietro l'aumento generalizzato dei prezzi di prima necessità - dice il leader di al-Qaeda - e dietro la cattiva situazione economica nella quale ci troviamo». «Ha ragione Noam Chomsky quando sostiene che c'è un legame tra la politica americana e quella delle bande mafiose». È quanto afferma nella seconda parte del suo messaggio audio il leader di al-Qaeda, Osama Bin Laden. In quest'ultima registrazione, trasmessa dalla tv araba al-Jazeera, Bin Laden parla anche della crisi economica e cita il noto intellettuale americano e le sue tesi. «Sono loro i veri terroristi - afferma - Dobbiamo impedire l'uso del dollaro e liberarcene al più presto. È questa la via per liberare l'umanità dall'America e dalle sue multinazional». Bin Laden propone quindi il boicottaggio dei prodotti, delle societa' e della moneta statunitense come soluzione alla crisi economica mondiale.
Bin Laden, Al Gore, Noam Chomsky: tutto, ora, ha perfettamente senso.
giovedì 21 gennaio 2010
Scott, il vendicatore
Pubblichiamo un articolo di Marco Respinti, ospite (graditissimo) di The Right Nation, sulle elezioni suppletive in Massachusetts
Martedì nero per i Democratici statunitensi. Avrebbe dovuto essere la solita passeggiata di sempre e invece è stato un incubo. La vittoria del Repubblicano Scott Brown nelle elezioni suppletive per il Senato federale di Washington, che si sono volte martedì in Massachusetts, ha infatti non solo mandato all’aria certi giochetti politici “locali” vecchi e stantii, ma anzitutto e soprattutto lanciato alla Casa Bianca un nettissimo segnale di rivolta. Quella che potrebbe essere la fine della riforma del sistema sanitario nazionale fortemente voluta dal presidente Barack Hussein Obama parte infatti da qui, dal Massachusetts. Divenendo oggi il 41° dei senatori Repubblicani attualmente in carica, Brown infrange sugli scogli la maggioranza qualificata di 60 seggi che impedisce ogni ostruzionismo parlamentare. Per questo il Partito Repubblicano festeggia e il popolo conservatore gongola. Tenendo presente che, di tutto il castello di promesse mai mantenute, proprio la riforma sanitaria era ed è rimasta l’ultima speciosa arma retorica con cui la Casa Bianca cerca di mantenere la testa sopra la linea di galleggiamento, a solo un anno di distanza da quella montagna parolaia che nel novembre 2008 ha partorito il topolino Obama è opportuno che cronisti e commentatori inizino a rinfoderare la spocchia con cui da dodici mesi spadroneggiano nel nome di “Magic Barack”.
È dal 1952 che il seggio senatoriale ora conquistato da Brown stava inamovibilmente nelle mani del clan Kennedy, di JFK prima e dell’ineffabile “Ted” dopo; da trent’anni la rappresentanza del Massachusetts al Senato di Washington era un monolite monocolore Democratico, e pure ostaggio della componente più smaccatamente progressista del Partito Democratico. Che un Repubblicano come Brown abbia dunque infranto questa cortina di ferro è un fatto davvero eccezionale.
Per molti aspetti, Brown è un vir novus. Sì, in loco lo si conosce discretamente, le cronache mondane rimbalzano il suo nome da un bel po’, ma resta vero che per la politica di livello nazionale è ancora un “signor nessuno”. Che quindi sia un uomo così, più vicino alla gente di quanto s’immagini e più espressione del popolo di quanto si sospetti, a sbaragliare quelle gioiose macchine da guerra con ingranaggi ben oliati che in Massachusetts marciano alla guida di timonieri consumati (in tutti i sensi) e in una tornata elettorale tanto importante è un segnale politico di una forza straordinaria.
In poche settimane, il “parvenu” Brown ha polverizzato il “mito” che già manda cattivo odore di “Ted” Kennedy, ma soprattutto ha distrutto ciò che un uomo come lui ha per decenni rappresentato in politica. Vale a dire l’intrallazzo, il maneggionismo, l’inciucismo alternato volentieri al radicalismo ideologico, il binomio doppiopetto e sozzura, lo spregio della giustizia anzi del Paese intero in nome dei propri porci comodi, la politica annaffiata oltre ogni ragionevole soglia di tolleranza da caterve di denari viziati, vizianti e viziosi, nonché quella cosa da voltastomaco che è il vedere un fantastiliardario atteggiarsi a buon samaritano lasciando cadere dal vetro fumé della limousine qualche spicciolo per gli homeless, meglio-che-niente si dirà e invece no, la logica è che darne un po’ ai disperati li sottrae al fisco. Tipo Una poltrona per due, per intenderci.
Brown invece è un ruspantello di provincia, magari un po’ frescone ma piuttosto genuino, né ricco né povero, middle class come la maggior parte degli americani, proprietario e lavoratore, avvocato e militare, tocco di finto scandalo che non guasta mai e alla bisogna istinto politico dalla parte giusta. Mica san Giorgio cavaliere, ma oggi alla politica tutta basterebbero semplicemente uomini politici autentici, non dei superman. Dopo l’articolo su Brown comparso a firma del sottoscritto martedì su queste pagine, un gentile lettore mi ha raggiunto sul mezzo di comunicazione e relazione più à la page del momento, Facebook, laconicamente rimbrottandomi con un “Brown altro non è che un abortista moderato”. Vero, forse. A parte il fatto che oggi il suo istinto politico sembra averlo schierato mediamente più in linea con il mondo pro-life di quanto s’immagini, la cosa significativa da ricordare è che scegliendo lui il popolo del Massachusetts ha scelto di considerare mezzo pieno il bicchiere fino a oggi visto solo mezzo vuoto. Chi gielo va insomma a dire al popolo del Massachusetts, appesantito da 50 anni di Kennedy e da 30 di progressismo Democratico, che Brown non è (correggerei in “potrebbe anche forse non essere”) il top dei top?
L’impresa in cui Brown è riuscito è enorme. Ma è enorme soprattutto perché significa che dietro a uno Scott Brown, che è quello che è come tutti sono quello che sono, esiste un popolo di votanti pari a più della metà di chi martedì ha fisicamente votato alle urne il quale ha scelto di dire basta a Obama e ai Democratici. Come ignorare infatti che di tutti seggi che i Repubblicani avrebbero mai potuto conquistare in Massachusetts il primo a incrinare lo strapotere di una politica arrogante contro le persone e contro il Paese è quello che già fu di quel “Ted” Kenendy che nemmeno da morto, come di solito accade, ha fatto il miracolo, il “Ted” che per una vita si è battuto per quella riforma sanitaria che oggi la Casa Bianca sfoggia come un fiore all’occhiello e che proprio poco prima di passare a miglior vita l’ultimo Kennedy ha pubblicamente benedetto in Obama con il crisma della continuità progressista? Come non comprendere che avere mandato a casa il seggio di “Ted” significa avere già sconfitto la politica impopolare di Obama?
La vittoria di Brown è senza dubbio storica, sia come sia il futuro. Brown è riuscito in una singolare tenzone di alto valore politico e morale come prima non era praticamente mai successo. Non era successo al bravo William J. Federer, per esempio, omonimo di un bravo tennista come Brown lo è di un bravo calciatore, quel Federer storico e saggista prestato alla politica che in novembre ha sottoscritto la “Dichiarazione di Manhattan” (di cui occorrerà riparlare) la quale unisce protestanti evangelicali, cattolici e ortodossi americani in una sfida elegantemente “di piazza” all’establishment egemonizzato dai progressisti su temi di difesa intergale della persona umana, insomma il Federer semisconosciuto che nel 2000 cercò di battere in Missouri l’allora leader della minoranza Democratica alla Camera, il potentissimo Richard “Dick” Gephardt, perdendo con onore una sfida impari ma moschettiera. Federer fu al tempo sostenuto da William H.T. “Bucky” Bush, zio del presidente George W. Bush jr., dal leader della maggioranza Repubblicana alla Camera Richard “Dick” Armey, dal fuoriclasse Repubblicano, reaganiano, cattolico e antiabortista Alan Keyes (negro, più nero e più autentico di Obama), dalla madrina del femminismo antifemminista Phyllis Schlafly, dal popolare opinionista David Limbaugh (fratello minore del popolarissimo commentatore radiofonico Rush Limbaugh), dal presidente della Corte Suprema dell’Alabama Roy S. Moore (famoso perché si ostina a mantenere in piedi il monumento ai Dieci Comandamenti nel tribunale che presiede), dal grande Chuck Norris, dal rocker conservatore Ted Nugent e dal noto radiopredicatore James C. Dobson jr., di “Focus on the Family”. La vittoria di Brown oggi vendica tutti i Federer sconfitti di ieri, ma soprattutto incorona il popolo americano che cerca, che sceglie e che premia tipi come loro. Quando i Repubblicani puntano sui conservatori vincono. Il ripasso della lezione di storia parte dal Massachusetts. Dietro Brown, infatti, spunta il popolo dei “Tea Party”, cioè il movimento della rivolta fiscale ma non solo, torna la “Right Nation”, sogna ancora l’America.
Aggiungete alla vittoria di Brown i recentissimi trionfi Repubblicani ottenuti alle elezioni per il rinnovo dei governatori di Virginia e New Jersey. Aggiungete quel dato troppo a lungo scordato che è stato il clamoroso successo della proposition a difesa della famiglia naturale e del matrimonio eterosessuale che nel novembre 2008 si è registrato nella Californication (e in altri Stati) che al contempo premiava Obama (segno tra l’altro del fatto che non tutti gli elettori di Obama sono stati degl’ideologi trinariciuti). Aggiungete che forse forse anche Sarah Palin rientrerà presto nel giro, e allora non è davvero difficile dare ragione a FoxNews che il 3 novembre scorso qualificava come referendum pro o contro Obama le elezioni di metà mandato che gli Stati Uniti celebreranno nel novembre prossimo. Un referendum dopo il quale Obama potrebbe già mettersi a preparare la valigie. Forte della vittoria ottenuta con quasi il 52% de voti contro la rivale Martha Coakley, vassalla del feudo Kennedy-Obama, Scott Brown ha dichiarato: «Cercherò di essere un degno successore di Ted Kennedy». Ecco speriamo che questa promessa non la mantenga.
Martedì nero per i Democratici statunitensi. Avrebbe dovuto essere la solita passeggiata di sempre e invece è stato un incubo. La vittoria del Repubblicano Scott Brown nelle elezioni suppletive per il Senato federale di Washington, che si sono volte martedì in Massachusetts, ha infatti non solo mandato all’aria certi giochetti politici “locali” vecchi e stantii, ma anzitutto e soprattutto lanciato alla Casa Bianca un nettissimo segnale di rivolta. Quella che potrebbe essere la fine della riforma del sistema sanitario nazionale fortemente voluta dal presidente Barack Hussein Obama parte infatti da qui, dal Massachusetts. Divenendo oggi il 41° dei senatori Repubblicani attualmente in carica, Brown infrange sugli scogli la maggioranza qualificata di 60 seggi che impedisce ogni ostruzionismo parlamentare. Per questo il Partito Repubblicano festeggia e il popolo conservatore gongola. Tenendo presente che, di tutto il castello di promesse mai mantenute, proprio la riforma sanitaria era ed è rimasta l’ultima speciosa arma retorica con cui la Casa Bianca cerca di mantenere la testa sopra la linea di galleggiamento, a solo un anno di distanza da quella montagna parolaia che nel novembre 2008 ha partorito il topolino Obama è opportuno che cronisti e commentatori inizino a rinfoderare la spocchia con cui da dodici mesi spadroneggiano nel nome di “Magic Barack”.
È dal 1952 che il seggio senatoriale ora conquistato da Brown stava inamovibilmente nelle mani del clan Kennedy, di JFK prima e dell’ineffabile “Ted” dopo; da trent’anni la rappresentanza del Massachusetts al Senato di Washington era un monolite monocolore Democratico, e pure ostaggio della componente più smaccatamente progressista del Partito Democratico. Che un Repubblicano come Brown abbia dunque infranto questa cortina di ferro è un fatto davvero eccezionale.
Per molti aspetti, Brown è un vir novus. Sì, in loco lo si conosce discretamente, le cronache mondane rimbalzano il suo nome da un bel po’, ma resta vero che per la politica di livello nazionale è ancora un “signor nessuno”. Che quindi sia un uomo così, più vicino alla gente di quanto s’immagini e più espressione del popolo di quanto si sospetti, a sbaragliare quelle gioiose macchine da guerra con ingranaggi ben oliati che in Massachusetts marciano alla guida di timonieri consumati (in tutti i sensi) e in una tornata elettorale tanto importante è un segnale politico di una forza straordinaria.
In poche settimane, il “parvenu” Brown ha polverizzato il “mito” che già manda cattivo odore di “Ted” Kennedy, ma soprattutto ha distrutto ciò che un uomo come lui ha per decenni rappresentato in politica. Vale a dire l’intrallazzo, il maneggionismo, l’inciucismo alternato volentieri al radicalismo ideologico, il binomio doppiopetto e sozzura, lo spregio della giustizia anzi del Paese intero in nome dei propri porci comodi, la politica annaffiata oltre ogni ragionevole soglia di tolleranza da caterve di denari viziati, vizianti e viziosi, nonché quella cosa da voltastomaco che è il vedere un fantastiliardario atteggiarsi a buon samaritano lasciando cadere dal vetro fumé della limousine qualche spicciolo per gli homeless, meglio-che-niente si dirà e invece no, la logica è che darne un po’ ai disperati li sottrae al fisco. Tipo Una poltrona per due, per intenderci.
Brown invece è un ruspantello di provincia, magari un po’ frescone ma piuttosto genuino, né ricco né povero, middle class come la maggior parte degli americani, proprietario e lavoratore, avvocato e militare, tocco di finto scandalo che non guasta mai e alla bisogna istinto politico dalla parte giusta. Mica san Giorgio cavaliere, ma oggi alla politica tutta basterebbero semplicemente uomini politici autentici, non dei superman. Dopo l’articolo su Brown comparso a firma del sottoscritto martedì su queste pagine, un gentile lettore mi ha raggiunto sul mezzo di comunicazione e relazione più à la page del momento, Facebook, laconicamente rimbrottandomi con un “Brown altro non è che un abortista moderato”. Vero, forse. A parte il fatto che oggi il suo istinto politico sembra averlo schierato mediamente più in linea con il mondo pro-life di quanto s’immagini, la cosa significativa da ricordare è che scegliendo lui il popolo del Massachusetts ha scelto di considerare mezzo pieno il bicchiere fino a oggi visto solo mezzo vuoto. Chi gielo va insomma a dire al popolo del Massachusetts, appesantito da 50 anni di Kennedy e da 30 di progressismo Democratico, che Brown non è (correggerei in “potrebbe anche forse non essere”) il top dei top?
L’impresa in cui Brown è riuscito è enorme. Ma è enorme soprattutto perché significa che dietro a uno Scott Brown, che è quello che è come tutti sono quello che sono, esiste un popolo di votanti pari a più della metà di chi martedì ha fisicamente votato alle urne il quale ha scelto di dire basta a Obama e ai Democratici. Come ignorare infatti che di tutti seggi che i Repubblicani avrebbero mai potuto conquistare in Massachusetts il primo a incrinare lo strapotere di una politica arrogante contro le persone e contro il Paese è quello che già fu di quel “Ted” Kenendy che nemmeno da morto, come di solito accade, ha fatto il miracolo, il “Ted” che per una vita si è battuto per quella riforma sanitaria che oggi la Casa Bianca sfoggia come un fiore all’occhiello e che proprio poco prima di passare a miglior vita l’ultimo Kennedy ha pubblicamente benedetto in Obama con il crisma della continuità progressista? Come non comprendere che avere mandato a casa il seggio di “Ted” significa avere già sconfitto la politica impopolare di Obama?
La vittoria di Brown è senza dubbio storica, sia come sia il futuro. Brown è riuscito in una singolare tenzone di alto valore politico e morale come prima non era praticamente mai successo. Non era successo al bravo William J. Federer, per esempio, omonimo di un bravo tennista come Brown lo è di un bravo calciatore, quel Federer storico e saggista prestato alla politica che in novembre ha sottoscritto la “Dichiarazione di Manhattan” (di cui occorrerà riparlare) la quale unisce protestanti evangelicali, cattolici e ortodossi americani in una sfida elegantemente “di piazza” all’establishment egemonizzato dai progressisti su temi di difesa intergale della persona umana, insomma il Federer semisconosciuto che nel 2000 cercò di battere in Missouri l’allora leader della minoranza Democratica alla Camera, il potentissimo Richard “Dick” Gephardt, perdendo con onore una sfida impari ma moschettiera. Federer fu al tempo sostenuto da William H.T. “Bucky” Bush, zio del presidente George W. Bush jr., dal leader della maggioranza Repubblicana alla Camera Richard “Dick” Armey, dal fuoriclasse Repubblicano, reaganiano, cattolico e antiabortista Alan Keyes (negro, più nero e più autentico di Obama), dalla madrina del femminismo antifemminista Phyllis Schlafly, dal popolare opinionista David Limbaugh (fratello minore del popolarissimo commentatore radiofonico Rush Limbaugh), dal presidente della Corte Suprema dell’Alabama Roy S. Moore (famoso perché si ostina a mantenere in piedi il monumento ai Dieci Comandamenti nel tribunale che presiede), dal grande Chuck Norris, dal rocker conservatore Ted Nugent e dal noto radiopredicatore James C. Dobson jr., di “Focus on the Family”. La vittoria di Brown oggi vendica tutti i Federer sconfitti di ieri, ma soprattutto incorona il popolo americano che cerca, che sceglie e che premia tipi come loro. Quando i Repubblicani puntano sui conservatori vincono. Il ripasso della lezione di storia parte dal Massachusetts. Dietro Brown, infatti, spunta il popolo dei “Tea Party”, cioè il movimento della rivolta fiscale ma non solo, torna la “Right Nation”, sogna ancora l’America.
Aggiungete alla vittoria di Brown i recentissimi trionfi Repubblicani ottenuti alle elezioni per il rinnovo dei governatori di Virginia e New Jersey. Aggiungete quel dato troppo a lungo scordato che è stato il clamoroso successo della proposition a difesa della famiglia naturale e del matrimonio eterosessuale che nel novembre 2008 si è registrato nella Californication (e in altri Stati) che al contempo premiava Obama (segno tra l’altro del fatto che non tutti gli elettori di Obama sono stati degl’ideologi trinariciuti). Aggiungete che forse forse anche Sarah Palin rientrerà presto nel giro, e allora non è davvero difficile dare ragione a FoxNews che il 3 novembre scorso qualificava come referendum pro o contro Obama le elezioni di metà mandato che gli Stati Uniti celebreranno nel novembre prossimo. Un referendum dopo il quale Obama potrebbe già mettersi a preparare la valigie. Forte della vittoria ottenuta con quasi il 52% de voti contro la rivale Martha Coakley, vassalla del feudo Kennedy-Obama, Scott Brown ha dichiarato: «Cercherò di essere un degno successore di Ted Kennedy». Ecco speriamo che questa promessa non la mantenga.
mercoledì 20 gennaio 2010
Waterloo, Massachusetts
È stata una notte più breve del previsto, quella che ha visto consumarsi in Massachusetts la più clamorosa batosta elettorale ai danni del partito democratico degli ultimi quindici anni. Già alle 9 della sera (le 3 del mattino, in Italia), Fox News ha assegnato la vittoria al candidato repubblicano, Scott Brown. Gli altri network hanno aspettato un po’ più a lungo, ma quando, verso le 10, anche Associated Press ha effettuato la chiamata, la percezione della disfatta democratica era ormai considerata un dato di fatto. Poi, da lì a qualche minuto, l’evento storico si è compiuto. La candidata democratica Marta Coakley ha riconosciuto la sconfitta, il quartier generale del Gop (già su di giri da qualche ora) è esploso come un petardo nella notte del 4 luglio e Scott Brown è diventato il nuovo senatore junior del Commonwealth del Massachusetts, conquistando il seggio che fu prima di John F. Kennedy e poi di suo fratello Ted, saldamente in mano democratica da oltre mezzo secolo. Brown, soprattutto, diventa il 41° voto repubblicano al Senato, togliendo al partito del presidente Obama quel preziosissimo sessantesimo seggio che, secondo i regolamenti del Congresso Usa, consente alla maggioranza di aggirare qualsiasi pratica ostruzionistica dell’opposizione.
Le due settimane più lunghe di Barack
Tutto era iniziato il 4 gennaio, quando il sondaggista Scott Rasmussen ha pubblicato una sorprendente ricerca sulle elezioni suppletive del Massachusetts, fino a quel momento considerate poco più di una formalità per i democratici. Il sondaggio di Rasmussen, invece, registrava un vantaggio per la Coakley inferiore ai dieci punti percentuali (9, per l’esattezza) che aveva in un primo momento provocato l’ilarità degli analisti, soprattutto democratici, che consideravano del tutto irrealistico uno scarto così ridotto. Per comprendere pienamente l’entità dell’evento sismico che si è verificato nella notte tra martedì e mercoledì, bisogna fare un breve excursus nella storia elettorale dello stato nel dopoguerra. In quella che i conservatori chiamano con disprezzo People’s Republic of Massachusetts (Repubblica Popolare del Massachusetts), JFK ha vinto a fatica le elezioni per il Senato nel 1952 (51-48), ma da quella data in poi il distacco tra democratici e repubblicani è sempre stato elevatissimo. Tanto che il risultato migliore per il Gop l’aveva ottenuto Mitt Romney (poi diventato governatore) che nel 1994 - anno favorevolissimo al Gop - aveva perso contro Ted Kennedy con “soli” 17 punti percentuali di scarto. Nel seggio non di proprietà diretta della dinastia Kennedy, invece, John Kerry nel 2002 è riuscito addirittura a correre senza oppositori. E appena un anno fa, Kerry aveva sconfitto Jeff Beatty 65-30: trentacinque punti percentuali e oltre un milione di voti di vantaggio.
Il panico (tardivo) dei democratici
Data per scontata la vittoria, i democratici hanno praticamente fermato la loro poderosa macchina elettorale in Massachusetts appena dopo la vittoria della Coakley alle primarie. Ma non hanno tenuto conto di almeno due fattori: la crescente opposizione nazionale al piano di riforma sanitario faticosamente approvato dal Congresso e la protesta montante della popolazione nei confronti della politica economica della Casa Bianca, maturata con il dilagare dei Tea Party in ogni angolo della nazione (Massachusetts compreso). Il sondaggio di Rasmussen è stato frettolosamente archiviato come una bizzarra “anomalia statistica”. E i democratici hanno continuato a dormire sonni ancora più tranquilli. L’incubo, invece, era appena iniziato.
Ad appena una settimana dal voto, infatti, è arrivato un altro fulmine a ciel sereno: secondo il sondaggista democratico Tom Jensen di Public Policy Polling, infatti, Brown era addirittura davanti alla Coakley (anche se solo dell’1%) e stava riuscendo a monopolizzare il voto degli indipendenti, strappando addirittura il consenso di qualche elettore tradizionalmente democratico. Se il partito di Obama aveva avuto buon gioco nel definire Rasmussen come un sondaggista vicino ai repubblicani (affermazione non del tutto corretta, per la verità), Jensen non poteva certo essere considerato un “guastatore” del nemico, vista la sua storica vicinanza, anche professionale, con il partito democratico. E il fulmine si è presto trasformato in un acquazzone fuori stagione.
Arrivano i rinforzi da Washington
La Casa Bianca e i vertici del partito, consapevoli che una sconfitta in Massachusetts avrebbe tolto alla maggioranza il 60° voto del Senato necessario a frenare ogni velleità di filibustering da parte del Gop, sono entrai immediatamente (si fa per dire) in emergency-mode. Bill Clinton e i suoi surrogati si sono precipitati nello stato a fare campagna per la Coakley. A ventiquattr’ore dall’apertura delle urne, si è scomodato addirittura il presidente, anche se già iniziavano a circolare memo interni dell’amministrazione che accusavano di inettitudine la candidata democratica e memo interni della campagna Coakley che accusavano la Casa Bianca di scarso impegno.
Mentre i repubblicani di tutti gli Stati Uniti si chiedevano, sbigottiti, se fosse davvero arrivato il momento della “liberazione” atteso da oltre mezzo secolo, gli attivisti dei Tea Party battevano lo stato palmo a palmo, sconfiggevano clamorosamente liberal e progressive proprio sui loro terreno preferito (guerrilla marketing, fundraising online e controllo dei social network) e smentivano ancora una volta chi li considera custodi un po’ ottusi della “purezza” conservatrice, appoggiando con tutta l’energia possibile un candidato in alcuni casi eterodosso rispetto al baricentro ideologico del movimento.
Il crollo verticale
Negli ultimi giorni della campagna elettorale, Brown inizia una surge statistica con pochi precedenti nella storia americana. I sondaggisti che registrano un vantaggio per Brown - a volte minimo, a volte più consistente - si moltiplicano. E perfino gli istituti di ricerca più vicini al partito democratico si arrendono all’ipotesi di una gara combattuta sul filo di lana. Un’eventualità, per il Massachusetts, semplicemente fantascientifica fino a un paio di settimane prima. In realtà, chiuse le urne e contati i voti, tutto è stato più semplice del previsto. Il turnout discreto dei democratici a Boston, provocato dal tentativo di “nazionalizzare” in extremis la sfida, è stato schiacciato dai numeri straordinari ottenuti dal Gop nei sobborghi di Bay State, dove il candidato repubblicano è riuscito non solo ad energizzare la base conservatrice, ma a smuovere la tradizionale apatia dell’elettorato “indipendente”, che si è spostato con percentuali “bulgare” dalla parte di Scott Brown, che alla fine ha vinto con 5 punti percentuali e oltre 100mila voti di distacco.
Ma qualsiasi considerazione locale scompare di fronte all’impatto di queste elezioni sul panorama politico nazionale. Dopo le sconfitte di novembre in Virginia e (soprattutto) New Jersey, Obama si trova di fronte a un ambiente politico estremamente ostile: il suo job approval è ormai stabilmente al di sotto della linea di galleggiamento del 50%; il suo partito perde regolarmente le sfide nel congressional generic ballot; la riforma sanitaria è a rischio; la sua politica ecomomica ha indici di approvazione che sfiorano il 30%; i potenziali candidati democratici alle elezioni di mid-term (incumbent compresi) fanno a gara nel ritirarsi dalla co,petizione; i repubblicani, che sembravano definitivamente usciti di gioco, sono più motivati e combattivi che mai; i Tea Party raccolgono libertarian, indipendenti e conservatori in un unico movimento di protesta anti-statalista, diffuso e sul piede di guerra. «La situazione, forse, è peggio di come ce le immaginavamo», ha ammesso ieri l’analista-blogger democratico Nate Silver, che fino all’ultimo minuto si rifiutava di credere all’eventualità di una vittoria repubblicana in Massachusetts. E il “peggio”, probabilmente, per Obama e i democratici deve ancora arrivare.
(domani in edicola su Liberal quotidiano)
Le due settimane più lunghe di Barack
Tutto era iniziato il 4 gennaio, quando il sondaggista Scott Rasmussen ha pubblicato una sorprendente ricerca sulle elezioni suppletive del Massachusetts, fino a quel momento considerate poco più di una formalità per i democratici. Il sondaggio di Rasmussen, invece, registrava un vantaggio per la Coakley inferiore ai dieci punti percentuali (9, per l’esattezza) che aveva in un primo momento provocato l’ilarità degli analisti, soprattutto democratici, che consideravano del tutto irrealistico uno scarto così ridotto. Per comprendere pienamente l’entità dell’evento sismico che si è verificato nella notte tra martedì e mercoledì, bisogna fare un breve excursus nella storia elettorale dello stato nel dopoguerra. In quella che i conservatori chiamano con disprezzo People’s Republic of Massachusetts (Repubblica Popolare del Massachusetts), JFK ha vinto a fatica le elezioni per il Senato nel 1952 (51-48), ma da quella data in poi il distacco tra democratici e repubblicani è sempre stato elevatissimo. Tanto che il risultato migliore per il Gop l’aveva ottenuto Mitt Romney (poi diventato governatore) che nel 1994 - anno favorevolissimo al Gop - aveva perso contro Ted Kennedy con “soli” 17 punti percentuali di scarto. Nel seggio non di proprietà diretta della dinastia Kennedy, invece, John Kerry nel 2002 è riuscito addirittura a correre senza oppositori. E appena un anno fa, Kerry aveva sconfitto Jeff Beatty 65-30: trentacinque punti percentuali e oltre un milione di voti di vantaggio.
Il panico (tardivo) dei democratici
Data per scontata la vittoria, i democratici hanno praticamente fermato la loro poderosa macchina elettorale in Massachusetts appena dopo la vittoria della Coakley alle primarie. Ma non hanno tenuto conto di almeno due fattori: la crescente opposizione nazionale al piano di riforma sanitario faticosamente approvato dal Congresso e la protesta montante della popolazione nei confronti della politica economica della Casa Bianca, maturata con il dilagare dei Tea Party in ogni angolo della nazione (Massachusetts compreso). Il sondaggio di Rasmussen è stato frettolosamente archiviato come una bizzarra “anomalia statistica”. E i democratici hanno continuato a dormire sonni ancora più tranquilli. L’incubo, invece, era appena iniziato.
Ad appena una settimana dal voto, infatti, è arrivato un altro fulmine a ciel sereno: secondo il sondaggista democratico Tom Jensen di Public Policy Polling, infatti, Brown era addirittura davanti alla Coakley (anche se solo dell’1%) e stava riuscendo a monopolizzare il voto degli indipendenti, strappando addirittura il consenso di qualche elettore tradizionalmente democratico. Se il partito di Obama aveva avuto buon gioco nel definire Rasmussen come un sondaggista vicino ai repubblicani (affermazione non del tutto corretta, per la verità), Jensen non poteva certo essere considerato un “guastatore” del nemico, vista la sua storica vicinanza, anche professionale, con il partito democratico. E il fulmine si è presto trasformato in un acquazzone fuori stagione.
Arrivano i rinforzi da Washington
La Casa Bianca e i vertici del partito, consapevoli che una sconfitta in Massachusetts avrebbe tolto alla maggioranza il 60° voto del Senato necessario a frenare ogni velleità di filibustering da parte del Gop, sono entrai immediatamente (si fa per dire) in emergency-mode. Bill Clinton e i suoi surrogati si sono precipitati nello stato a fare campagna per la Coakley. A ventiquattr’ore dall’apertura delle urne, si è scomodato addirittura il presidente, anche se già iniziavano a circolare memo interni dell’amministrazione che accusavano di inettitudine la candidata democratica e memo interni della campagna Coakley che accusavano la Casa Bianca di scarso impegno.
Mentre i repubblicani di tutti gli Stati Uniti si chiedevano, sbigottiti, se fosse davvero arrivato il momento della “liberazione” atteso da oltre mezzo secolo, gli attivisti dei Tea Party battevano lo stato palmo a palmo, sconfiggevano clamorosamente liberal e progressive proprio sui loro terreno preferito (guerrilla marketing, fundraising online e controllo dei social network) e smentivano ancora una volta chi li considera custodi un po’ ottusi della “purezza” conservatrice, appoggiando con tutta l’energia possibile un candidato in alcuni casi eterodosso rispetto al baricentro ideologico del movimento.
Il crollo verticale
Negli ultimi giorni della campagna elettorale, Brown inizia una surge statistica con pochi precedenti nella storia americana. I sondaggisti che registrano un vantaggio per Brown - a volte minimo, a volte più consistente - si moltiplicano. E perfino gli istituti di ricerca più vicini al partito democratico si arrendono all’ipotesi di una gara combattuta sul filo di lana. Un’eventualità, per il Massachusetts, semplicemente fantascientifica fino a un paio di settimane prima. In realtà, chiuse le urne e contati i voti, tutto è stato più semplice del previsto. Il turnout discreto dei democratici a Boston, provocato dal tentativo di “nazionalizzare” in extremis la sfida, è stato schiacciato dai numeri straordinari ottenuti dal Gop nei sobborghi di Bay State, dove il candidato repubblicano è riuscito non solo ad energizzare la base conservatrice, ma a smuovere la tradizionale apatia dell’elettorato “indipendente”, che si è spostato con percentuali “bulgare” dalla parte di Scott Brown, che alla fine ha vinto con 5 punti percentuali e oltre 100mila voti di distacco.
Ma qualsiasi considerazione locale scompare di fronte all’impatto di queste elezioni sul panorama politico nazionale. Dopo le sconfitte di novembre in Virginia e (soprattutto) New Jersey, Obama si trova di fronte a un ambiente politico estremamente ostile: il suo job approval è ormai stabilmente al di sotto della linea di galleggiamento del 50%; il suo partito perde regolarmente le sfide nel congressional generic ballot; la riforma sanitaria è a rischio; la sua politica ecomomica ha indici di approvazione che sfiorano il 30%; i potenziali candidati democratici alle elezioni di mid-term (incumbent compresi) fanno a gara nel ritirarsi dalla co,petizione; i repubblicani, che sembravano definitivamente usciti di gioco, sono più motivati e combattivi che mai; i Tea Party raccolgono libertarian, indipendenti e conservatori in un unico movimento di protesta anti-statalista, diffuso e sul piede di guerra. «La situazione, forse, è peggio di come ce le immaginavamo», ha ammesso ieri l’analista-blogger democratico Nate Silver, che fino all’ultimo minuto si rifiutava di credere all’eventualità di una vittoria repubblicana in Massachusetts. E il “peggio”, probabilmente, per Obama e i democratici deve ancora arrivare.
(domani in edicola su Liberal quotidiano)
A Midwinter Night's Dream
04:40. E' molto tardi e andiamo a dormire. Mancano all'appello una decina di seggi che non potranno in alcun modo cambiare il risultato finale. Scott Brown è il nuovo senatore jr. del Massachusetts, il successore di Ted Kennedy e il 41° voto del GOP al Senato. Oggi è accaduto qualcosa di impensabile, soltanto fino a pochi giorni fa, che avrà un impatto profondo sulla politica americana, non solo nel breve periodo. Avremo il tempo di analizzare tutto nelle prossime ore. Ma la riflessione, stavolta, tocca soprattutto ai Democratici, sempre che non siano già troppo impegnati a far scivolare la riformetta della sanità tra le pieghe della burocrazia. Noi, per ora, ci andiamo a godere questo fantastico e inaspettato sogno di mezzo inverno. Il Commonwealth del Massachusetts ha dimostrato che i seggi del Senato statunitense non appartengono alle famiglie, alle dinastie o ai partiti, ma al popolo. God Bless America!
04:37.
2154/2168
Coakley (Dem) 1,052,391 - 47%
Brown (GOP) 1,153,808 - 52%
04:25. (...) I can tell you right now, there are a whole crap load of Democrats in marginal seats thinking “if we can’t hold Teddy Kennedy’s seat in Massachusetts, what chance have I unless I do something completely different?” Nancy Pelosi and Harry Reid wake up to a whole new world tomorrow. McQ on QandO
04:18.
2107/2168
Coakley (Dem) 1,018,272 - 47%
Brown (GOP) 1,135,249 - 52%
04:12. Aspettando il discorso di Scott Brown, su Fox News c'è Karl Rove. Dopo il break.
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2084/2168
Coakley (Dem) 1,005,997 - 47%
Brown (GOP) 1,112,574 - 52%
04:02.Durante il concession speech, la Coakley ringrazia lo staff, i foot-soldiers e la famiglia Kennedy. Ci uniamo ai ringraziamenti.
04:00.
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Coakley (Dem) 995,329 - 47%
Brown (GOP) 1,103,326 - 52%
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Coakley (Dem) 974,753 - 47%
Brown (GOP) 1,089,039 - 52%
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Brown (GOP) 1,062,322 - 52%
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Coakley (Dem) 921,459 - 47%
Brown (GOP) 1,036,855 - 52%
03:39. Sarah Palin: Congratulations to the new Senator-elect from Massachusetts! Scott Brown’s victory proves that the desire for real solutions transcends notions of “blue state” and “red state”. Americans agree that we need to hold our politicians accountable and bring common sense to D.C. (via Twitter)
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1884/2168
Coakley (Dem) 887,754 - 47%
Brown (GOP) 996,990 - 52%
03:34. Dem pollster Celinda Lake: "There's a wave... it hit VA, it hit NJ, it hit MA." (via Twitter)
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Coakley (Dem) 837,684 - 47%
Brown (GOP) 934,045 - 52%
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Brown (GOP) 907,421 - 52%
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Coakley (Dem) 811,036 - 47%
Brown (GOP) 907,421 - 52%
03:24. Ruffini: Coakley just conceded.
03:23. Associated Press chiama la corsa per Brown. Su Fox News dicono che la Coakley starebbe per concedere la sconfitta.
03:22.
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Coakley (Dem) 720,460 - 46%
Brown (GOP) 822,901 - 53%
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Coakley (Dem) 668,881 - 46%
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Coakley (Dem) 630,859 - 46%
Brown (GOP) 715,962 - 53%
03:10. Patrick Ruffini projects Scott Brown elected the next U.S. Senator from Massachusetts, and the 41st Republican vote (via Twitter)
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Coakley (Dem) 607,073 - 46%
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03:06. Romney si pavoneggia su Fox News. Io ancora non posso crederci...
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Brown (GOP) 653,782 - 53%
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Brown (GOP) 587,389 - 52%
03:02. I dati contea per contea. Il liveblogging di Pollster.com.
02:59. Francesco Costa non è per niente soddisfatto...
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Coakley (Dem) 459,949 - 47%
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02:44. Patrick Ruffini: Very close to calling it for Brown (via Twitter)
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02:37. Is it happening?
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domenica 17 gennaio 2010
Viva Chile y Piñera Presidente!
UPDATE. Primer cómputo: Sebastián Piñera 51.87 %; Eduardo Frei 48.12 %. Frei accetta la sconfitta.
UPDATE 2. Piñera 51,61% Frei 48,38%.
UPDATE 3. Lo streaming live di una tv cilena. Analisi e festeggiamenti.
sabato 16 gennaio 2010
Ense Petit Placidam Sub Libertate Quietem
venerdì 15 gennaio 2010
Ragazzacci...
Il Giornale si occupa della “rivolta online” contro la Polverini. E il pezzo di Gian Maria De Francesco è soprendentemente accurato, per venire dai mainstream media. L'unica cosa sbagliata è il titolo («Liberali del Pdl contro la Polverini»). Qui il problema non ce l'hanno soltanto i liberali, ma anche quelli che non si sono mai vergognati di essere conservatori.
giovedì 14 gennaio 2010
Schizofrenia, paranoia, ignoranza
Per descrivere il rapporto tra classe politica italiana e Internet si può soltanto ricorrere a concetti presi in prestito dalla letteratura medica. E in particolare da quella branca specialistica della medicina che si occupa della prevenzione, della cura e della riabilitazione dei disturbi mentali: la psichiatria.
Partiamo dalla schizofrenia.Chi scrive ha ascoltato con le proprie orecchie, dopo le elezioni presidenziali americani del 2008, un numero impressionante di esponenti politici nostrani incensare in modo addirittura eccessivo le sorti “magnifiche e progressive” della rete. I successi obamiani nel fundraising online, la capacità di mobilitazione di strati di popolazione mai coinvolti nelle dinamiche politiche, le potenzialità nella condivisione in tempo reale delle informazioni: tutto, proprio tutto, sembrava precludere a un futuro radioso della politica, alimentato da quella gallina dalle uova d’oro post-moderna che rispondeva (e risponde) al nome di Internet. In realtà, il ruolo svolto dalla rete nel processo politico statunitense era centrale da ormai quasi un decennio. Ed era già esploso alle presidenziali del 2004, quando un manipolo di blog conservatori aveva prima sventato un golpe mediatico della Cbs ai danni di Bush (il cosiddetto “Rathergate”) e poi compromesso definitivamente il nucleo centrale della narrativa alla base della candidatura di Kerry (lo scandalo delle medaglie “immotivate” in Vietnam).
Eppure, gli stessi uomini politici che fino a qualche settimana prima si erano allegramente disinteressati al fenomeno, dopo la sbornia obamista planetaria sono improvvisamente diventati guru dei new media e dei social network politici, pronti ad affrontare le insidie della blogosfera proprio nel momento in cui in fenomeno dei blog iniziava la sua parabola discendente. Misteri dell’ipnosi collettiva.
Ma i casi di schizofrenia non si fermano qui. Un esempio tra i tanti: fino a qualche settimana fa, se un politico italiano aveva meno di diecimila “amici” su Facebook era considerato un paria tra i suoi colleghi. Dopo l’aggressione a Berlusconi in piazza del Duomo – e la proliferazione di pagine a sostegno del lanciatore psicolabile di souvenir – il social network fondato da Mark Zuckerberg è improvvisamente diventato il corrispettivo telematico dell’anti-Cristo. E si sono moltiplicate le voci dei politici che ne chiedevano la chiusura immediata. Soprattutto a nome dei loro diecimila amici su Facebook.
Oltre alla schizofrenia, poi, c’è la paranoia. Come spiegare, altrimenti, il bizzarro decreto legislativo d’attuazione di una direttiva Ue sul quale il governo ha chiesto un parere (non vincolante) al Parlamento? Secondo alcuni, si tratterebbe del tentativo di trasformare Internet in una grande televisione. Secondo altri, la volontà è quella di mettere una zavorra sulle ali delle web-tv per impedire che possano fare troppa concorrenza alla televisione generalista (se nella definizione sia compresa anche YouTube è controverso, e il testo del provvedimento non aiuta a capire). Qualunque sia l’interpretazione più corretta, resta il fatto che l’istinto di “protezione” a cui si è lasciato andare il governo somiglia terribilmente a un “disturbo delirante” basato su un “tema persecutorio non corrispondente alla realtà”. La paranoia, appunto.
Ci sono, infine, i politici che non sono né schizofrenici né paranoici, ma che modulano il loro approccio alla rete seguendo i ritmi della cara, vecchia “ignoranza” (nel senso non-socratico del termine). Questo, però, è tutto un altro discorso.
Partiamo dalla schizofrenia.Chi scrive ha ascoltato con le proprie orecchie, dopo le elezioni presidenziali americani del 2008, un numero impressionante di esponenti politici nostrani incensare in modo addirittura eccessivo le sorti “magnifiche e progressive” della rete. I successi obamiani nel fundraising online, la capacità di mobilitazione di strati di popolazione mai coinvolti nelle dinamiche politiche, le potenzialità nella condivisione in tempo reale delle informazioni: tutto, proprio tutto, sembrava precludere a un futuro radioso della politica, alimentato da quella gallina dalle uova d’oro post-moderna che rispondeva (e risponde) al nome di Internet. In realtà, il ruolo svolto dalla rete nel processo politico statunitense era centrale da ormai quasi un decennio. Ed era già esploso alle presidenziali del 2004, quando un manipolo di blog conservatori aveva prima sventato un golpe mediatico della Cbs ai danni di Bush (il cosiddetto “Rathergate”) e poi compromesso definitivamente il nucleo centrale della narrativa alla base della candidatura di Kerry (lo scandalo delle medaglie “immotivate” in Vietnam).
Eppure, gli stessi uomini politici che fino a qualche settimana prima si erano allegramente disinteressati al fenomeno, dopo la sbornia obamista planetaria sono improvvisamente diventati guru dei new media e dei social network politici, pronti ad affrontare le insidie della blogosfera proprio nel momento in cui in fenomeno dei blog iniziava la sua parabola discendente. Misteri dell’ipnosi collettiva.
Ma i casi di schizofrenia non si fermano qui. Un esempio tra i tanti: fino a qualche settimana fa, se un politico italiano aveva meno di diecimila “amici” su Facebook era considerato un paria tra i suoi colleghi. Dopo l’aggressione a Berlusconi in piazza del Duomo – e la proliferazione di pagine a sostegno del lanciatore psicolabile di souvenir – il social network fondato da Mark Zuckerberg è improvvisamente diventato il corrispettivo telematico dell’anti-Cristo. E si sono moltiplicate le voci dei politici che ne chiedevano la chiusura immediata. Soprattutto a nome dei loro diecimila amici su Facebook.
Oltre alla schizofrenia, poi, c’è la paranoia. Come spiegare, altrimenti, il bizzarro decreto legislativo d’attuazione di una direttiva Ue sul quale il governo ha chiesto un parere (non vincolante) al Parlamento? Secondo alcuni, si tratterebbe del tentativo di trasformare Internet in una grande televisione. Secondo altri, la volontà è quella di mettere una zavorra sulle ali delle web-tv per impedire che possano fare troppa concorrenza alla televisione generalista (se nella definizione sia compresa anche YouTube è controverso, e il testo del provvedimento non aiuta a capire). Qualunque sia l’interpretazione più corretta, resta il fatto che l’istinto di “protezione” a cui si è lasciato andare il governo somiglia terribilmente a un “disturbo delirante” basato su un “tema persecutorio non corrispondente alla realtà”. La paranoia, appunto.
Ci sono, infine, i politici che non sono né schizofrenici né paranoici, ma che modulano il loro approccio alla rete seguendo i ritmi della cara, vecchia “ignoranza” (nel senso non-socratico del termine). Questo, però, è tutto un altro discorso.
mercoledì 13 gennaio 2010
Tea Party all'italiana
Sono due blogger di Tocqueville molto distanti tra loro: JimMomo e Giova. Per adoperare categorie “americane”, il primo appartiene al filone libertarian; il secondo a quello dei social conservatives. E rappresentano bene due dei filoni ideologico-culturali che compongono una classica coalizione di centrodestra, in Italia come negli Stati Uniti. Di solito hanno opinioni anche sensibilmente diverse su molti temi, dall'economia alla bioetica, dalla politica estera all'immigrazione. Oggi, però, un argomento li unisce: il rifiuto della candidatura di Renata Polverini alla presidenza della Regione Lazio. Io, che sono fusionista, mi trovo in sintonia al 100% con loro: che senso ha, per la destra, vincere le elezioni per poi ritrovarsi con un governatore di sinistra (o che vuole attuare politiche di sinistra, che poi è la stessa cosa)? È arrivato il momento, anche da noi, di un moto di ribellione dal basso come quello che ha impedito la vittoria della “rino” Dede Scozzafava a NY-23. Anche a costo di perdere una elezione.
martedì 12 gennaio 2010
domenica 10 gennaio 2010
The People's Republic of Massachusetts
Premessa: inizierò a credere ad una vittoria del repubblicano Scott Brown alle elezioni suppletive per il seggio senatoriale di Ted Kennedy soltanto se - dopo la chiusura delle urne - la sua avversaria, Martha Coakley, avrà reso pubbliche almeno un paio di concession e soltanto dopo che saranno passate almene tre settimane dall'insediamento ufficiale di Brown al Congresso. Fino a quel momento, per me i democratici sono destinati a conservare il seggio del Massachusetts fino al termine della Storia.
Fatta questa premessa, però, sono estremamente divertito dal fatto che un'ipotesi del genere (una vittoria del GOP in Massachusetts) possa perfino essere presa in considerazione sui mainstream media. A scatenare il putiferio, dopo qualche voce che era già circolata nei giorni scorsi, è stato senz'altro l'ultimo sondaggio di Public Policy Polling che vede un toss-up nello stato con Brown davanti di un punto percentuale. Ai più distratti, ricordiamo che Tom Jensen di PPP è un analista di provata fede democratica (e dalle discrete capacità, se escludiamo il recente flop di NY-23). Altri sondaggisti, comunque, continuano a registrare un vantaggio sensibile per la Coakley (+15% per il Boston Globe, +9% per Rasmussen Reports). Mentre Jim Gerathy della National Review parla anche di un sondaggio del Boston Herald, non ancora reso pubblico, in cui la Coakley sarebbe davanti di 7 punti, ma con un vantaggio che scenderebbe all'1% calcolando solo i likely voters.
Quindici, sette, uno o meno uno? Come stanno davvero le cose è impossibile dirlo, ma resta il fatto che Obama, appena un anno fa ha vinto in Massachusetts con un distacco di 26 punti percentuali (62.0% contro 36.2%) e di quasi 800mila voti (su 3 milioni). Sembra passato un secolo.
UPDATE. Sullo stesso argomento, in italiano, Giova.
Fatta questa premessa, però, sono estremamente divertito dal fatto che un'ipotesi del genere (una vittoria del GOP in Massachusetts) possa perfino essere presa in considerazione sui mainstream media. A scatenare il putiferio, dopo qualche voce che era già circolata nei giorni scorsi, è stato senz'altro l'ultimo sondaggio di Public Policy Polling che vede un toss-up nello stato con Brown davanti di un punto percentuale. Ai più distratti, ricordiamo che Tom Jensen di PPP è un analista di provata fede democratica (e dalle discrete capacità, se escludiamo il recente flop di NY-23). Altri sondaggisti, comunque, continuano a registrare un vantaggio sensibile per la Coakley (+15% per il Boston Globe, +9% per Rasmussen Reports). Mentre Jim Gerathy della National Review parla anche di un sondaggio del Boston Herald, non ancora reso pubblico, in cui la Coakley sarebbe davanti di 7 punti, ma con un vantaggio che scenderebbe all'1% calcolando solo i likely voters.
Quindici, sette, uno o meno uno? Come stanno davvero le cose è impossibile dirlo, ma resta il fatto che Obama, appena un anno fa ha vinto in Massachusetts con un distacco di 26 punti percentuali (62.0% contro 36.2%) e di quasi 800mila voti (su 3 milioni). Sembra passato un secolo.
UPDATE. Sullo stesso argomento, in italiano, Giova.
venerdì 8 gennaio 2010
Unemployment
I dati sulla disoccupazione americana di dicembre sono peggio del previsto. La percentuale (seasonally adjusted) è inchiodata al 10%: 85mila posti di lavoro in meno rispetto a novembre (contro i 35mila stimati dagli economisti), in controtendenza rispetto ai numeri dello scorso mese (+4mila). Se la tendenza non si inverte in fretta, a novembre le elezioni di mid-term saranno uno spettacolo interessante.
Realignment
Secondo Gallup, noto sondaggista di estrema destra, alla fine del 2009 quattro cittadini americani su dieci si definiscono “conservatori”, contro il 36% di “moderati” e il 21% di “liberal”. Siamo esattamente alle stesse percentuali del biennio 2003-2004, che si concluse con la rielezione di George W. Bush alla Casa Bianca. Davvero strano: ci avevano assicurato che nel novembre 2008 eravamo stati testimoni di uno storico rialignment nello spettro ideologico statunitense...
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